CAPECE GALEOTA, Fabio
Nacque a Napoli nel 1572, in un'antica famiglia patrizia napoletana, aggregata al seggio di Capuana. Si dedicò agli studi di giurisprudenza, avendo come maestro, tra gli altri, Giacomo Gallo, che per alcuni anni insegnò all'università di Napoli. Si avviò all'esercizio del foro sotto la guida del celebre giureconsulto Annibale Moles, ma molto apprese circa l'esercizio forense anche da Camillo de Curtis, il quale era suo parente per via materna.
Giovò, forse, alla sua carriera anche il matrimonio con Anna de' Medici, figlia di Camillo, altro celebre avvocato napoletano. Nell'anno 1606 il C. divenne giudice della Vicaria civile e in tale qualità pubblicò il Responsum pro Duce Gravina super successione principatus Bisiniani (Neapoli 1612). In seguito, dal 1625, ricoprì la carica di consigliere del Sacro Regio Consiglio. Fu, quindi, dal 1631 presidente della Regia Camera della Sommaria e avvocato del Regio Patrimonio. Mentre ricopriva tali cariche, pubblicò il Responsum de officiorum ac regalium prohibita sine principis auctoritate commutatione et alienatione (Neapoli 1628), dedicato al viceré, duca d'Alba, e il De Principis potestate circa revocationem privilegiorum et concessionum,praesertim demanialium,jurisdictionalium et earum etiam quae in contractus transfunduntur,responsum (Neapoli 1630).
Durante gli anni in cui fu consigliere e avvocato del fisco nella Sommaria il C. incontrò molte difficoltà nell'espletamento dei suoi compiti, a causa dei gravi difetti costituzionali che viziavano il sistema politico vigente. Abusi dei ceti privilegiati, malversazioni e disservizio dell'amministrazione costituivano la normalità e ben poco potevano le autorità, ridotte ormai a uno stato di impotenza, quando non addirittura conniventi.
Nel maggio 1628 il C. era costretto ad invocare la protezione del viceré contro il principe di Roccella. Insieme a Scipione Rovito, uno dei presidenti della Sommaria egli aveva proceduto all'arresto di un mercante genovese, tale Giovanni Antonio Botta, sorpreso a contrabbandare fave e grano. L'arresto aveva provocato l'intervento del principe di Roccella che non solo aveva dichiarato il grano e le fave di sua proprietà, ma aveva anche avanzato legittima suspicione contro il C., al quale negava il diritto di inquisire in un affare che lo riguardava, dati i cattivi rapporti esistenti tra il C. stesso e il reggente Costanzo suo parente. Nellostesso anno il C. dovette protestare contro lo stesso viceré, perché questi, avendo il C. fatto arrestare il partitario Alfonso Mazzola, nel corso di un'inchiesta sulle frodi commesse a danno del Patrimonio nella lavorazione del ferro per le galee, lo aveva improvvisamente destituito dall'incarico.
Nel periodo 1628-1630 il C. intervenne anche nelle questioni giurisdizionali, sulle quali si scontravano potere civile e potere ecclesiastico. A difesa delle prerogative regie scrisse il Discorso indirizzato all'Eccellenza del Signor Duca d'Alba per la difesa della Regia Giurisdizione in materia della cognizione del delitto dell'assassinio contro clerico (Napoli, Soc. di storia patria, ms. XXIII B 3).
L'indipendenza con cui procedeva in quegli anni il S. Officio nel Regno di Napoli rese necessario il ricorso ai migliori giuroconsulti del tempo affinché fossero messi in evidenza gli abusi commessi da alcuni importanti esponenti delle gerarchie ecclesiastiche. Nel 1628 il C. diede alle stampe il Discorso indirizzato all'Ecc. del Sig. Duca d'Alva dell'antichissimo costume e dell'inviolabile osservanza di non potersi poner mano nel Regno a carcerare nessuna persona per causa d'eresia o del S. Ufficio senza prima darne notizia alli Signori Viceré, dove il problema del contrasto giurisdizionale tra Stato e Chiesa viene affrontato in termini storico-giuridici. In quello stesso anno pubblicava, sempre a Napoli, una Relazione all'Ecc. del Signor don Alvarez de Toledo duca d'Alva,viceré di Napoli,nell'occasione di quel che è nuovamente successo dell'ordine di Roma dato per esumare il cadavere dell'Ill.mo principe di Sansevero per non haver pagate le decime al Rev. Vescovo. In materia di rapporti tra potere civile e potere ecclesiastico si deve ancora al C. un Discorso drizzato all'Ecc. del Signor Duca d'Alva per comprobatione della cognitione del clericato conforme al rito della Vicaria approbato successivamente in diversi tempi da molti Sommi Pontefici et altri ecclesiastici (Napoli, Bibl. Seminario, L - XVIII - 6-3, ff, n.n., s.d.).
Le questioni nelle quali si trovò a dover giudicare durante la sua carriera di magistrato fornirono, al C. la materia per i suoi Controversiarum iuris illustriorum atque frequentiorum libri (Neapoli 1636). Si trattava soprattutto di materia feudale discussa nella Camera della Sommaria, nel Sacro Regio Consiglio, in Collaterale e nel Supremo Consiglio d'Italia. In quegli anni, che segnarono l'acuirsi della crisi finanziaria, e politica del Regno, il C. si trovò a esprimere alcuni pareri in materia fiscale, la cui contraddittorietà sembra riflettere la difficoltà dei funzionari dell'amministrazione del Regno a trovare un equilibrio tra la loro condizione di pubblici ufficiali e l'appartenenza a forze politiche e sociali in opposizione più o meno velata nei confronti della Corona.
Va, infatti, tenuto presente che il ceto dei "togati", affermatosi in relazione al progressivo estendersi del potere statale, pur costituendo un elemento di differenziazione nella struttura sociale del Mezzogiorno, non si rese mai del tutto autonomo dai legami con le forze tradizionali. I funzionari furono certamente i principali sostenitori degli interessi dello Stato e della Corona e per dovere di ufficio e perché al rafforzamento dell'assolutismo regio erano legate le loro fortune. Ciò non impediva, però, che gli esponenti di questo ceto, una volta raggiunta una ragguardevole posizione sul piano economico, mirassero all'assimilazione con l'aristocrazia tradizionale, elemento, questo, di fondamentale importanza per comprendere i limiti della funzione della classe burocratica e quelli del processo di articolazione sociale nel Mezzogiorno. Ne derivava una situazione politico-sociale estremamente complessa con prese di posizione contraddittorie, di cui quelle assunte dal C. si possono considerare un esempio.
Durante i governi del conte di Monterey e del duca di Medina de Las Torres la crisi finanziaria fu all'origine, tra l'altro, di un gran numero di alienazioni di terre demaniali. Da questo processo stavano per essere coinvolte le stesse zone più prossime alla capitale, i Casali. A tale proposito fu chiesto, nel 1638, il parere della Sommaria che, attraverso il C., si dichiarò decisamente favorevole alla vendita. Il C. concludeva, infatti, che "è pericoloso disputar de' fatti de' sovrani e che hanno essi la facoltà di fare anche quello che è supra jus,contra jus et extra ius" per cui "non si doveva loro domandare ragione di ciò che facevano" (Winspeare, pp. 193 s.; Bianchini, p. 188). Significativa espressione di consenso, questa, alla concezione del potere assoluto della monarchia che giustificava la vendita delle terre demaniali per rinsanguare le finanze dello Stato. L'anno seguente, d'altra parte, in una riunione congiunta del Collaterale e della Sommaria, in cui venne discussa l'eventualità di una imposizione di tributi che avrebbero colpito anche le rendite nobiliari, il C. si schierò a favore delle tesi aristocratiche.
La nobiltà aveva, infatti, opposto una grande resistenza al tentativo di imporre nuove tasse e aveva cercato di avviare un nuovo rapporto, più favorevole ai suoi interessi, con la monarchia. Le trattative si preannunciavano pericolose per l'ampiezza e l'intensità dell'agitazione aristocratica. Nella riunione del 20 sett. 1639 il C. affermava la necessità di "rappresentare nuovamente a S. M. le miserie e necessità del Regno..." e che "S. M. intendeva che non è venuta nessuna nova flotta dall'Indie per soccorrerci" e, infine, che "l'arbitrio della carta bollata... distruggerà tutte le mastrodattie, così regie, come de' baroni" (Notam. Collat.).La presa di posizione del C. era certamente adesione alle tesi aristocratiche ma era anche consapevolezza della incapacità del Regno di sostenere nuovi pesi fiscali. Le contraddizioni cui egli era indotto dalla duplice condizione di esponente della nobiltà napoletana e di funzionario della pubblica amministrazione, in obbligo di fare innanzitutto gli interessi dello Stato, si risolvono, almeno in questo caso, nel realismo dimostrato dal C., che non perdeva di vista né le effettive condizioni politiche e finanziarie del Regno né le esigenze della Corona.
Per le posizioni sostenute, nonostante le contraddizioni di cui si è detto, il C. rientra nell'ambito di quella cultura giuridica che tra la fine del sec. XVI e la prima metà del XVII avvertì la necessità di un rinnovamento dell'ordinamento istituzionale dello Stato, la cui forza e la cui autorità si accentrava nella monarchia. Il potere assoluto del re era concepito dal C., come dagli altri giuristi del suo tempo, in funzione della pubblica utilità, ed in questo senso vanno intesi i richiami al diritto naturale e al diritto delle genti. Su quest'ultimo si fonda, secondo il C., anche la proprietà privata. Pertanto, nei suoi Responsia fiscalia selectiora (Neapoli 1643), che erano stati da lui stesi a favore del Regio Patrimonio, egli affermava che né colpe né eresie né infedeltà potevano giustificare la confisca dei beni. D'altra parte, in virtù dell'esclusivo potere supremo di cui è depositario, al monarca riconosce, in una delle sue controversie, il diritto di abbattere i castelli dei baroni, se ciò fosse richiesto dalle esigenze dello Stato, portatore e garante di interessi generali (Controversiarum iuris... p. 419).Nel ribadire le prerogative di quest'ultimo il C. affermava nei suoi Responsia fiscalia come anche nel Discorso fatto per il regio fisco e patrimonio di S.M. in questo Regno (Napoli, Bibl. naz., ms. 21. C. 41)che nessuna interferenza ad opera di altri poteri poteva essere tollerata.
Nel 1638 il C. fu nominato reggente nel Consiglio d'Italia. Dalla Spagna tornò insignito del titolo di duca della Regina, costruito su una masseria totale sita in Gragnano, e con la nomina a giudice della Vicaria per il figlio Giacomo. Negli ultimi anni della sua vita ricoprì la carica di reggente del Consiglio collaterale.
In tale qualità gli fu affidata nel 1645 una nuova inchiesta sulla dogana di Foggia. Già nel 1626 il C. aveva negoziato la locazione della dogana con i proprietari del bestiame: in quell'occasione aveva espresso al viceré parere sfavorevole circa un aumento del prezzo degli affitti. Quando nel 1645fu incaricato della nuova inchiesta, la dogana di Foggia era ormai in piena crisi, in corrispondenza col generale stato di disgregazione in cui il Regno versava da circa un ventennio. Le conclusioni cui giunse concordavano con quelle che Alonso de la Carrera, visitatore inviato a Napoli per riordinare l'amministrazione finanziaria del Regno, aveva esposto nel 1637 al Consiglio d'Italia. Le cause principali della crisi dovevano vedersi nella prepotenza dei baroni che non solo avevano usurpato terre e tratturi, ma che dichiaravano un numero di pecore inferiore a quello effettivo, mentre i più poveri venivano costretti a pagare in misura maggiore di quanto ad essi non spettasse. Il C. estese la sua indagine al mercato della lana: attribuiva le sue difficoltà alle speculazioni dei mercanti che ritardavano l'acquisto della lana in modo che i proprietari di greggi, per sottrarsi al caldo della stagione estiva, finivano col vendere il prodotto a bassissimo prezzo. Di conseguenza diventava impossibile costringerli a pagare il canone dell'amministrazione della dogana.
Morì nel corso di questa inchiesta, il 15 dic. 1645.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Napoli, Notam. del Collaterale, XXXVIII, 20 sett. 1639; Napoli, Società di storia patria, ms. XXIII B 3, ff. 263-304;Ibid., Biblioteca nazionale, ms. 21. C. 41;Ibid., Biblioteca del Seminario, L. XVIII. 9.24;N. Toppi, De orig. omnium tribunalium, Neapoli 1659, 2, l. 4, pp. 351-353;Id., Catalogus cunctorum regentium et iudicum, Neapoli 1666, ad Indicem; F.D'Andrea, Avvertimenti ai nipoti, a cura di N. Cortese, in Archivio storico per la provincie napoletane, n.s., VI (1920), p. 177; B. Aldimari, Memorie historiche delle famiglie nobili, Napoli 1691, II, p. 248;P. Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli, Napoli 1779, XXXII, 5, p. 679; XXXIII, 9, pp. 119 s.; XXXVIII, 4, p. 358;B. Chioccarelli, De illustribus scriptoribus qui in civitate et Regno Neapolitano... floruerunt, Neapoli 1780, pp. 154 s.; L. Giustiniani, Memorie istoriche degli scrittori legali del Regno di Napoli, Napoli 1787, I, pp. 178-182; C. Minieri Riccio, Memorie storiche degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Napoli 1844, p. 73; L. Bianchini, Della storia delle finanze del Regno di Napoli, Napoli 1859, p. 188; D. Winspeare, Storia degli abusi feudali, Napoli 1883, pp. 193 s.; N. Cortese, I ricordi di un avvocato napoletano del Seicento, Napoli 1923, p. 242; L. Marini, Pietro Giannone e il giannonismo a Napoli nel Settecento, Bari 1950, p. 93; G. Galasso, Contributo alla storia delle finanze del Regno di Napoli nella prima metà del Seicento, in Ann. dell'Ist. stor. ital. per l'età moderna e cont., XI (1959), pp. 34-39; R. Colapietra, Vita pubblica e classi politiche del viceregno napoletano (1656-1734), Roma 1961, p. 10; R. Villari, La rivolta antispagnola a Napoli, Bari 1967, pp. 21, 232; A.Lauro, Il giurisdizionalismo pregiannoniano nel Regno di Napoli, Roma 1974, ad Indicem.