MIGNANELLI, Fabio
– Nacque il 25 apr. 1496 a Siena da Pietro Paolo, esponente di una famiglia patrizia imparentata con i Chigi e i Bichi, e Onorata Saraceni, parente di G.M. Ciocchi Del Monte, eletto papa nel 1550 con il nome di Giulio III.
Il M. svolse gli studi tra Siena, Pisa, Bologna e Padova e si addottorò in utroque iure nel 1523, avendo come maestri F. Dezi e M. Sozzini a Siena, C. Ducini a Bologna e P. Parisio a Padova. Per circa un anno insegnò presso lo Studio senese e nel 1525 si trasferì a Roma con l’obiettivo di intraprendere la carriera forense e accrescere la propria fortuna. Lavorò al servizio del cardinale E. Rangoni, presso il quale conobbe Pietro Aretino, e durante il sacco di Roma del 1527 fu depredato dei suoi averi. Proprio in quei giorni terribili incontrò il cardinale Alessandro Farnese, futuro Paolo III, che gli affidò una delicata missione nelle Marche.
Sulla prima parte della vita del M. i dati sono scarni e la fonte principale è un’autobiografia (pubblicata in Giornale de’ letterati per l’anno 1751), da cui risulta che nel 1532 rinunciò alla carriera ecclesiastica cui sembrava avviato per sposare Antonia Capodiferro, dalla quale ebbe almeno un figlio, di nome Pierpaolo. La moglie, già vedova di N. De’ Rossi, era la sorella di Girolamo Capodiferro, cardinale dal 1544, ma sin dagli anni Trenta ben inserito negli ambienti curiali, il quale aiutò il M. a diventare nel 1532 avvocato di Rota (Orano, p. 401), nel 1533 avvocato concistoriale e nel 1536 commissario pontificio a Spoleto. Da quel momento si susseguirono gli incarichi diplomatici.
Nel 1537, in occasione dell’approdo della flotta ottomana in Puglia, fu inviato a Venezia per ottenere un maggior impegno della Serenissima nella lotta contro i Turchi, i quali avevano stipulato una clamorosa alleanza con la Francia, ma la missione non ebbe particolare successo. Dopo una sosta a Roma raggiunse Monzone per discutere con l’imperatore Carlo V della coalizione antiturca, della posticipazione dell’atteso concilio ecumenico e del matrimonio di Ottavio Farnese con Margherita d’Austria. Nella primavera 1538 si recò a Nizza al seguito di Paolo III e partecipò, a Oneglia, al colloquio del papa con l’imperatore allo scopo di stringere una lega cristiana contro i Turchi, alla quale nel maggio aderì anche la Repubblica di Venezia.
Dopo l’improvvisa morte di parto della moglie, il 29 giugno 1538, il M. assunse lo stato ecclesiale e ottenne subito i primi incarichi pontifici dando così inizio a una rapida carriera, certamente facilitata dalla sua notevole abilità cortigiana e dalle decisive protezioni del sistema curiale farnesiano, cui aggiunse i legami parentali con il cardinale Ciocchi Del Monte e gli influenti prelati Capodiferro e G.M. Saraceni.
Il 3 sett. 1538 quale esperto giurista affiancò il cardinale G. Aleandro legato in Germania e il 5 ottobre raggiunse la corte di Ferdinando I d’Asburgo a Linz, dove sino all’aprile 1539 esercitò le funzioni di nunzio, per l’assenza del cardinale G. Morone, in congedo temporaneo. In quell’occasione fu nominato protonotario apostolico e prelato domestico di sua santità.
Nel novembre 1539 partì da Roma al seguito del cardinale nipote Alessandro Farnese inviato come legato pontificio presso Francesco I e Carlo V.
Il 15 nov. 1540 ottenne il vescovado di Lucera, una diocesi piccola e povera, dove, malgrado le conclamate buone intenzioni, non mise mai piede a causa dei suoi impegni diplomatici e curiali. Nell’aprile 1541 si recò a Bologna quale vicelegato e governatore al seguito del cardinale G. Contarini, dove rimase fino all’aprile 1542. È verosimile che dall’influenza dell’illustre prelato il M. derivasse la consapevolezza di dover svolgere la propria missione pastorale nella diocesi, come si evincerebbe da una lettera del 1° febbr. 1542 al cardinale M. Cervini in cui chiedeva sei mesi di licenza per recarsi a Lucera a «imparare a vivere da vescovo e a morire da cristiano» (Alberigo, p. 138). Un pio proposito destinato a rimanere tale perché nel maggio 1542 venne chiamato al prestigioso incarico di nunzio pontificio a Venezia, che svolse avendo come uditore il bolognese A. Binarini.
La nunziatura, che durò fino all’agosto 1544, fu intensa di impegni in quanto si svolse in un periodo cruciale della storia della Repubblica. Purtroppo le notizie sono lacunose poiché restano solo frammenti dei suoi dispacci pazientemente ricostruiti nel secolo scorso da B. Nicolini. Le autorità veneziane, che avevano avuto buone relazioni con il suo predecessore G. Andreassi, lo accolsero con una certa diffidenza poiché ne temevano l’intransigenza in campo ecclesiastico, la totale contrarietà a un accordo con i protestanti allora ancora ricercato da una parte consistente delle gerarchie ecclesiastiche romane, lo scetticismo nei riguardi di una soluzione conciliare e lo strenuo impegno nel difendere gli interessi della S. Sede nelle controversie giurisdizionali. Una serie di perplessità di cui si avverte l’eco in una lettera del 22 giugno 1542 dell’ambasciatore mantovano a Venezia al cardinale Ercole Gonzaga in cui si sostiene che il M. «venne qui con risolutione, per quanto è sta’ detto, di voler ridur le cose ecclesiastiche di questo Dominio in quella riputatione et superiorità ch’erano prima che questi Signori vi ponessero le mani […]. Et certo monsignor Andreaso era più atto con la dextrezza et authorità sua ad ottener da questi Signori una cosa, per difficile che la fosse, che non è questo suo successor una facile con ogni sua superbia et con quanta authorità le possi dare el papa» (Nicolini, 1959, p. 371).
L’azione del M. si dispiegò su vari fronti. Per quanto riguarda la lotta alla diffusione della riforma protestante, s’impegnò nella repressione delle conventicole luterane presenti a Treviso per tutta la durata del suo mandato e visse da vicino le concitate fasi che accompagnarono nell’estate 1542 la fuga a Ginevra di B. Ochino. A quanto sembra soltanto il 1° ott. 1542 il cardinale Farnese lo informò dei sospetti della Curia romana sulla ortodossia del predicatore senese. Ma fu proprio il M. a trasmettere, nel luglio 1542, le lettere di convocazione a Roma al frate cappuccino, in quel momento ospite a Verona del vescovo G.M. Giberti, ed è verosimile che sin da allora avesse iniziato a raccogliere informazioni su di lui. Del resto, già nella quaresima del 1542, prima dell’arrivo a Venezia del M., Ochino aveva predicato nella chiesa dei Ss. Apostoli e aveva protestato pubblicamente – rifuggendo dunque da qualsiasi forma di nicodemismo – contro l’incarcerazione dell’agostiniano Giulio da Milano. Di certo il M., nei mesi successivi, contribuì a tacitare i sospetti curiali su un’eventuale corresponsabilità di Giberti nella fuga del predicatore senese e fu tra i protagonisti della caccia ai suoi scritti, consapevole della loro pericolosità dovuta al fatto di essere redatti in volgare. Quando il 7 dic. 1542 Ochino indirizzò una lettera proprio alla Repubblica di Venezia, il M. si disse persuaso che «forse saria bene né scrivere né parlar più» (Tacchi Venturi, 1913, p. 324) perché temeva una reazione antiromana da parte di alcuni settori della gioventù veneziana sensibili al messaggio religioso del frate cappuccino.
Nel corso del 1543 il M. denunciò a gran voce la circolazione a Venezia di testi della propaganda protestante, emise editti per disciplinare la predicazione, promosse la scrittura del Malleus haereticorum del canonico lateranense Raffaele da Como e represse – con l’aiuto di fra Bonaventura De Centi – la locale comunità di cappuccini perché, come scrisse al cardinale Farnese, «ogni giorno si sente che gittano l’abito et seguitano il maestro loro» (Pastor, V, p. 351). Nel febbraio 1543 prese posizione contro «la libertà grande del parlare che si usa in questa città» (Nicolini, 1959, p. 374), auspicando da parte del Consiglio dei dieci provvedimenti restrittivi simili a quelli presi nelle Fiandre e in Germania dall’imperatore. Probabilmente anche per l’energica iniziativa e le pressioni del nunzio, il 12 febbr. 1543 le autorità della Serenissima promulgarono una «gagliarda provisione» in cui si ordinava che ogni libro pubblicato a Venezia fosse munito di una licenza rilasciata dai capi del Consiglio dei dieci. Una vivida testimonianza dell’attività repressiva del M. a Venezia si deve a C. Saraceni, il quale lo aveva servito al tempo della nunziatura. Costui, nel 1560, nel corso del processo inquistoriale contro P. Carnesecchi, ricordava che l’eretico senese L. Ragnoni era stato più volte ospite del nunzio quando era «tenuto per bonissimo christiano da tutti noi» e se il M. «havesse presentito d’ombra un pelo d’heresia, l’haveria persequitato, come fece un mondo de altri, come fece abrusciare et libri et altre cose» (Firpo - Marcatto, 1998, I, p. 239).
Sempre sul fronte della politica religiosa il M. bloccò nell’autunno 1542 le ordinazioni episcopali di alcuni sacerdoti boemi che, pur vivendo in un Regno scismatico, continuavano a osservare i riti cattolici. Il nunzio fece processare il vescovo D. Zannettini, detto il Grechetto, che da quelle ordinazioni aveva tratto illeciti profitti in denaro, tuttavia lo scontro venne presto ricomposto da Roma senza ulteriori strascichi.
Per quanto riguarda la politica internazionale, sul solco del suo precedente impegno diplomatico, cercò di convincere i Veneziani ad allearsi con il papa contro i Turchi. In una lettera dell’aprile 1543 paventava una sconfitta della Serenissima in caso di guerra e «se la loro armata fusse rotta, tutta Italia rimane in preda [del Turco] in maggior confusione e pericolo che non fu quel d’Attila e de li goti; e chi pensa o dica altrimenti o s’inganna o vuol ingannare altri» (Nicolini, 1965, p. 192). Da qui la necessità di stringere una lega santa, nonostante il M. temesse di continuo qualche «maneggio secreto» (ibid., p. 13) delle autorità veneziane con i Turchi; con qualche ragione, del resto, dal momento che esse preferivano temporeggiare per non radicalizzare lo scontro con i temibili rivali.
Sul fronte della politica commerciale il M. incontrò alcune difficoltà a trattare gli interessi dei mercanti delle città adriatiche dello Stato pontificio come Ancona, Rimini e Ravenna. Egli cercò di appianare le divergenze con la Serenissima senza ricorrere alla discussa capitolazione di Giulio II del 1510, con cui il papa aveva assicurato al suo e agli altri Stati della riviera adriatica la libertà di navigare per il golfo senza pagare gabella a Venezia, ma ciò gli valse un aspro ammonimento da Roma del cardinale Farnese.
Ulteriori tensioni con le autorità veneziane derivarono dall’impegno con cui il M. si oppose a che P. Contarini, secondo la volontà del patriziato veneto e le indicazioni testamentarie di Giberti, diventasse vescovo di Verona. Il papa, mosso da interessi nepotistici in quanto desiderava affidare quella diocesi e l’annessa ricca abbazia di Rosazzo al nipote Ranuccio, fu indotto a vedere nella pretesa ereditarietà di successione alla carica avanzata da Giberti in punto di morte una lesione dell’autorità pontificia. Il nunzio si impegnò in una difficile mediazione per affermare la soluzione voluta da Paolo III che prevedeva il trasferimento di P. Lippomanno da Bergamo a Verona, l’invio al suo posto dell’aristocratico veneziano Pietro Bembo e l’assegnazione dell’abbazia di Rosazzo al nipote Ranuccio che da lì a poco sarebbe diventato arcivescovo di Napoli. È probabile che proprio il comportamento tenuto dal M. in questo delicato negozio fosse la principale ragione della fine della nunziatura, come si deduce da un dispaccio del 30 ag. 1544 di F. Venier.
Dal 12 marzo all’agosto 1545 il M. fu in carica come nunzio stabile presso Ferdinando d’Asburgo. Arrivò alla Dieta di Worms il 2 apr. 1545 passando per Trento, dove prese accordi con i legati conciliari e ricevette 1000 scudi d’oro di finanziamento per la missione. Nelle lettere al cardinale Farnese scritte da Worms espresse scetticismo sulle reali intenzioni di Carlo V che, favorendo il matrimonio dell’arciduchessa Anna d’Austria, secondogenita di Ferdinando d’Asburgo, con il duca Carlo di Orléans, era sembrato disponibile a cedere Milano, un piano poi fallito a causa della prematura morte del duca nel settembre 1545.
Tra il maggio e l’agosto 1546 partecipò ai lavori del concilio di Trento sui cui risultati si era mostrato sempre critico, come spiegava già in una lettera al cardinale Farnese del 2 nov. 1542 in cui affermava di non avere «altra patria che Roma» e di attendersi perciò dall’assemblea «ogni male e non ho speranza alcuna di bene» (Nicolini, 1965, pp. 88 s.); ancora nel maggio 1543 si raccomandava al medesimo Farnese «che l’andar cauto ne le cose del concilio non può portar seco altro che bene e immortal laude a Sua Beatitudine» (ibid., p. 90).
Il M. giunse a Trento il 29 apr. 1546 e partecipò alle sedute del 18 e del 21 maggio in cui si stabilì che solo gli ordinari potessero autorizzare i regolari a predicare. Nella circostanza si schierò con quanti sostennero che la facoltà potesse spettare anche ai parroci. Il 10 giugno parlò contro il fondamento divino del principio della residenza dei vescovi che era sufficiente fosse regolamentato dal diritto comune applicato dal papa. Prese parte anche alla seduta del 15 giugno in cui venne rinnovato il divieto ai regolari di predicare senza il consenso del vescovo dato sulla base della licenza dei superiori dell’Ordine. In questo caso fu tra i pochi vescovi a sostenere che i regolari potessero predicare liberamente nelle proprie chiese. Nella seduta del 30 giugno sulla giustificazione per fede, dopo avere dichiarato che a suo parere il concilio non doveva affrontare tali questioni teologiche, tenne una relazione sull’argomento che, secondo l’erudito settecentesco G.M. Mazzuchelli, fu data alle stampe con dedica ai padri tridentini. Dopo avere partecipato nel mese di luglio a tre riunioni, concluse il suo impegno al concilio con la seduta del 17 ag. 1546.
Il 28 ag. 1546 lasciò Trento alla volta di Padova suscitando lo stupore e il disappunto dei suoi protettori. Da Padova egli scrisse ai legati che lo sollecitavano a tornare che sarebbe rientrato solo per votare lo spostamento dell’assemblea. Lo scarso impegno del M. contrasta con le insistenze con cui Paolo III in persona aveva sottolineato l’importanza della sua presenza al concilio. Il cardinale Cervini accreditò la voce che il M. si fosse allontanato perché non gli erano state concesse le necessarie sovvenzioni economiche; l’argomento, tuttavia, non appare persuasivo in quanto i costi da lui sostenuti al Concilio non furono ingenti giacché spese per sé e i suoi sette familiari 500 scudi, quindi circa 80 scudi al mese.
In realtà, ben altri erano gli interessi temporali e le aspirazioni mondane del M., che alla fine di settembre 1546 andò ad Ancona al seguito del cardinale Ranuccio Farnese, dove divenne governatore della città e vicelegato della provincia di Macerata, incarico che ricoprì di nuovo dal 9 giugno 1550 in poi. La crisi diplomatica scoppiata dopo l’assassinio del duca Pier Luigi Farnese nel settembre 1547 offrì l’occasione per una nuova missione presso l’imperatore ad Augusta, per trattare la restituzione della città di Piacenza. Il M. fu nominato vicelegato di Ascoli nel 1548 e il 17 settembre Ranuccio scrisse al fratello Alessandro per raccomandare il trasferimento del suo protetto al vescovado di Ancona, il che avrebbe consentito di affidare Lucera a L. Beccadelli.
L’elezione al soglio pontificio di Ciocchi Del Monte, Giulio III, nel febbraio 1550, rappresentò una svolta nella vita del M. che ottenne dal papa la sovraintendenza dello Stato ecclesiastico, la prefettura del tribunale della Segnatura di giustizia e l’agognato cappello cardinalizio.
Si trattava di un traguardo atteso da tempo. Basti pensare che già nell’autobiografia del 1539 il M. si dichiarava speranzoso di un’imminente elevazione alla porpora; ancora il 27 ag. 1542 Aretino gli aveva pronosticato che sarebbe asceso presto «a le dignità col passo d’una moderata fortuna e col favore d’una tacita costellazione» (Aretino, pp. 260 s.); e il 10 nov. 1548 il cardinale F. Pacheco riteneva imminente la sua creazione cardinalizia. Con una missiva del 13 giugno 1550 la Balia di Siena propose di elevare alla porpora insieme con il M. anche il domenicano A. Caterino Politi e l’arcivescovo di Siena F. Bandini Piccolomini. La rosa dei 14 cardinali nominati da Giulio III oltre un anno dopo, ossia il 20 nov. 1551, comprese solo il nome del M., perché gli altri due candidati senesi furono esclusi dal veto dell’ambasciatore imperiale D. Hurtado de Mendoza.
Assunse il titolo di S. Silvestro in Capite, che il 12 giugno 1556 mutuò con quello dei Ss. Giovanni e Paolo, e, dal settembre 1555, come riconoscimento della sua propensione filofrancese, iniziò a ricevere una pensione dal re di Francia (Ancel, p. 246). Il 9 giugno 1551 venne nominato prevosto del monastero camaldolese di S. Vigilio a Siena e il 10 giugno 1551 commissario per la custodia dei luoghi marittimi dell’Adriatico, forte della sua esperienza come nunzio a Venezia. Da una lettera dell’agente a Roma della contessa di Guastalla Ludovica Torelli si deduce che insieme con i cardinali Morone e G. Dandino egli fosse il più intimo consigliere di Giulio III che «non vole odire persona né cardinale né altri si non doi overo tre» (Bonora, p. 518).
Il papa lo incaricò di complesse missioni diplomatiche come quella che, a partire dal 13 ag. 1552, svolse a Siena in qualità di legato a latere per sedare i tumulti cittadini dopo la cacciata del presidio spagnolo che minacciavano la quiete dello Stato pontificio con il rischio di un nuovo sacco di Roma. È stato tramandato che i Senesi, contrari al tentativo di pacificazione romano, erano soliti cantare, in dispregio della condotta di vita dell’inviato pontificio, «Mignanello, Mignanello / Non ci piace il tuo mantello» (Benci, p. 104): fatto sta che il tentativo di riconciliazione fallì e il 28 settembre Giulio III fu costretto a richiamarlo nell’Urbe.
Il 17 maggio 1553 passò dal vescovado di Lucera a quello più ricco e prestigioso di Grosseto, che affidò in ottobre alle cure del nipote Giacomo riservandosi però l’amministrazione dei frutti, la collazione dei benefici e il diritto di regresso, oltre a due pensioni di 50 fiorini per due suoi «familiari».
Il M. partecipò ai due conclavi del 1555, che elevarono al soglio pontificio rispettivamente Marcello Cervini, Marcello II, e Gian Pietro Carafa, Paolo IV. Nel corso della prima elezione egli era indicato fra quanti pensavano «così bene al papato» (Pastor, VI, p. 303 n. 1) insieme con Morone, R. Pio da Carpi, R. Farnese e fu un grande elettore di Cervini, il quale lo volle coinvolgere nelle discussioni sulla nuova bolla relativa al conclave che aveva in animo di promulgare.
Nel conclave in cui prevalse Paolo IV, come si evince da una lettera del 20 marzo 1555 di C. Capilupi al marchese di Mantova e Monferrato sulle «pratiche del papato», il nome del M. era fra quanti «vanno per lo tavogliere», ossia erano oggetto di scommesse come papabili (Archivio di Stato di Mantova, Gonzaga, b. 889, cc. 276v-277r): era quotato «due et tre», ben distanziato dal Carafa che si vendeva a 25 e dal Morone dato tra 16 e 17, ma comunque in gioco (ibid., c. 293r). Il M., insieme con R. Farnese, I. Ciocchi Del Monte e Capodiferro, osteggiò l’elezione del cardinale filoimperiale G. del Pozzo detto il Puteo, favorendo così la vittoria di Carafa. Un posizionamento decisivo se si vuole prestare fede a una lettera del 23 maggio 1555 di C. Olivo a S. Calandra in cui si alludeva proprio al comportamento di cardinali come il M., che avevano progressivamente spostato il loro voto su Carafa «per ambitione di voler essere quelli che facciano il Papa di lor mano», sicché «la cosa passò con molto tumulto et non senza scandalo degli amatori del bene et con pericolo di scisma, percioché fu eletto il Putio da alcuni et da alcuni altri Chieti et da hieri alle venti hora fin hoggi alle diciotto s’è stato con duoi papa in conclave» (ibid., c. 374r). L’8 ott. 1555 Paolo IV lo convocò insieme con altri selezionati cardinali nel suo appartamento privato per illustrare le ragioni della rovinosa guerra che da lì a poco avrebbe condotto contro la Spagna e le truppe imperiali.
Il M. morì il 10 ag. 1557 a Roma e fu seppellito nella chiesa di S. Maria della Pace.
Fonti e Bibl.: Siena, Biblioteca comunale, Miscellanee raccolte da Giovanni Antonio Pecci, III: Giuseppe Fabiani, Vita del card. F. M. raccolta dalle lettere e altre memorie del med.o cardinale conservate presso la famiglia dal Giuseppe Fabiani sacerdote sanese, cc. 1r-12v; Siena, Archivio privato Famiglia Mignanelli, Lettere e memorie del cardinale Fabio Mignanelli, VIII, cc. 72 ss.; Biblioteca apostolica Vaticana, Barb. lat., 5792, c. 153; Vat. lat., 14830, c. 155r e passim; Arch. segreto Vaticano, Segreteria di Stato, Principi, 12, cc. 226r-229r; Carte Farnesiane, b. 20, c. 20r e passim; Armadio XLI, 24, n. 292, c. 154; Arch. di Stato di Firenze, Cervini, bb. 15, passim; 16, c. 4 bis; 17, passim; 18, passim; 43, c. 57r; Medici, bb. 12, c. 94; 1860, c. 49; 1851, c. 148; Arch. di Stato di Mantova, b. 889, cc. 276v-277r e 293r; Bologna, Biblioteca universitaria, Mss. it., 1249 (varie scritture attinenti alla famiglia Mignanelli) passim; Arch. di Stato di Bologna, Senato, Lettere di principi e prelati al Senato, 1550-1553, passim; Arch. di Stato di Parma, Farnesiano estero, Bologna, bb. 182-183; Venezia, bb. 509, n. 87, 166/4, 169 passim; Boemia, b. 4, passim; Epistolario scelto, b. 12, passim; Raccolta manoscritti, 58, c. 22; Bergamo, Arch. della Curia arcivescovile, Archivio Grumelli-Pedrocca, C, 5a; Roma, Arch. generale dei Barnabiti, L.a.6: M. 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M. Gotor