VEROSPI, Fabrizio
– Nacque a Roma nel 1571 da Girolamo e da Penelope di Antonio Gabrielli. La famiglia paterna era di origini castigliane.
Il nonno Ferdinando (altrimenti detto Ferrante), secondo il memorialista Marcantonio Valena, arrivò nella città del papa insieme con l’imperatore nell’aprile del 1536, ricoprendo l’incarico di suo elemosiniere, e decise di fermarsi in Italia; si stabilì dapprima a Lucca, dove costruì l’organo del duomo e poi si trasferì a Roma. Secondo altre fonti, invece, vi giunse solo dopo la metà del Cinquecento e fece fortuna come mercante. Di certo godeva di un discreto patrimonio: comprò infatti nello stesso torno di anni un palazzo nel rione Trevi e due tenute nella campagna romana. Ma fu il matrimonio di suo figlio Girolamo con una delle sei figlie di Antonio Gabrielli a rappresentare la mossa decisiva per l’ascesa della famiglia. Antonio Gabrielli, appartenente a un casato di origini eugubine radicato a Roma fin dalla prima metà del Cinquecento, era un noto giurisperito della Curia. Su questo stesso cammino si indirizzò Verospi.
Inviato a studiare a Bologna, conseguì la laurea in utroque iure il 19 febbraio 1594. Ebbe nello stesso anno il grado di referendario delle due Segnature e, nell’aprile del 1597, fu nominato governatore di Cesena. Alla fine di dicembre, quindi, passò come vicegovernatore a Fermo. Primo titolare del governo della città marchigiana era il cardinal nipote di papa Clemente VIII, Pietro Aldobrandini. Verospi seppe conquistarne la fiducia. Dopo un’ultima parentesi come governatore di Civita Castellana (con atto di nomina del 20 luglio 1597), rientrò a Roma e fu nominato uditore delle contraddette della Dataria, vale a dire il magistrato che tentava di comporne il contenzioso (o risolveva con una propria decisione). Nel contempo, Verospi si faceva notare anche come oratore: così, il 27 dicembre 1601, in S. Maria in Aracoeli, gli fu affidato il discorso in memoria di Giovan Francesco Aldobrandini, il generale di Santa Chiesa morto a Varaždin il 17 settembre dello stesso anno.
Nell’aprile del 1602, Verospi fu nominato protonotario apostolico ed entrò in carica come commissario del cardinale camerlengo Aldobrandini. In questa veste, partecipò alle trattative con i rappresentanti del Granducato di Toscana per la composizione della vertenza relativa alla regolazione delle acque della Val di Chiana.
Il fiume nel suo segmento meridionale era ritenuto responsabile delle inondazioni di Roma, poiché confluiva prima nel Paglia e da questo nel Tevere. Un accordo con i granduchi non era facile, poiché lo stesso corso d’acqua, nel suo tratto settentrionale, era stato portato a confluire nell’Arno: qualunque alterazione del regime esistente avrebbe potuto mettere a rischio Firenze.
Verospi, fra il settembre e l’ottobre del 1607, insieme con Muzio Mattei, incontrò l’ambasciatore Giovanni Nicolini a Roma e raggiunse un accordo soddisfacente, che ebbe altresì modo di difendere con energia. Infatti, se si presta fede alla Relazione di Roma di Dirk van Ameyden, Verospi si rese protagonista di un intervento direttamente sul posto, spalleggiato da soldati e guastatori. Opere in muratura erette dalla parte toscana, per suo ordine, furono così smantellate a forza. Il fatto gli avrebbe garantito l’inimicizia perpetua di casa Medici.
Tornato alla sua attività di giusdicente e di alto funzionario dell’amministrazione finanziaria, la carriera di Verospi conobbe in parallelo importanti avanzamenti: nel 1611 egli acquistò un ufficio di chierico della Camera apostolica e nel 1612 fu nominato uditore della Sacra Rota. In questa veste fu estensore di sentenze che fecero scuola, più volte pubblicate.
Le competenze in questo ambito di Verospi sono altresì alla base della sua nomina a nunzio straordinario all’imperatore, in occasione dell’arresto del cardinale Melchior Klesl.
Vescovo di Vienna e capo del consiglio privato imperiale, il porporato era il più ascoltato ministro di Mattia d’Asburgo. La sua politica di compromesso nei confronti dei protestanti si era spinta al punto di opporsi alla futura successione a Mattia del cugino Ferdinando, se prima non si fosse raggiunto un accordo fra le confessioni. Si trattava di una posizione insostenibile, mentre nelle terre asburgiche la Controriforma prendeva piede e stava per iniziare la fase più dura dello scontro, la guerra dei Trent’anni. Così, quando Klesl si dimostrò morbido addirittura nei confronti dei ribelli protagonisti della defenestrazione di Praga, i capi cattolici più intransigenti, l’arciduca d’Austria Massimiliano e lo stesso Ferdinando d’Asburgo ruppero gli indugi: il 20 luglio 1618, il cardinale fu arrestato con l’accusa di complicità con la sedizione boema, di favoreggiamento di turchi e protestanti e addirittura di simonia.
In tutto ciò, la Sede apostolica intese soprattutto salvaguardare le prerogative della propria giurisdizione. La politica spregiudicata del cardinale non trovava certo approvazione, ma non poteva essere accettato l’arresto di un membro del Sacro Collegio, accompagnato dalla confisca dei suoi beni e delle entrate delle diocesi di Vienna, di cui era titolare, e di Wiener Neustadt, che amministrava. Paolo V tentò subito di ottenere che Ferdinando e Massimiliano chiedessero a Roma un’assoluzione per le gravi censure canoniche in cui erano ipso facto caduti. Non avuta risposta, decise nel febbraio del 1619 di inviare in missione Verospi.
Le sue istruzioni disponevano di conferire con l’imperatore Mattia (il quale peraltro sarebbe deceduto il 20 maggio dello stesso anno), allo scopo di placarne lo sdegno contro Ferdinando, responsabile della caduta del suo ministro favorito, e di scoraggiare l’ipotesi di un’avocazione del procedimento penale a Vienna. Recatosi poi presso lo stesso Ferdinando (Massimiliano era morto il 2 novembre 1618), Verospi doveva farsi consegnare il cardinale, detenuto nel castello di Ambras (presso Innsbruck), insieme a tutti i documenti in suo possesso. Nel contempo, il nunzio avrebbe dovuto dedicare una cura particolare alle diocesi rimaste acefale, affinché non si verificassero appropriazioni indebite di beni o rendite. Riguardo poi alla posizione di Ferdinando, non vi erano dubbi circa il grave reato canonico commesso, dal quale egli poteva essere assolto soltanto dal pontefice. Restava quindi indispensabile – e questo Verospi doveva ribadirlo con fermezza – una sua pubblica domanda di assoluzione.
Ordinato diacono e presbitero con indulto del 27 febbraio 1619 (per carenza dei necessari requisiti temporali fra i due gradi), Verospi si mise in viaggio alla metà del mese successivo. La missione ebbe successo: Ferdinando acconsentì a richiedere l’assoluzione pontificia per le violazioni canoniche commesse e fu accontentato con atto pontificio del 25 ottobre 1619. Altrettanto rapidamente, Verospi ricevette in consegna il prigioniero, formò il processo a suo carico e lo accompagnò al monastero di Sankt Georgenberg, nel Tirolo, dove rimase in custodia.
Rientrato a Roma, Verospi si preparò a tornare in Germania come nunzio straordinario dopo poco tempo. Alla fine del 1621, infatti, il nuovo papa Gregorio XV gli affidò un nuovo incarico. In particolare, ebbe mandato di stimolare l’imperatore Ferdinando II a continuare la guerra con energia, dopo la vittoria ottenuta nella battaglia della Montagna Bianca, e di premere per l’assegnazione senza indugi del titolo di elettore del Palatinato al cattolico duca Massimiliano di Baviera, dopo la sconfitta e la fuga del ‘re d’inverno’, Federico V. Egli aveva poi il compito di sollecitare la traduzione a Roma del detenuto cardinale Klesl. Infine, un’incombenza più leggera: portare a Ferdinando II gli auguri del defunto papa Borghese per il suo matrimonio con Eleonora Gonzaga.
Verospi ebbe successo nel prendere in consegna il porporato. Il conferimento del titolo elettorale a Massimiliano di Baviera, il 23 febbraio 1623, invece, fu il punto terminale di una trattativa complessa, con molti attori in gioco. Ma la diplomazia pontificia, grazie all’azione del nunzio straordinario, poté ascriversene almeno soggettivamente il merito.
Sotto il nuovo pontefice Urbano VIII, eletto il 6 agosto 1623, il cardinale Maurizio di Savoia tentò senza successo di far chiamare Verospi al vertice della Dataria. Invece, in ottobre, egli fu nominato governatore di Perugia e dell’Umbria. Rimase in carica fino al 30 agosto 1627, quando fu creato cardinale; il successivo 20 ottobre gli fu assegnato il titolo di S. Lorenzo in Panisperna (cambiato il 5 settembre 1633 con quello di S. Maria della Pace). I contemporanei si meravigliarono della sua promozione, ritenendolo privo di potenti appoggi. Ma Verospi godeva della stima di papa Barberini, che lo accolse presto nella cerchia di dotti e letterati a lui vicini, e soprattutto della protezione di suo fratello Carlo, generale di Santa Chiesa. Verospi si dimostrò fedelissimo al pontefice in occasione degli episodi turbolenti del 1632: la protesta del cardinale Gaspare Borgia nel Concistoro dell’8 marzo contro la politica pontificia, e la missione del cardinale Péter Pázmány, allo scopo di ottenere un sostegno tangibile per l’imperatore. In quest’ultima occasione, Verospi risultò particolarmente coinvolto, avendo già avuto modo di trattare con Ferdinando II.
Egli fu altresì membro della congregazione della Consulta e del S. Uffizio. In questa veste partecipò alla seconda fase del procedimento intentato contro Galileo Galilei e fu tra i firmatari della sentenza del 22 giugno 1633. Infine, a partire dal 1636, fu chiamato a presiedere la congregazione del Concilio.
Morì a Roma il 27 gennaio 1639 e venne sepolto nella chiesa di Trinità dei Monti.
A Roma abitava nel palazzo di famiglia a via del Corso, rinnovato all’inizio del Seicento, sulla base di un progetto di Girolamo Rainaldi (con successivi apporti di Onorio Longhi). I lavori vanno attribuiti alla committenza di Verospi e del fratello Ferrante, continuatore della linea familiare (suo figlio Girolamo fu creato cardinale nel 1641). Indeterminata, ma pur sempre all’interno del binomio citato, anche la responsabilità del coinvolgimento di Francesco Albani nella decorazione a fresco della loggia con Apollo e gli dei dell’Olimpo, e di Sisto Badalocchio, che realizzò altri quattro affreschi (poi staccati) con Storie di Polifemo, di Galatea e di Paride. I due cortili del palazzo contenevano statue. Almeno una, raffigurante Ercole che uccide l’Idra, faceva esplicito riferimento alle fatiche del cardinale Fabrizio nel combattere i nemici della confessione cattolica.
Opere. In funere Illustr.mi et Excell.mi Principis Io. Francisci Aldobrandini Generalis S.R.E. Ducis Oratio, Romae 1602.
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