BENVOGLIENTI, Fabio
Nacque a Siena il 19 ott. 1518 da Giovanni Battista. Secondo la testimonianza dell'Ugurgieri, fu giurista come il fratello Girolamo e insegnò nello Studio senese. La notizia tuttavia non trova conferma in altre fonti e resta alquanto dubbia. Certo è, invece, che la sua prima formazione culturale si svolse sotto il segno di un interesse letterario alimentato dal magistero intellettuale del suo concittadino Claudio Tolomei, dal quale fu avviato alla carriera di uomo di lettere e di negozi.
I rapporti con il Tolomei sono documentati dalle lettere di quest'ultimo, delle quali il B. stesso curò la stampa a Venezia nel 1547, aggiungendo una sua lettera a Mino Celsi, in data 25sett. 1547, che presentava l'iniziativa come un doveroso omaggio al maestro e protettore e precisava il criterio, letterario e non filologico, seguito nella scelta e nell'ordinamento delle lettere, non senza avanzare particolari osservazioni linguistiche e ortografiche in tutto degne del fedele discepolo dei Tolomei.
L'iniziativa ebbe sgradevoli ripercussioni a Siena, dove i Dieci conservatori della libertà, ravvisando, in una lettera dello scrittore senese esule dalla sua città sin dal 1526, accenni di critica alle istituzioni della Repubblica, fecero sequestrare e bruciare le copie dell'opera circolanti in territorio senese, intimando al Tolomei e al B., il 18 genn. 1548, di presentarsi per discolparsi sotto pena di un'ammenda dimille ducati. La vertenza fu risolta solo con l'intervento del rappresentante spagnolo a Siena don Diego de Mendoza che, sollecitato dal Tolomei, indusse la Signoria ad accontentarsi di una semplice lettera di ritrattazione indirizzatale dallo scrittore.
L'epistolario attesta una lunga affettuosa consuetudine del giovane letterato con il Tolomei, del quale pubblicò anche due orazioni nello stesso anno(Due orazioni in lingua toscana..., in Parma, appresso Sette Viotto, 1547). Dall'influente scrittore senese il B. fu introdotto negli ambienti letterari ed editoriali fiorenti a Venezia, dove si era trasferito in cerca di sistemazione, e caldamente raccomandato, oltre che a L. Dolce e a D. Atanagi, a Pietro Aretino: il 4 maggio 1547 gli fu presentato come "giovane indrizzato a i buoni studii e degno d'esser da voi conosciuto e amato". Dall'Aretino, che tenne a battesimo l'edizione delle lettere del Tolomei, il B. ebbe tre lettere (dall'ottobre e dicembre 1547) laudatorie, ma non quell'aiuto nella ricerca di una sistemazione che probabilmente si aspettava. I rapporti con "il divino messer Pietro" continuarono, ma sempre su un piano genericamente complimentoso, ancora per qualche tempo, almeno fino al maggio del 1550, quando il B. gli scrisse da Roma, professandosi "quel grande osservator de le rare e divine virtù vostre".
Nonostante tutta l'affettuosa sollecitudine del Tolomei il soggiorno veneziano restò solo un periodo di volenteroso tirocinio letterario privo di esiti pratici di qualche consistenza: si ha notizia di un'elegia greca, di un epigramma "tradotto dal greco ne la lingua nostra" che al Tolomei sembrò "assai bello", di un sonetto e di un'ottava compresi nella raccolta Rime di diversi nobili uomini et eccellenti poeti nella lingua thoscana, libro secondo, in Vinegia, appresso Gabriel Giolito di Ferrari, 1547, c. 184r.
L'insuccesso veneziano indusse il B. a cercare sistemazione altrove. Già dal 1542 egli aveva pensato a Roma, sollecitando invano un intervento del Tolomei. Ora si rivolse ad Annibal Caro, che il 25 febbr. 1548 lo invitò a romper gli indugi e trasferirsi a Roma dove la sua presenza avrebbe costituito una buona garanzia di sicura sistemazione. Il B. accolse sicuramente con tempestività il consiglio dell'esperto cortigiano, che con tutta probabilità lo sistemò al servizio del suo stesso signore, il cardinale Alessandro Farnese. Certo è che egli, sicuramente a Roma nel maggio dei 1550 (data della lettera all'Aretino), in una seconda lettera al concittadino Mino Celsi, non datata(Descrittione della villa di Lucullo, in Lettere volgari di diversi nobilissimi ingegni, scritte in diverse materie, libro terzo a cura di P. Manuzio, Venetia 1564, cc. 110 v-112 v), riferì di una escursione in una villa del Tuscolano, che si diceva essere appartenuta a Lucullo, al seguito di papa Paolo III, morto il 10 nov. 1549.
A Roma il B. trovò l'ambiente più adatto alle sue ambizioni, e vi restò, con qualche interruzione, per tutta la vita, passando al servizio di vari cardinali (di uno solo si conosce il nome: verso il 1568 era segretario di Giovanni AntonioCapizzucchi) e finalmente a quello del papa, Gregorio XIII, per incarico del quale tradusse in latino uno scritto del patriarca di Costantinopoli Gennadio Scholario (Gennadii Scholarii... Defensio quinque capitum, quae in sancta et oecumenica Florentina Synodo continentur F. Benevolentio... interprete..., Romae 1579, e poi Dilingae 1581 e Romae 1637). Nel corso del lungo soggiorno romano tradusse ancora dal latino in volgare il Trattato de l'origine e accrescimento de la città di Siena, Roma 1571 (e poi 1574), dell'avo Bartolomeo Benvoglienti, e pubblicò un Discorso sopra la materia degli affetti..., Siena 1578. Alcuni suoi sonetti si conservano nella Biblioteca Apostolica Vaticana (Barb. lat. 3792, c. 88 v; Barb. lat. 4039, c. 100 r), come pure una sua lettera a Gregorio XIII che annuncia l'imminente pubblicazione della traduzione di Gennadio (Reg. lat. 2033, c. 36 r).
Il nome del B. si perderebbe nella più che legittima oscurità cui lo condanna la stentata e insulsa produzione letteraria, se egli nel 1567 non avesse partecipato con un ruolo di punta a un accademia promossa dal cardinale Marcantonio Da Mula, bibliotecario di Santa Romana Chiesa, sul tema allora di scottante attualità, "per quale ragione per la religione non si sia fatta guerra tra i gentili, e perché si faccia tra i cristiani".
Alla discussione parteciparono alcuni esponenti di quell'ambiente romano di segretari, largamente impregnato di machiavellismo, che in clima di imperante Controriforma ritesseva le linee di una politica cattolica. Furono della partita fra gli altri Gianfrancesco Lottini, Uberto Foglietta, Fabio Albergati, Lucio Maggio e Tommaso Aldobrandini (gli interventi di alcuni di loro si conservano nel cod. Ottob. lat. 1853della Biblioteca Apostolica Vaticana), ma solo la memoria del B. ebbe l'onore delle stampe (Discorso di M. Fabio Benvoglienti, per qual cagione per la religione non si sia fatta guerra fra, gentili, et perché si faccia tra Christiani. Con alcune cose ad esaltatione della fede cattolica, et depressione de gl'heretici. All'illustriss. et reverendiss. cardinale Amulio, Con licenza et privilegio, in Fiorenza, appresso Bartholomeo Sermartelli, 1570, e poi, in Siena, per Luca Bonetti, 1575).
L'intervento del B. partiva da una recisa condanna della guerra di religione pronunciata già nella dedicatoria al cardinale Da Mula che introduce l'opuscolo ("la qual heresia producendo tra molti mali ancor la guerra, forse peggiore di tutti gli altri", p. 5), e assunta come motivo generatore di tutta l'argomentazione. In riferimento a tale presupposto, l'atteggiamento degli antichi, unicamente solleciti di ciò "ch'apparteneva a la sicurtà de lo stato" e disposti a lasciare "intendere che ogni religione fusse tollerabile e buona, né ci fusse altra differenza tra esse, che è tra le leggi e l'usanze d'un paese a l'altro" (p. 8), acquistava, nel tacito confronto con l'atteggiamento ben diverso dei moderni, una forte efficacia polemica. Alla considerazione del lettore si apriva il quadro di una superiore civiltà decisamente aliena da ogni condizionamento religioso ("tutte queste religioni dipendevano da gli huomini e da i magistrati..., congiungendo inseparabilmente la religione con le cose temporali e co i loro appetiti terreni", p. 9) e volta piuttosto a strumentalizzare l'esperienza religiosa a fini superiori di civile convivenza ("potremmo dir dunque che i savii conoscesser quelle religioni per false, il vulgo le credesse per usanza, gl'astuti se ne servissen per acquistarsi autorità... o per tener i populi con quella sotto l'obbedienza de le leggi, come allegavano essi, affermando che la potenzia humana non era suffiziente a dar loro credito senza la divina, e che la paura de le leggi non bastava a domar l'appetito esorbitante de gli huomini in vita, senza aggiugnervi lo spavento de la pena dopo la morte", p. 10). La scarsa incidenza della religione, "così leggiermente stimata da tutti", arrivava al punto da permettere che circolassero liberamente proposte di indifferentismo religioso come quelle di Epicuro "il qual diceva et insegnava pubblicamente la religione esser invenzion d'huomini, né Dio liaver providenza né cura come si governasse il mondo, ma esser commesso ogni cosa ad arbitrio dei caso e de la fortuna" (p. 11). Nessuna meraviglia quindi, concludeva il B., "se per cosa tanto freddamente stimata e quasi sprezzata non venissero a l'arme i gentili, non tenendo lor conto se non de le cose carnali, e principalmente del dominare altrui" (ibid.). Da questo atteggiamento di indifferenza gli antichi furono costretti a recedere solo dall'insorgere del Cristianesimo, religione, diversamente dalle antiche, rigorosamente totalitaria che, oltre ad escludere ogni possibilità di convivenza con le altre, negava risolutamente tutti i valori costitutivi della vecchia società. "Ragionevolmente dunque si comportavano l'altre da Romani e la Christiana s'impugnava, non convenendo con essa in cosa alcuna, ond'era necessario che queste due religioni si distruggessero in fra di loro, e si scacciassero, come l'acqua estingue il foco, l'humido il secco la morte la vita, il bene il male..." (p. 13). A tale radicale contrapposizione induceva l'opposto fondamento, materialistico e spiritualistico delle antiche religioni e di quella cristiana, con la necessaria conseguenza di una persecuzione sempre più sistematica i cui aspetti di inaudita ferocia il B. non mancava di sottolineare, non senza la mira sottintesa di evocare altre più recenti e non meno feroci persecuzioni.
A questo punto è evidente che la risposta del B. al quesito posto dal cardinale Da Mula era già ampiamente definita, né occorreva certo addentrarsi in una puntuale disamina della seconda parte del quesito, quella relativa alla guerra fra cristiani, che avrebbe comportato nella Roma di Pio V rischi piuttosto seri. In effetti per questa parte egli si limitò a dichiarare in modo abilmente evasivo che produce "sempre buoni effetti la buona causa e tristi la trista", per cui "se la religione cattolica... genera ogni bene, Pheresia che è religion corrotta generarà per conseguenza ogni male, essendo la natura de contrarii partorir effetti egualmente contrarii" (p. 16). Evitando accuratamente di fornire spiegazioni più precise, egli preferì soffermarsi sul vero "modo di curar questo male e di ridurre gli heretici sotto l'antica union de fedeli" (p. 18), quello stesso praticato dai primi cristiani rispetto alla persecuzione romana, "cioè le buone opere, la santità, l'innocenzia, l'integrità de la vita".
Il ripiegamento su tali indicazioni che sembravano riccheggiare genericamente posizioni del tipo di quelle sostenute negli ambienti della Riforma cattolica aveva certamente una funzione polemica, intesa a bilanciare, con una proposta di sapore inequivocabilmente religioso, l'impostazione nettamente irreligiosa della prima parte dell'opuscolo. Difficile stabilire, allo stato attuale delle nostre conoscenze, se la ripresa di un programma di questo tipo rispondesse, ancora quattro anni dopo la chiusura del concilio di Trento, all'ambizione di indicare una precisa prospettiva politica nei confronti del mondo protestante. Ad una intenzione chiaramente polemica va ricondotto in ogni caso il tono scopertamente apologetico di tutta la seconda parte dell'opuscolo, con la particolare insistenza sul prestigio conquistato dal papato medievale in forza del suo primato morale. Su questa base il B. poteva concludere con l'affermazione che "parlando umanamente... lo stato ecclesiastico è il più giusto principato che si trovi", visto che è fondato sul rilievo morale del suo capo e sul libero consenso dei popoli.
La posizione del B., ispirata da un indifferentismo religioso di sapore machiavelliano (la concezione della religione civile svolta nei capitoli XI-XV del libro I dei Discorsi fu sicuramente presente alla sua riflessione), per quanto abilmente mimetizzata in una intelaiatura sillogistica apparentemente impenetrabile, non mancò di richiamare l'attenzione di uno almeno dei partecipanti alla accademia tenuta in casa del cardinale Da Mula: Tommaso Aldobrandini.
Figlio del noto giurista Silvestro, l'Aldobrandini si muoveva in quegli stessi ambienti di Curia praticati dal B.: uditore di Rota, il 30 nov. 1568 fu nominato da Pio V segretario dei Brevi, ma morì di lì a poco nel 1570. Della sua cultura come dei suoi interessi per le dottrine politiche resta traccia in alcuni codici della Biblioteca Apostolica Vaticana (il Barb. lat. 356 contiene un suo trattato In Aristotelis Politicam notae, l'Urb. lat. 1243 la traduzione latina di un'orazione di Demostene). Una sua traduzione latina delle vite di Diogene Laerzio fu pubblicata postuma dal nipote, il cardinale Pietro Aldobrandini (Laertii Diogenis de vitis dogmatis et apophthematis eorum qui in filosofia claruerunt libri X..., Romae 1594).
Curiale di stretta osservanza controriformistica, l'Aldobrandini mosse alla memoria del B. quattordici obiezioni che si conservano manoscritte insieme alla replica del B. stesso in un codice della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (Capponi N. XX 7r-14r). Riaffermando la piena legittimità della guerra di religione, l'Aldobrandini dichiarò tendenziosa l'interpretazione delle religioni antiche come religioni civili, e rivendicò all'esperienza religiosa degli antichi una valore autonomo, operante come tale nel contesto di tutta la vita sociale. In tal modo egli scopriva il fondamento sostanzialmente irreligioso di tutta l'argomentazione del B., del quale trovava la puntuale riprova nell'atteggiamento evasivo assunto sulla scottante questione della guerra di religione fra cristiani. Dichiarare che produce "sempre buoni effetti la buona causa e tristi la trista" osservò "non è rispondere al quesito, ma amplificare l'inconveniente del dubio, et è d'avvertire che si lascia adietro un punto sustantiale et questo è perché i cattholici faccin guerra alli heretici, perché la guerra tra i christiani può esser in due modi, o fatta da gl'heretici a i cattholici o da cattholici a gl'heretici. Della prima parte si parla della seconda non si dice nulla" (cc. 9 v-10 r).
La replica del B., puntigliosa e indispettita, non concedette niente all'avversario, del quale respingeva risolutamente tutte le obiezioni. Sulla questione della guerra di religione fra cristiani in particolare se ne uscì con una esplicita dichiarazione di opportunità, precisando che "l'esporre perché i cattolici faccino guerra a gl'heretici s'è lassato per fuggire la lunghezza et alcun altre cose ancora, essendo questo un capo pieno di molti scogli m'è parso meglio dirne fino a un certo termine né profundarsi molto" (c. 14 r).
Questo stesso atteggiamento il B. mantenne nell'inviare alle stampe la suEí memoria: il testo dell'opuscolo riproduce infatti fedelmente in tutte e due le edizioni i passi incriminati dall'Aldobrandini e presenta rispetto ai manoscritti (cfr. Bibl. Ap. Vat., Ottob. lat. 1853, cc. 241 r-252 r; Bibl. Naz. Centr. di Firenze, Capponi N. XX, cc. 159 r-171 v) solo qualche variante stilistica del tutto irrilevante. A lungo andare tuttavia le posizioni del B. finirono con l'incappare nelle maglie dell'Inquisizione romana che, a quanto afferma l'Ugurgieri, nel 1575, in coincidenza con la pubblicazione della seconda edizione, proibì l'opulcolo.
L'intervento del S. Uffizio non dovette avere ripercussioni importanti visto che il B. continuò a godere del favore della Curia e di Gregorio XIII in particolare.
Del B. non si hanno altre notizie. Non si conosce la data della sua morte.
Fonti e Bibl.: La segnalazione del codice della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze si deve alla cortesia del dott. G. Musso. Arch. di Stato di Siena, Registro battezzati della Pieve di S. Giovanni, 27, c. 45r; Delle lettere di M. Claudio Tolomei libri sette, Vinetia 1549, passim; Il quarto libro de le lettere di M. Pietro Aretino, Venezia 1550, cc. 90 r-v, 125 r; Lettere scritte a Pietro Aretino, a cura di T. Landoni, Bologna 1874, II, 1, pp. 286 s.; II, 2, p. 245; A. Caro, Lettere familiari, a cura di A. Greco, II, Firenze 1959, pp. 55 s., 244; III, ibid. 1961, pp. 241, 244; I. Ugurgieri Azzolini, Le pompe sanesi…,I, Pistoia 1649, pp. 574 s.; G. M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia, II, 2, Brescia 1760, pp. 894 s.; L. Sbaragli, Claudio Tolomei, Siena 1949, pp. 91 ss.. 194 ss., 206, 208; D. Cantimori, Prospettive di storia ereticale ital. del Cinquecento, Bari 1960, pp. 75 ss. Per T. Aldobrandini in particolare cfr. Th. v. Sickel, Ein Ruolo di famiglia des Papstes Pius IV, in Mitteil. des Inst. für österr. Geschichtsforschung, XIV (1893), pp. 562, 585 s.