MARRETTI, Fabio
– Nacque a Siena, «ben nato di nobile, et antica famiglia» (dedicatoria di Ovidio, Metamorfosi, Firenze 1570, pp. n.n.), da Lattanzio. L’anno di nascita è dubbio. I documenti attestano l’esistenza di due Fabio di Lattanzio, uno battezzato il 20 luglio 1522 e un altro il 29 apr. 1536 (Arch. di Stato di Siena, Biccherna, Battezzati, n. 1135, cc. 36r, 364v). Difficile, però, accogliere la data alta, a fronte di quanto si legge nella prefazione A i lettori della medesima opera, dove il M. si definisce «anco giovene».
La famiglia apparteneva al monte del Popolo. Tra i suoi antenati si ricordano Girolamo di Andrea, dottore di medicina, Andrea di Agnolo, «il primo che si trovi riseduto nel supremo Maestrato» nel 1431, e Francesco, che fu capitano del Popolo nel 1482 e nel 1487.
Assai scarse le notizie sulla giovinezza del Marretti. Ricevette un’educazione umanistica e conobbe le lingue greca e latina. Fu socio dell’Accademia degli Intronati con il nome di Obbediente. Dovette essere tenuto in considerazione dai propri concittadini, tanto che Ugurgieri lo dice «il decoro della nostra nazione» (p. 576). Come altri membri della famiglia partecipò, sia pure per breve tempo, alla vita politica di Siena, e fece parte del Concistoro nel gennaio-febbraio 1558 per il terzo di S. Martino.
Nel 1568 pubblicò il volgarizzamento dei primi tre libri delle Metamorfosi d’Ovidio, nuovamente tradotte in ottava rima… senza punto allontanarsi dal sopradetto poeta, libri tre (Firenze, Figli di L. Torrentino - C. Pettinari), probabilmente per saggiare la risposta del pubblico in vista della stampa dell’opera completa (forse per questo motivo il libro apparve senza dedica). Nel 1568 il M. ebbe a gravitare sull’ambiente fiorentino: in una lettera al duca di Ferrara Alfonso II d’Este, datata 29 ott. 1569, riferisce che l’anno precedente era a Firenze, ospite della nobile famiglia Del Nero.
Nel 1570 apparve a Venezia (B. Zalteri - D. e G.B. Guerra), in un volume in 4° dal sontuoso frontespizio architettonico, il volgarizzamento integrale delle Metamorfosi. Nella prefatoria A i lettori il M. si inserisce nel dibattito sulle traduzioni dei classici, che in quel periodo era piuttosto vivace.
La disputa riguardava il ruolo del traduttore, oscillante fra auctor e interpres. Per effetto dell’opzione bembesca, che aveva svincolato il volgare dalla sudditanza nei confronti del latino, il volgarizzamento si affermò nel Cinquecento come opera nuova, consentanea ai moderni criteri estetici e disciplinata dal sistema formale del volgare. Per Ovidio la tradizione indicava un’ampia libertà dal testo originario, facente capo alla versione di Giovanni Bonsignori (seconda metà del XIV secolo, a stampa nel 1497). Al 1522 (Venezia) risaliva la traduzione di Niccolò Agostini, cui si rifece Lodovico Dolce nelle sue Trasformationi (Venezia 1553); del 1561 (Venezia) sono le Metamorfosi di Giovanni Andrea dell’Anguillara. Consapevole del successo ottenuto da queste opere, il M. dichiara di avere voluto rendere giustizia al poeta latino, dal momento che i suoi predecessori si sono allontanati dall’originale alterandolo e aggiungendo nuova materia. Scoperto è il riferimento a Dolce e Anguillara, che avevano riscosso il plauso del pubblico accentuando l’attualizzazione dell’opera, sostituendo l’io narrante del volgarizzatore a quello dell’autore, effettuando tagli e aggiunte arbitrari, piegando contenuti e strutture originali a un verseggiare di chiara ascendenza ariostesca. Il M. è deciso nell’accusarli di avere fatto «un poema quasi in tutto diverso da Ovidio».
L’intellettualismo del M. si fa ancora più scoperto nell’indirizzare la sua fatica «a tutti gli intelletti purgati», agli «spiriti gentili», cioè a un pubblico colto e selezionato, ben distinto da coloro «solamente vaghi di lunghi infraseamenti, e di versi alla grossa». La perentoria affermazione della superiorità del latino sul volgare e la scelta di una traduzione che renda «il senso al senso, la clausola alla clausola, e la parola alla parola» lo avvicinano alle posizioni di letterati-umanisti come L. Castelvetro e Alessandro Piccolomini, che guardavano con sospetto a concessioni eccessive al gusto moderno. Il M. non fu però del tutto coerente con le idee professate. Vero è che licenziò il volgarizzamento con testo latino a fronte, ma la scelta dell’ottava rima mal si prestava a intenzioni di rigorosa trasposizione. Inoltre, ogni canto si apre con un’ottava estravagante dedicata alla lode di Alfonso II d’Este, sorta di esordio sulla falsariga dei poemi cavallereschi. Dal punto di vista estetico, il risultato appare deludente, con una versificazione dura e a tratti persino stentata.
Le modeste capacità poetiche del M., più che la penuria di «spiriti gentili», condannarono l’opera all’insuccesso prima e all’oblio poi. Il suo volgarizzamento compare citato ancora nel 1610, accanto a quelli di Dolce e Anguillara, ne L’Arte poetica di Orazio in ottava rima, col testo latino appresso, Nuovamente tradotta dal dottore Scipione Ponze (Napoli, nell’Epistola ai Lettori, c. x3v), ma la fatica del M. sembra ricordata più per le analogie con gli altri due volgarizzamenti (la scelta dell’ottava) che per la diversità dell’impostazione; segno, in definitiva, della scarsa e inefficace accoglienza riservata a quello sforzo. La traduzione fu ristampata nel Corpus omnium veterum poetarum Latinorum (Milano 1749), a cura di F. Argelati, che la preferì al volgarizzamento di Anguillara.
La dedica delle Metamorfosi ad Alfonso II d’Este rivela, al di là delle formule encomiastiche, un’abbondanza di particolari da far pensare a un rapporto principe-cortigiano già in essere. A sostegno di tale ipotesi stanno due lettere indirizzate dal M. al duca e conservate manoscritte nell’Arch. di Stato di Modena (in Bettini, 1954, pp. 77 s.). L’una, datata 7 genn. 1570, sembra presupporre un rapporto di conoscenza diretta. Con tono confidenziale il M. si rivolge al duca per un «dispiacere» causato da due uomini influenti della corte estense: verosimilmente Archelao Acciaiuoli e il segretario ducale Giovan Battista Pigna. Con l’altra, datata 29 ott. 1569, il M. informò il duca della propria decisione di dedicare il volgarizzamento dell’Africa di F. Petrarca alla nobildonna fiorentina Aloisia Ridolfi, cui era legato da una promessa: dato che lo riconosceva come suo unico padrone, attendeva da Alfonso il beneplacito.
Ad Aloisia Ridolfi il M. dedicò in effetti il volgarizzamento dei primi tre libri de L’Africa del Petrarca in ottava rima insieme col testo latino, fedelissimamente tradotta… (Venezia, D. Farri, 1570), ma con una consistente prefazione indirizzata a Tomaso Del Nero, marito della Ridolfi.
La prima parte della prefazione elogia Petrarca, che ha restituito «la vera norma universale di poetare thoscanamente a’ posteri», ma soprattutto che «corresse tacitamente quei seguaci di Dante, ch’erano disciplinabili, e di qualche giudicio: i quali imitando il lor maestro poetavano duramente, oscuramente, e rozzamente, con arte affaticata, e scoperta, ponendo in versi le dottrine loro o d’altri secondo l’uso de philosophi scientifico, e scolastico». Tale affermazione richiama la controversia sulla Commedia dantesca che ebbe proprio a Siena il suo centro, coinvolgendo personaggi di spicco della cultura senese del secondo Cinquecento (B. Bulgarini, I. Mazzoni) e che si estese oltre le questioni specificamente estetiche a una più generale riflessione sul fine della poesia, se essa cioè fosse parte o meno della filosofia morale.
Del M. sono note inoltre dodici stanze nel Primo volume della scielta di stanze di diversi autori toscani raccolte da Agostino Ferentilli (Venezia, I. Giunti, 1571). Si tratta di ottave in bisticcio d’argomento amoroso: un divertissement virtuosistico che testimonia ancora una volta un atteggiamento intellettualistico ed aristocratico. Infine, un Sonetto di m. Fabio Marretti gentil’huomo senese in lode del sacro Monte della Verna, et di san Francesco è nel paratesto del Nuovo dialogo delle devozioni del sacro monte della Verna di A. Milio (Firenze, Figli di L. Torrentino - C. Pettinari, 1568).
La data e il luogo della morte del M. sono sconosciuti.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Siena, Mss., A.15, c. 183r; A.30.II: A. Sestigiani, Compendio istorico di sanesi nobili, c. 390; A.30 bis, c. 390; Concistoro, 2338: Libro dei Leoni, c. 106r; Siena, Biblioteca comunale, Mss., C.III.26, cc. 10v-11r (lettera del M. a Marcello Agostini, Siena 6 luglio 1568); P.IV.11: S. Bichi Borghesi, Bibliografia degli scrittori senesi, c. 66; I. Ugurgieri Azzolini, Le pompe sanesi, o vero Relazione delli huomini, e donne illustri di Siena, e suo stato, Pistoia 1649, I, pp. 576 s.; G.G. Sbaraglia, Supplementum et castigatio ad Scriptores trium Ordinum S. Francisci a Waddingo, aliisve descriptos, Romae 1921, II, p. 209 (s.v. Marcus Fabius Varretus); Edizione nazionale delle opere di G. Carducci, XI, Petrarca e Boccaccio, Bologna 1936, p. 99 (con il cognome Manetti); L. Sbaragli, «I tabelloni» degli Intronati, in Bull. senese di storia patria, XLIX (1942), p. 240; G. Bettini, Un volgarizzamento delle «Metamorfosi» di Ovidio dedicato al duca Alfonso II d’Este e suo probabile influsso nell’opera del Tasso, in Convivium, 1948, vol. 6, pp. 862-872; Id., F. M. ignorato corrispondente con il duca Alfonso II d’Este e ispiratore della poesia encomiastica del Tasso, in Atti e memorie della Deput. provinc. ferrarese di storia patria, n.s., XII (1958), pp. 57-78; B. Guthmüller, Il volgarizzamento dell’«Africa» di F. M: contributo alla fortuna del Petrarca nel Cinquecento, in Lettere italiane, XXXII (1980), pp. 43-53; L. Borsetto, Tradurre Orazio, tradurre Virgilio. «Eneide» e «Arte poetica» nel Cinque e Seicento, Padova 1996, p. 247; B. Guthmüller, Mito, poesia, arte. Saggi sulla tradizione ovidiana nel Rinascimento, Roma 1997, pp. 82 s., 123, 133, 138; M. Gazzotti, La prima traduzione cinquecentesca dell’Africa (libri I-III), in Il Fondo Petrarchesco della Biblioteca Trivulziana. Manoscritti ed edizioni a stampa (sec. XIV-XX), a cura di G. Petrella, Milano 2006, pp. 163-165; Enc. Italiana, XXII, s.v. Mazzetti, Fabio.