RUFFO, Fabrizio
– Nacque il 16 settembre 1744 a San Lucido, sul Tirreno cosentino, da Litterio (o Litterino) e Giustiniana (o Giustina) Colonna.
Il padre era capo d’una linea collaterale al ramo dei duchi di Bagnara dei Ruffo di Calabria. Sposato con Giovanna Ruffo di Castelcicala (da cui il primogenito Vincenzo, che nel 1795 ereditò Bagnara per estinzione della linea principale), Litterio si unì in seconde nozze con la madre di Fabrizio, una Colonna dei principi di Spinoso, antico ramo siciliano del celebre casato. Duca di Baranello – in Molise – per retaggio paterno, egli acquistò più tardi la baronia di San Lucido, intestandosela ufficialmente nel 1747. Il feudo, però, era già nelle sue mani quando la moglie partorì Fabrizio: nel 1744, pochi giorni dopo la sua nascita, a San Lucido scoppiò una sommossa contro agenti del fisco in cui fu implicato il feudatario: Litterio Ruffo, appunto, «incolpato di quel tumulto» (Sacchinelli, 1836, p. 1) e arrestato.
A quattro anni Fabrizio fu inviato a Roma, sotto la tutela del prozio (fratello di suo nonno) Tommaso Ruffo di Bagnara, cardinale decano del S. Collegio e segretario dell’Inquisizione. Nel 1752 fu iscritto al collegio Clementino, studiandovi per circa dodici anni; nel 1759, quindicenne, vi lesse un’orazione sulla Trinità alla presenza di Clemente XIII (F. Ruffo, De ineffabili Trinitatis..., Roma, 1759). Terminati gli studi, pur mantenendo lo stato laicale, il giovane Ruffo s’avviò a una brillante carriera nella Curia, favorita dal nome che portava e dai legami con Giovanni Angelo Braschi, dal 1766 tesoriere della Camera apostolica. Conosciuto da bambino, Braschi era stato collaboratore del prozio Tommaso nei primi anni di vita di Fabrizio a Roma. Nel 1767 Ruffo fu nominato referendario delle due Segnature (di grazia e di giustizia); nel 1781 – eletto nel frattempo Braschi papa con il nome di Pio VI – fu promosso chierico della Camera apostolica, maturandovi esperienza nell’amministrazione finanziaria.
Nel 1785 Pio VI lo nominò tesoriere generale: carica cruciale dello Stato pontificio, che a competenze economico-finanziarie cumulava poteri giurisdizionali, militari e di polizia. Ruffo acquisì, allora, un ruolo di primo piano nel mondo romano: nel 1787 l’ambasciatore veneziano lo presentava come «una delle principali figure di Roma, e per l’autorità annessa all’impiego e per il deciso favore che gode appresso il sovrano» (Piscitelli, 1951, p. 86). Tre anni dopo sarebbe stato definito il «favorito ministro» (p. 98) dalle stesse fonti diplomatiche. Avviò subito un ambizioso programma di riforme, teso a incoraggiare lo sviluppo delle manifatture, del commercio e dell’agricoltura; ad attuare la riforma fiscale avviata dallo stesso Braschi; ad affrontare una crisi monetaria; a intaccare il regime della grande proprietà fondiaria a favore dei ceti svantaggiati. «Assai svegliato e zelantissimo», «curava l’esecuzione dei provvedimenti emanati» recandosi «molto spesso [...] di persona sui luoghi, per sorvegliarne l’esatta osservanza» (p. 88). «Nell’assolvere i doveri del suo ufficio», egli non usava «riguardi o agevolazioni verso chicchessia», e rivelava «accanto a una consumata abilità pratica, una non comune preparazione teorica» (p. 89).
Nel 1786 ridefinì il sistema doganale, per favorire la libera circolazione delle merci all’interno dello Stato pontificio. I manufatti locali, inoltre, potevano essere esportati; ed erano protetti dalla concorrenza esterna grazie all’aumento dei dazi d’importazione e a una rete di dogane ai confini statuali. Misure seguite da numerose altre, in cui mesceva idee tradizionali di stampo mercantilista a più innovative visioni d’orientamento liberista. Il suo decisionismo, però, iniziò fin dapprincipio a dare fastidio, poiché con le sue riforme e con lo zelo nell’attuarle toccò interessi consolidati di diversi ceti dello Stato: dell’aristocrazia, in primis, ma non mancò anche una dura opposizione di parte popolare. Dopo una lunga serie di polemiche e di scontri, tra il 1793 e il 1794 si diffusero a Roma manifesti ‘ingiuriosi’ che ne richiedevano la defenestrazione. Il papa, così, fu costretto a licenziarlo, compensandolo con la pubblicazione della sua nomina a cardinale, ricevuta in pectore dal 1791, ma ufficializzata nel febbraio 1794.
Terminava così, accompagnata da accuse di malversazione e da mordaci pasquinate, la sua prima esperienza di governo. Nondimeno, già da qualche anno aveva intessuto una tela per prepararsi una rete di salvataggio nel suo Regno di Napoli. Nel novembre 1794 ottenne da Ferdinando IV di Borbone di «dirigere e sopraintendere alle manifatture ed industrie» (Piscitelli, 1951, p. 146) del Regno, e la nomina a intendente di Caserta, con la responsabilità della reggia e della manifattura di San Leucio. Il re concesse a Ruffo anche l’abbazia di S. Sofia di Benevento, e ciò alimentò l’astio con il quale il papa accolse la notizia, essendo ancora viva l’eco degli scontri giurisdizionali che avevano opposto le corti di Napoli e di Roma fino a poco tempo prima. Pio VI gli scrisse una lettera piena di risentimento, definendo «usurpazione» (p. 147) la concessione dell’abbazia e giudicandone gli incarichi non consoni al suo rango. In realtà, già agli inizi del 1795 il cardinale partecipò a un importantissimo Consiglio di Stato con i reali e i ministri. In effetti, entrò a far parte dell’entourage del sovrano; il che spiega peraltro perché, nel momento della fuga dei reali a Palermo nel dicembre 1798 – un mese prima dell’entrata dei francesi a Napoli e della proclamazione della Repubblica Napoletana –, Ruffo non s’imbarcasse, restando nella capitale agli ordini di Ferdinando IV.
Il cardinale lasciò Napoli più tardi, con il fratello Ciccio e con il generale Francesco Pignatelli, il vicario del re in fuga dopo la stipulazione di un trattato rovinoso con i francesi, ormai prossimi alla capitale. Quando Ruffo arrivò nell’isola, fra il 17 e il 18 gennaio, a corte già si pensava a come organizzare una resistenza, e su suggerimento del ministro degli Interni Tommaso Firrao s’era stabilito di «fortificare le Calabrie» (Malaspina, 1846, p. 66) per evitare che la rivoluzione raggiungesse la Sicilia; mentre dalle Calabrie stesse giungevano voci a sostegno di un’iniziativa dei Borbone. Il 15 gennaio il re aveva incaricato il generale austriaco Karl Mack von Leiberich e Giovanni Vincenzo Revertera, duca di Salandra, di «salvarmi le altre provincie che mi restano» e «di difendere le Calabrie almeno» (Battaglini - Placanica, 2000, I, p. 234). Ma nel frattempo Mack aveva disertato, e ancora il 17 il sovrano gli scriveva: «Volete voi abbandonarmi? [...]. In voi [...] ripongo le mie speranze» (p. 236). Fu allora che sbarcò in Sicilia Ruffo. Secondo le voci circolanti a corte, l’incarico fu affidato a lui perché «si vuole che la regina avesse detto che un matto poteva abbracciare tal impegno senza dar mezzi, e che il cardinale avesse detto: il matto è trovato e sono io» (Malaspina, 1846, p. 67). Ma oltre a essere uomo di fiducia del re e noto per la sua risolutezza, sul suo nome poté convergere il più stretto entourage che circondava i sovrani in quel momento: dal suo congiunto Fabrizio Ruffo di Castelcicala, fedelissimo del più autorevole personaggio della corte, il primo ministro John Francis Edward Acton, a Tommaso Firrao, che del cardinale era cognato, avendone sposato una sorella. Certamente gli giovò, poi, il prestigio derivante dalla porpora; e decisivo fu il fatto che la sua famiglia detenesse vasti feudi nella parte meridionale della Calabria Ultra, non toccati dalla rivoluzione.
Il 25 gennaio il re lo nominò «commissario generale» delle Calabrie, con facoltà di proclamarsi – quando ritenesse – «vicario generale» del Regno, e fornendogli da subito l’«alterego [...] nel più esteso modo» (Battaglini - Placanica, 2000, II, p. 540), con i pieni poteri della sovranità reale. Partito da Palermo, con un solo militare al seguito (il marchese Malaspina) e cinque altre persone, giunse a Messina ai primi di febbraio e s’abboccò con «diversi calabresi», ricevendone assicurazioni che si sarebbero potuti reclutare uomini «in buon numero, purché si» trovasse «il danaro per pagarli» (La riconquista del Regno, 1943, p. 10). Trasmise, poi, istruzioni ai presidi di Cosenza e Catanzaro e al governatore di Reggio Calabria.
Ripartito il 7 febbraio, il cardinale sbarcò a Punta Pezzo, presso Villa San Giovanni. Il 9 scrisse ad Acton: «Io non ho forze per resistere al torrente che inonda queste provincie, e per quanto abbia fatto in voce e in iscritto, non ho potuto finora radunare che circa ottanta uomini, tutti o armigeri o fuorusciti, vale a dire persone di niuna buona intenzione e stabilità [...]. Preveggo che al più potrà riuscirmi di accozzare 300 uomini. Tanta è la freddezza e la malavoglia che trovo in tutti» (La riconquista del Regno, 1943, p. 15). Mancavano poi le armi e, «quel che è peggio [...] anche il denaro» (ibid.). Ma in capo a tre giorni gli uomini ascesero a 350. Nel frattempo, infatti, Ruffo e i suoi collaboratori avevano inviato lettere a fidati realisti e un «proclama a’ vescovi, a’ parrochi ed a’ governatori di que’ più vicini luoghi» (Petromasi, 1801, p. 4). Non è certo un caso che le prime tappe della sua marcia fossero feudi di famiglia: Scilla, Bagnara e Sant’Eufemia, dove raccolse altre forze e ordinò agli agenti feudali «di consegnarmi il denaro e gli averi dei loro padroni, e di somministrarmi le razioni occorrenti» (La riconquista del Regno, 1943, p. 17).
Intanto, nel Reggino esplodevano insorgenze locali: cadevano le repubbliche proclamate nella zona e bande baronali s’affiancavano a comitive di banditi, alimentando un clima di terrore con l’avvio della ‘caccia al giacobino’ e della celebrazione del rito del saccheggio, che avrebbero segnato tutta la controrivoluzione. L’approdo del cardinale, dunque, aveva creato un nuovo clima; e la rete clandestina di corrispondenze che animò, nonché i proclami che andò man mano diffondendo, iniziarono a dare i primi frutti, sia nell’assicurargli gente armata sia nel promuovere autonome insorgenze.
Il 23 febbraio, risalito a Rosarno, Ruffo disponeva di circa 1500 uomini; e spostatosi a Mileto vi trovò convenuti altre migliaia e migliaia di armati, chi con «schioppi» chi con «scuri» (Petromasi, 1801, p. 11). Nel frattempo, anche a Tropea, Monteleone e altri luoghi di quell’area (e non soltanto) le repubbliche cadevano senza che Ruffo le attaccasse. Giunto a Monteleone, apprese che i paesi intorno a Cosenza andavano organizzandosi per la controrivoluzione, e che altre insorgenze esplodevano nel Principato Citra, nelle Puglie e negli Abruzzi.
Passato da Pizzo, Ruffo deviò su Catanzaro con circa «4000 uomini» (La riconquista del Regno, 1943, p. 48); mentre aveva inviato una colonna di 300 armati sul Tirreno cosentino, dove pure le repubbliche caddero per autonome insorgenze. Tutte fuorché Paola, che dal 9 marzo fu assediata e saccheggiata dalle sue truppe rinforzate da bande guidate da esponenti dell’élite locale. Anche nel Catanzarese, d’altra parte, gli alberi della libertà venivano espiantati (spesso al ritmo dei saccheggi) prima che Ruffo vi giungesse; e i luoghi ‘realizzati’ contribuivano a infoltire sempre più l’«Armata cristiana e reale» (Cimbalo, 1799, p. 16), com’era stata denominata ufficialmente. Il cardinale s’apprestò ad assaltare Catanzaro forte di «14 mila uomini» (La riconquista del Regno, 1943, p. 51); ma la resa della città giunse, l’8 marzo, senza bisogno di un attacco delle masse.
Al contempo, le truppe inviate nel Cosentino si ricongiunsero con altre bande organizzate in loco dalle élites, e tra il 14 e il 15 marzo fu abbattuta la repubblica a Cosenza con un terribile saccheggio. Ruffo contestualmente puntava su Cotrone (oggi Crotone), inviando un’avanguardia che – rinforzata per cammino da comitive di banditi e da masse al soldo di membri delle élites – giunse alle porte della città, dando avvio il 18 a un assedio seguito, anche qui, da un «indicibile saccheggio» (Petromasi, 1801, p. 18). Raggiunta la città ionica, il cardinale fu aggiornato sulle insorgenze che divampavano dalla Basilicata al Principato Citra, dalle Puglie agli Abruzzi.
Il 3 aprile egli poteva informare Acton che «le Calabrie sono ormai interamente ridotte all’ubbidienza» (La riconquista del Regno, 1943, p. 94). Restavano pochi fuochi, ma soprattutto regnava un’ingovernabile «anarchia», che costrinse Ruffo a sostare nella regione per un paio di settimane. Preparandosi a lasciare le Calabrie, il 21 aprile confessava preoccupato che «i calabresi sono molto renitenti a lasciare il loro paese, e [...] non mi riesce di moltiplicare la truppa come in passato» (p. 131). Gli restavano 2000 uomini all’incirca, più 400 inviati di rinforzo nel Principato Citra e un migliaio spediti a Matera in avanguardia. In effetti, se fino a Catanzaro le truppe erano andate sempre più accrescendosi, dopo di allora la situazione era mutata. Era giunto a Catanzaro forte di 14.000 armati, ma la lasciò con circa 4000; nuovamente accresciuti a Cotrone, ma poi diminuiti ancora. Come spiegava Ruffo stesso: «È sempre un miracolo della provvidenza, giacché [gli uomini] non sono sempre gl’istessi, ma quelli che sono nei contorni del paese che vuole assediarsi» (p. 67). Una fluidità con cui dovette fare i conti fino a Napoli, quando avrebbe riferito: «Fuggirono col bottino circa 6000 uomini dei miei e altrettanti si sono andati ritirando per lo stesso motivo. [...] In una parola vedevo disertare tutta l’armata, fenomeno che ho conosciuto a Cotrone, a Cosenza, a Paola e Altamura dove si è dovuto permettere il sacco» (Battaglini - Placanica, 2000, II, p. 629).
Del resto, il cardinale capì ben presto quanto la moltitudine fosse «molto avida di bottino» (La riconquista del Regno, 1943, p. 95); e su ciò non avrebbe mancato di ammonire il re: «La Maestà Vostra crede che il popolo sia il difensore del Trono, ed io ho mostrato di crederlo, ma non ne sono persuaso. Qualunque partito gli è eguale, purché possa rubare» (Battaglini - Placanica, 2000, II, p. 629).
Giunto in Basilicata, il 30 aprile Ruffo avvertì da Policoro che «le forze [...] sono meschine, e perciò mi tengo lontano perché possano crederle grandi: se mi avvicino troppo finisce l’illusione» (La riconquista del Regno, 1943, p. 146). Eppure l’illusione continuò e, grazie alle reti di corrispondenze clandestine, il cardinale riuscì, sempre più, a dare una pur minima direzione al magma ribollente della controrivoluzione, ormai diffusa dappertutto; mentre le armate francesi tra aprile e maggio abbandonavano la Repubblica Napoletana al proprio destino. Frattanto, Ruffo raggiunse Matera apprestandosi all’assedio di Altamura con circa 10.000 uomini: rinforzato da masse locali, ma anche da una colonna proveniente dalle Puglie. La città cadde il 10 maggio; e mentre il cardinale vi sostò due settimane, furono fiaccate le ultime resistenze nel resto delle Puglie e in Basilicata.
A fine maggio restavano in piedi pochissimi alberi della libertà, e Ruffo poté puntare ormai su Napoli, raccogliendo lungo l’itinerario il rinforzo di bande locali, ma anche di truppe regolari russe e ottomane. Mosso l’assalto alla capitale il 13 giugno, Napoli cadde devastata da saccheggi e indicibili violenze che si protrassero per diversi giorni. Il 21 giugno fu ratificata una capitolazione coi repubblicani che avevano resistito asserragliati nei castelli: Ruffo garantiva la vita ai prigionieri, accordando loro l’esilio nella Repubblica francese. La corte, però, era contraria a ogni atto di clemenza e, inviato nel frattempo a Napoli l’ammiraglio Horatio Nelson, questi annullò la capitolazione dando il via a un braccio di ferro con il cardinale, deciso a onorare i patti. Il 27 giugno il re ordinò a Ruffo di obbedire, scrivendogli: «Altrimenti sarebbe [...] lo stesso che dichiararvi anche voi ribelle» (Battaglini - Placanica, 2000, II, p. 624); mentre Acton gl’intimò di rientrare a Palermo. Nello stesso giorno, quest’ultimo stendeva l’ordine regio acché «il cardinale Ruffo sia arrestato» (p. 625), sebbene il mandato all’ultimo momento fosse annullato. A quel punto, pur protestando, il cardinale dovette allinearsi, anche perché, poco dopo, il re fece la sua comparsa a Napoli. Il 21 luglio fu installata una giunta di Stato, la quale diede avvio a una sanguinaria repressione che si protrasse per diversi mesi, mentre tre giorni dopo Ruffo era degradato dal re – ansioso di rientrare in Sicilia – da vicario generale a «luogotenente e capitan generale» e messo sotto la tutela d’una «Giunta di governo» (p. 634).
Dopo qualche mese, lo tolse dall’imbarazzo della permanenza a Napoli la morte di Pio VI, in conseguenza della quale dovette recarsi al conclave convocato a Venezia, per cui partì all’inizio di novembre. Giocato un ruolo decisivo nell’elezione di Pio VII del marzo 1800, Ruffo tornò a Roma, entrando in una delle congregazioni erette per ripristinare il funzionamento dello Stato dopo la caduta della Repubblica Romana, ma svolgendovi al contempo funzioni di plenipotenziario per la corte borbonica.
A fine 1805, allorquando fu chiaro che i francesi avrebbero nuovamente invaso il Regno di Napoli, il cardinale fu richiamato dai Borbone. Avrebbe potuto rinnovare l’impresa sanfedista; ma si ritrasse: «Certe follie si fanno una volta sola» (B. Croce, Il Romanticismo legittimistico e la caduta del Regno di Napoli, in La Critica, 1924, vol. 22, p. 264). Ruffo ottenne, invece, carta bianca per esperire un tentativo su Napoleone, offrendogli accordi commerciali e l’abdicazione di Ferdinando a favore del figlio Francesco di Borbone. Non trovando ascolto nei plenipotenziari ai quali si rivolse a Roma, che si rifiutarono pure di fornirgli il passaporto per la Francia, puntò su Parigi per la strada della Svizzera. Bonaparte, però, non aveva alcuna intenzione di rinunciare a Napoli: informato della missione di Ruffo, a fine gennaio 1806 ordinò che gli s’impedisse di valicare il confine transalpino. Il cardinale fu fermato a Ginevra una prima volta; si spostò quindi a Losanna ma fu tratto in arresto, con l’obbligo di rientrare in patria. Passato a Innsbruck e poi a Trieste, dove s’imbarcò, provò allora a dirigersi su Roma, avendo appreso nel frattempo dell’invasione del Regno di Napoli. Nondimeno, lungo il cammino, a Terni, seppe che l’ambasciatore francese gli aveva intimato «che non ardisse di avvicinarsi a Roma, ma che si procacciasse un asilo ben lontano dal Regno di Napoli e dal mare» (D’Errico - Capone, 1821, p. 40).
Pertanto, Ruffo si ritirò ad Amelia, dove per un paio d’anni fu al confino, finché nell’aprile 1808, poco dopo l’occupazione francese di Roma, gli giunse l’ordine di partire per Parigi entro «24 ore» (Casaburi, 2003, p. 216). A Parigi trascorse, con brevi intervalli, gli anni restanti dell’età napoleonica, raggiunto tra il 1809 e il 1810 da vari altri cardinali, mentre il papa era a Savona prigioniero dei francesi. Il 2 aprile 1810 fu tra i porporati (i ‘cardinali rossi’) che intervennero al matrimonio dell’imperatore con Maria Luisa d’Austria, a seguito del divorzio dalla prima moglie, contrariamente a tredici altri (i ‘cardinali neri’), che si rifiutarono di partecipare per protesta, subendo dure conseguenze. Nel 1811 partecipò a una missione inviata a Savona per una negoziazione con il pontefice. Fallito il tentativo, nel 1813 contribuì a persuadere il papa – trasferito nel frattempo a Fontainebleau – ad accettare un progetto di concordato con Napoleone, che per riconoscenza lo insignì della Legion d’onore (Giornale Italiano, 14 aprile 1813, p. 418).
Caduto Bonaparte, Ruffo rientrò a Roma, contribuendo alla Restaurazione. Dal 1815 fu inserito nella congregazione economica, ed ebbe altre incombenze tra cui quella di occuparsi degli approvvigionamenti alimentari. Manteneva, comunque, i contatti con la corte borbonica: nel gennaio 1817 fu incluso nel Consiglio di Stato, conservando però la residenza e gli incarichi romani. Nondimeno, all’indomani della rivoluzione del 1820-21, Ferdinando di Borbone ricorse ancora all’esperienza dell’anziano cardinale. Nel marzo 1821, da Firenze, il re nominò un governo provvisorio includendovi anche Ruffo, tornato a Napoli in aprile. A fine maggio fu cooptato in un Consiglio di Stato ristretto, che affiancava il sovrano e i ministri nella direzione politica del Regno.
Scomparso Pio VII, nel 1823 partecipò al conclave da cui uscì eletto, in settembre, Leone XII. Rientrato a Napoli – dove mantenne il posto in Consiglio di Stato –, Ruffo vi morì quattro anni dopo, il 13 dicembre 1827.
Opere. De ineffabili Trinitatis mysterio oratio habita in sacello pontificio ad sanctissimum d.n. Clementem XIII pont. max., Roma 1759; Memorie economiche di Monsignor Fabrizio Ruffo tesoriere generale della R.C.A. su vari articoli concernenti l’approvigionamento delle grascie per Roma, Cesena 1789; Della legislazione daziaria delle grasce di Roma. Memoria, Roma 1790.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Napoli, Archivio Ruffo di Bagnara; Stato civile, vol. 216, San Ferdinando, 1827, f. 346r.
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