EZECHIELE (ebr. Yĕḥezqē'l; i Settanta, 'Ιεξεκιήλ; Volgata, Ezechiel)
E il terzo, in ordine di tempo, dei Profeti maggiori. Fu contemporaneo di Geremia (v.), essendo nato nell'anno 627 a. C., se col Kugler ed altri esegeti si computi il trentesimo anno dell'indicazione cronologica del c. I, 1 dalla sua nascita. L'ultima profezia datata è dell'anno 573, né abbiamo ulteriori notizie di lui. Era di stirpe sacerdotale: abituato dall'infanzia nelle rigorosità delle osservanze legali e religiose (IV, 14). Della famiglia che s'era formata non abbiamo che una traccia nel commovente accenno alla morte improvvisa della sua sposa, trasformata essa stessa in simbolo (XXIV, 15-27).
Esercitò continuamente il ministero profetico in terra d'esilio. Fu deportato dai conquistatori babilonesi nella bassa Mesopotamia nell'anno 597 col re Gioacchino assieme al fiore dell'aristocrazia giudaica e al popolo atto alla guerra, dieci anni avanti la completa rovina di Gerusalemme. Tel Abib "collina delle spighe" era il centro d'una delle comunità principali degli esuli, i quali per i rapporti loro interni avevano potuto nominarsi un numero di anziani che troviamo qualche volta radunati attorno al profeta per sentire da lui le risposte di Dio. Nella valle del fiume Kebar, da identificarsi indubbiamente col grande canale Nâr Kabari che passava attraverso l'antica Nippur nella Bassa Caldea, E. ebbe la prima comunicazione divina (circa 594-3). Come in visioni iniziali ebbero la missione profetica Isaia (c. VI) e Geremia (c. I), cosi pure E.: ma egli conformemente al suo stile si diffonde nell'esposizione della grandiosa visione avuta del cocchio divino trascinato da Cherubini (v.) e del trono su cui Dio gli apparve. Da quella visione, che lo lasciò come impietrito per sette giorni, la vita intera di E. ha un indirizzo e un fine nuovi. La sua parola non risuona che parole di Dio, e quando non gli sia possibile parlare, azioni simboliche, gesti espressivi, le sue vicende stesse personali e famigliari annunciano, in una maniera ancora più impressiva, i disegni divini.
Fra i deportati egli godeva d'una certa libertà, che gli permetteva di comunicare coi rimasti in patria e coi popoli più lontani. A ottenergli quella libertà dové contribuire il suo perfetto lealismo verso i Babilonesi, determinato dal rispetto suo per i patti convenuti e giurati (XVII,1-16) e dalla costante tradizione politica del profetismo, secondo la quale il popolo di Dio doveva vivere isolato nella singolarità del suo monoteismo e nella fiducia dell'aiuto divino. I profeti sentivano che ogni alleanza con altri popoli era un canale d'infiltrazione di idee e culti politeistici. A quella preoccupazione religiosa si aggiungeva una visione limpida ed equilibrata di quelle che erano le forze in lotta. E. nella Mesopotamia poteva contemplare la grandiosità, l'ordine, la forza dei Babilonesi, contro i quali non potevano tentare una ribellione non solo Giuda, ma città e popoli ben più forti, come Tiro e l'Egitto.
Il libro. - L'opera letteraria di E. comprende nella divisione attuale 48 capitoli. Come le altre opere profetiche, il libro di E. non ha una unità organica, ma è la raccolta degli oracoli composti nel corso della vita. E. anzi mette cura, a volte meticolosa, per datare la loro origine. Le profezie decorrono dal 594-3 al 573. È da ritenersi che E. stesso raccogliesse, prima in gruppi e poi in più completo lavoro, il complesso dei suoi scritti. Le date infatti dovettero essere apposte ai diversi oracoli al momento del loro raggruppamento: ora esse hanno un carattere personale costante: "or avvenne l'anno XI, il primo del mese che il Signore mi comunicò la sua parola" (XXVI, 1 e in ugual forma sempre). Il punto di partenza delle date è invariabilmente quello della sua deportazione (elementi sincronistici sono forniti solo da I, 1-2 e XL,1). Ciò conferma l'autenticità delle profezie raccolte nel suo libro. Le dubbiezze in proposito, sollevate nel secolo scorso dal Geiger, dal Westzstein, dal Vernes e più recentemente dal Hölscher, sono dagli ultimi studiosi, quali il Bertholet, il Kraetzchmar, il Heinisch e il Herrmann, giudicate non meritevoli di discussione dettagliata. In qualche oracolo si congetturano ancora dal Bertholet aggiunte posteriori, come in XI, 10; XIV, 21 s.; XXI, 33: il profeta stesso le avrebbe introdotte conformandosi alla realtà successiva. Similmente egli giudicava interpolazione la descrizione del commercio di Tiro (XXVII, 9 b -25), perché cuneo prosastico immesso in un brano d'altissima poesia. Ma nei primi brani la congettura non ha la conferma di motivi stilistici o letterarî, e nell'ultimo caso la spiegazione si ha in una particolarità letteraria d'E. Non è questa infatti l'unica volta che nell'opera sua un componimento poetico è interrotto da brani prosastici: questi potevano introdursi a fine di varietà e anche per dare riposo alla voce, mutando tono e sostituendo al canto un recitativo, quando gli oracoli venivano cantati dal profeta sulle piazze (XXXIII, 12).
Il testo di Ezechiele ha molto sofferto, come provano le divergenze dell'ebraico dal greco. Il Kraetzschmar le ha spiegate con l'ipotesi di due recensioni del libro, dovute al profeta stesso. Il Heinisch e il Hermann sono più prudenti nel valutare il guasto del testo, dovuto a cause svariate. Il codice Marchaliano (Q) che ci ha conservato il testo delle Esaple di Origene con gli asterischi e gli obeli, permette sovente di eliminare le glosse e le addizioni.
Il Thackeray, studiando la versione greca detta dei Settanta, arrivò alla conclusione che i traduttori dovessero essere due, in accordo fra loro: il primo volse in greco I - XXVII e XL - XLVIII; il secondo XXVIII-XXXIX. Meglio si riterrà che il primo traduttore pensasse di tralasciare le profezie "contro le genti" forse raccolte a parte, a ogni modo più difficili e anche politicamente meno convenienti a tradursi, contenendo diversi oracoli contro l'Egitto, e che un altro completasse l'opera rimasta incompiuta.
Le profezie di E. si dividono in tre gruppi: il primo comprende gli oracoli anteriori alla caduta di Gerusalemme (I-XXIV) e l'ultimo gli oracoli posteriori (XXXIII-XLVIII). Fra questi due gruppi sono incuneati gli oracoli "contro le genti" (XXV-XXXII) raccolti a parte come nel libro di Geremia.
Le profezie del primo gruppo sono dirette, più che non ai deportati, ai rimasti in Palestina, ai quali E. predice l'assedio e l'ultima rovina di Gerusalemme. Rimprovera ad essi l'idolatria, il sentimento di gioia egoistica e crudele per l'inattesa fortuna del possesso delle case e delle terre abbandonate dall'aristocrazia condotta in esilio, l'albagia e la violenza della nuova improvvisata classe dirigente, l'incostanza delle direttive politiche, l'inganno di falsi profeti e di menzognere profetesse che intralciano il lavoro di restaurazione spirituale del popolo promettendo la sicurezza e la pace. Termina col racconto della morte della sua sposa, emblema della caduta di Gerusalemme, di cui gli era stato rivelato in anticipo il giorno e le cui notizie vengono al profeta recate da un fuggitivo un anno dopo il disastro.
Le profezie contro le genti sono letterariamente tra le migliori del profeta. Le principali sono dirette contro Tiro (un breve oracolo contro Sidone si trova in XXVIII, 20-24) e contro l'Egitto. La descrizione della immensa ricchezza della città fenicia, delineata sotto l'immagine d'una nave possente e lussuosa che viene d'improvviso sprofondata negli abissi dal vento d'oriente (Babilonia), è non solo d'una bellezza e grandiosità impareggiabili, ma è assieme uno degli elementi fondamentali per le nostre conoscenze dei traffici di Tiro e del mondo civile contemporaneo, come della geografia etnologica del tempo. Che realmente Tiro, come E. sembra predire, fosse conquistata d'assalto da Nabucodonosor, viene negato da parecchi per il silenzio delle fonti e sulla base stessa d'altro oracolo d'E. il quale promette al re babilonese il saccheggio dell'Egitto come compenso del lavoro fatto per Iahvè contro Tiro: "tutte le teste sono calve e spellate le spalle, e non ritrasse (Nabuconodosor) compenso alcuno da Tiro né per sé né pel suo esercito pel servizio prestatomi contro di esso" (XXIX, 18). Arriano (Anab., II, 18,3) narra che quando Alessandro il Macedone per prendere lo scoglio su cui s'ergeva la Tiro marittima costruì un terrapieno, trovò facilitato il compito da un simile tentativo precedente, e S. Girolamo accetta quella testimonianza, aggiungendo che il re babilonese non ebbe il bottino della città, perché i Fenici rimanendo padroni del mare avevano portato via prima della resa tutte le loro ricchezze. Giuseppe Flavio, che riporta la durata dell'assedio prolungatosi per 13 anni (Contra Apionem, I, 143 e 156; Ant. Iud., X, 11, 1), non parla però di una conquista di Tiro da parte di Nabuconodosor, ma solo della sua sottomissione. E che effettivamente Tiro si sottomettesse ai Caldei si può dedurre anche dal fatto riferitoci da Erodoto, II, I61, che il faraone Âpries combatté contro Tiro e Sidone. Egli che trovava nei condottieri babilonesi i più fieri avversarî, non avrebbe combattuto contro le due città fenicie se esse non si fossero sottomesse ai Caldei. Si è discusso ugualmente se Nabucodonosor (Nebukadnezar) penetrasse in Egitto. Lo si era negato similmente pel silenzio delle fonti; ma una campagna di lui contro il faraone Amasis è testimoniata ora da un frammento di annali babilonesi per l'anno 568, il 47° di Nabucodonosor. Il testo, ridotto a parole e frasi staccate, non permette di asserire di più; ma consiglia di usare prudenza e di non abbandonarsi a negazioni recise.
L'ultima parte, composta dopo la caduta di Gerusalemme, è intenta a sollevare lo spirito della nazione, col rinnovamento delle antiche promesse. Notevole fra le altre la visione del campo ricoperto d'ossami che si ripopola di viventi (c. XXXVII). Sulle labbra degl'Israeliti vengono messe le parole: "Le ossa nostre inaridiscono, la nostra speransa è perduta", ma il Signore assicura che trarrà dai sepolcri il suo popolo. Sulla profezia misteriosa dei c.XXXVIII-XXXIX, v. gog. Gli ultimi capi, XL-XLVIII, contengono una visione dell'Israele rinnovato e ricondotto nella sua terra. Vi si stabiliscono la forma e le norme che devono presiedere alla costruzione del tempio, le leggi del culto e del nuovo sacerdozio, le attribuzioni del principe, la divisione della Terra promessa fra le diverse tribù israelite. Un nuovo fiume ne renderà prodigiosamente feconda la terra: esso scaturirà dalla soglia del santuario come modesta fonte e crescerà di mille in mille cubiti di lunghezza a ruscello e poi a fiume impetuoso scendendo verso il Mar Morto che sarà popolato di pesci come il Mar Grande. La nuova capitale, costruita su un monte d'immaginazione, non avrà più nome Gerusalemme, ma "Qui vi è il Signore". Con l'indicazione di questo nome della città della restaurazione si chiude il libro.
Profezie messianiche. - Il contributo dato da E. all'aspettazione del tempo messianico è inferiore a quello d'Isaia, ma rimane notevole. L'idea d'Isaia di un "residuo" della nazione, che sfuggirà allo sterminio del popolo e sarà il ceppo del popolo santo dei tempi futuri, è ripresa da E. (XIV, 21 segg.). Similmente è ripresa la tradizione d'Isaia, XI, del rampollo della radice di Iesse che perpetuerà con eterni meravigliosi destini la dinastia davidica. "Cosi dice il Signore Iahvè: Pur io prenderò un virgulto del cedro sublime... e lo pianterò sopra un monte elevato e prominente. Sul monte sublime d'Israele lo pianterò: ed eleverà le sue fronde e farà i suoi frutti e diventerà un cedro vigoroso; e verranno tutti gli uccelli ad abitare sotto di esso, e ogni specie di volatili tra le fronde dei suoi rami farà il suo nido" (XVII, 22-24). Il monte elevato e prominente richiama Isaia II, 2-4 e Michea IV, 1-3. L'universalità del regno è simboleggiata dagli uccelli d'ogni specie che faranno nido sul cedro (cfr. per l'interpretazione: Daniele, IV, 17-19 e Matteo, XIII, 31-32). Le profezie della terza parte, scritte all'indomani del disastro della patria, hanno una forma più direttamente nazionale. Israele, cioè le tribù dei due regni, si radunerà sotto un unico pastore, "il mio servo David" (XXXIV, 23-24); ma sarà purificato avanti d'entrare nella sua terra (XXXVI, 24-27). L'importante profezia di Geremia che oppone all'alleanza antica la predizione di una alleanza novella (XXXI, 31-37) è qui richiamata nella sua sostanza.
Negli ultimi capi, XL-XLVIII, parecchi critici veggono in parte una descrizione apocalittica e in parte un disegno ideale della legislazione futura. Sotto il primo aspetto E. sarebbe stato, con questi capitoli e con quelli riferentisi all'invasione e distruzione delle schiere di Gog (XXXVIII-XXXIX), il precursore degli scritti a forma d'apocalissi che fiorirono dal sec. III a. C. in terra palestinese, invadendo anche le origini cristiane. E sotto il secondo aspetto al profeta si dovrebbe il primo saggio di quelle ricostruzioni legali, formate a mente libera, che avrebbero poi trovato lo sbocco nel Pentateuco. Molti però persistono a interpretare quei capitoli come simboli del futuro ed espressione d'una maggiore santità da esso richiesta. F. S. Kugler ha messo in grande rilievo come il simbolismo sia una caratteristica di tutta l'attività letteraria e profetica d'E. Un tratto ha evidentemente esclusivo valore di simbolo: quello delle acque sgorganti dal tempio di Dio a fecondare la terra palestinese e a risanare il Mar Morto. Più che predire una realtà futura E. vuole esprimere un concetto. La previsione dei particolari architettonici e delle misure, l'accuratezza delle leggi sacerdotali e cultuali non devono fare illusione: quella meticolosità è nello stile d'E. che descriverà con uguale minutezza i cherubini apparsigli, come introdurrà nella magnifica allegoria di Tiro l'indicazione dei diversi paesi trafficanti con essa e delle merci di loro scambio.
E., ancor più di Geremia, risente del decadimento nazionale: su lui gravavano inoltre le condizioni penose dell'esilio, poco propizie alle ricercatezze letterarie. Lo stile è spesso cascante, minuzioso e meticoloso nelle descrizioni. Alla pura e vivace vena d'Isaia si sostituisce spesso la prosa e una maggiore abbondanza di azioni allegoriche. Tuttavia i componimenti poetici sono da ritenersi più numerosi di quanto non appaia nelle versioni anche moderne: il guasto del testo e sovente la libertà eccessiva del metro non consentono sempre una ricostruzione poetica. Né mancano le composizioni degne, per vigoria di forma e grandiosità di concetti, del periodo classico della letteratura ebraica.
L'attaccamento al monoteismo, la mente pervasa di Dio, il dolore e l'ambascia per le vicende che attraversa il suo popolo divenuto la "Casa della Ribellione" (Beth Mĕrī), il continuo atteggiamento minaccioso dei dieci anni avanti la distruzione di Gerusalemme rendono grandiosamente tragica la sua figura. Si può dire che un solo tratto di tenerezza addolcisce le asprezze del carattere del suo libro: il ricordo della morte della sua sposa e della caduta finale del tempio di Gerusalemme.
Storicamente E. ha contribuito assai alla formazione dell'Israele nuovo, purificato nel crogiolo dell'esilio. Iahvè, che ha abbandonato il Tempio di Gerusalemme, si è trasportato nella terra degli esiliati (XI, 16). La fedeltà a lui viene mantenuta e ravvalorata. La distruzione della città era necessaria per purificare Gerusalemme dalle lordure e dalla ruggine che la rendevano immonda dinnanzi a Dio. La religione, severamente monoteistica, continua ancora a distinguere gli Ebrei dai popoli fra cui sono dispersi, e lo spirito nazionale si mantiene saldo nella certezza dell'avvenire messianico. Del resto, in tutto ciò E. non fa che seguire la tradizione profetica.
Alcuni critici attribuiscono ancora all'opera di E. il prevalere d'un atteggiamento individualistico della religione che caratterizza il nuovo Israele e favorirà lo sviluppo della dottrina delle retribuzioni individuali nell'oltretomba. Si attribuisce altresì e si rimprovera a lui una deformazione del profetismo anteriore, alieno da preoccupazioni cultuali e rituali quando non fosse a esse ostile. Con le sue ultime visioni dell'avvenire, che pongono a centro il Tempio e sono pervase dall'ansia d'una esteriore santità del sacerdozio e del popolo, egli sarebbe uno dei creatori delle tendenze che trovarono forma giuridica nel cosiddetto codice Sacerdotale del Pentateuco, e un antenato nello spirito del giudaismo rabbinico.
Le tinte della realtà sembrano però meno cariche. L'individualismo religioso era un prodotto delle circostanze più che dell'opera di E. Disseminati per tutte le terre, lontani duemila miglia dalla patria, i deportati in Babilonia non potevano essere corresponsabili dei traviamenti dei rimasti in Palestina: la solidarietà nazionale era momentaneamente spezzata. Quindi il principio d'E.: ciascuno individuo avrà il premio o il castigo delle proprie azioni individuali.
Le preoccupazioni cultuali e di purità effettivamente si tradiscono in E. - a dire il vero solo negli ultimi capitoli - più che non presso gli altri profeti: ma egli le aveva ereditate dall'infanzia (IV, 14) più che create. Egli era di stirpe sacerdotale, e la pietà delle funzioni del Tempio vissuta nella sua giovinezza riviveva spontaneamente nelle aspettazioni del futuro. Quella legge sacerdotale il cui spirito informatore si vuol ritrovare in E. indubbiamente risaliva, almeno per gran parte, a tempi anteriori all'esilio. D'altra parte il rabbinismo tardivo troverà appunto difficoltà ad accettare come canonico il libro di Ezechiele, per le divergenze tra le sue disposizioni e quelle della legge mosaica. Rabbi Hananyah, secondo un racconto talmudico, aveva dovuto consumare 300 anfore d'olio nelle sue veglie per trovare un accordo tra il profeta e la Legge. Effettivamente l'accordo manca su parecchi punti, per questo stesso che per il tempo messianico occorreva una santità maggiore di quella preesistente. Le disposizioni sono lontane da quelle della storia anteriore come da quelle dell'Israele rimpatriato perché rappresentano un ideale e ancor più un simbolo delle misteriose realtà future che l'antica tradizione profetica aveva già tentato di delineare sotto le più svariate e luminose immagini.
Bibl.: Pel testo ebraico si consultino le edizioni critiche di S. Baer, Liber Ezechielis, Lipsia 1884; di C. H. Toy, The book of the Prophet Ezekiel, Lipsia 1899; di C. D. Ginsburg, Ezechiel diligenter revisus iuxta Masorah, Londra 1910; di J. W. Rothstein, nella Biblia Hebraica di R. Kittel. Importanti contributi alla ricostruzione del testo, oltre ai commenti recentissimi, dànno C. H. Cornill, Das Buch des Propheten Ezechiel, Lipsia 1886, e A. B. Ehrlich, Randglossen zur hebräischen Bibel, V, Lipsia 1912. Sui traduttori greci l'articolo del Thackeray, in Journal of theol. Studies, VI (1903), pp. 398-411. Una versione aramaica fu pubblicata da S. Silbermann, Das Targum zu Ezechiel nach einer südarab. Handschrift, Strasburgo 1910. Nell'antichità cristiana commentarono Ezechiele: Origene di cui ci sono perveute 14 omilie in versione di S. Gerolamo (Patr. gr., XIII, 665-768) e brani d'altro commento in 25 libri nella Philocalia, c. 11; Teodoreto di Ciro, S. Efrem, S. Girolamo e S. Gregorio Magno. Nel Medioevo si hanno due libri di commentarî di Ruperto di Deutz, postille di Niccolò di Lira e di Riccardo da S. Vittore.
Nell'epoca moderna sono soprattuto notevoli: H. Pradi e J. B. Villapandi, in Ezechielen explanationes, voll. 3, Roma 1596-1604 (con magnifici disegni, talvolta abbelliti di fantasia, del tempio delineato da Ezechiele); J. Maldonatus, Commentarii in Prophetas, Tours 1611 e i commentari del card. Gaetano, di Cornelio a Lapide, di A. Calmet. - Fra i recenti A.-M. Le Hir, Les grands Prophètes, Parigi 1876; J. Knabenbauer, Commentarius in Ez. prophetam, 2ª ed., Parigi 1907; R. Kraetzchmar, Das Buch Ezechiel, Gottinga 1900; J. Skinner, The Book of Ezechiel, Londra 1895; J. Herrmann, Ezechiel, Lipsia 1924; P. Heinisch, Das Buch Ezechiel, Bonn 1923; L. Tondelli, Le Profezie d'Ezechiele, Reggio Emilia 1930. Studî particolari: A. Klostermann, Ezechiel. Ein Beitrag zur beseren Würdigung seiner Person und seiner Schrift, in Theol. Studien u. Kritiken, IV (1877), pagine 420-431; D. Buzy, Les symboles prophéties d'Ezéchiel, in Rev. Biblique, XXIX-XXX (1920-21); P. Cheminant, Les Prophétiques d'Ez. contre Tyr, Parigi 1912; J. Plessis, Les Prophéties d'Ez. contre l'Égypte, Parigi 1912; L. Durr, Die Stellung des Profet Ez. in der israelitisch-jüdischen Apokalyptik, Münster 1923; W. Neuss, Das Buch Ezechiel, in Theologie u. Kunst, 1912; G. Richter, Der Ezechielische Tempel, Gütersloh 1912; E. Klamroth, Die jüdischen Exulanten in Babylonien, Lipsia 1912.
L'Apocrifo di Ezechiele.
Registrato nella sua Sticometria da Niceforo (sec. IX), come "pseudepigrafo", fu trovato in frammenti, disperso tra le citazioni di taluni scrittori ecclesiastici: il brano più lungo è quello riportato da S. Epifanio (v.) nel suo Panarion haer., LXIV, 70, 5 segg., con la nota introduttoria esplicita: τὰ ὑπὸ 'Ιεζεκιὴλ του5 προϕήτου ἐν τῷ ἰδίῳ ἀποκρύϕῳ ῥηϑέντα περὶ ἀξαστάσεως.
È un apologo sui rapporti tra l'anima e il corpo, ambedue correi nel male, come cooperatori nel bene, laonde ambedue da punire o premiare nell'eternità: due disgraziati, un cieco e un zoppo, saccheggiano il giardino d'un re; presi nell'atto stesso che - lo zoppo sulle spalle del cieco - compivano la loro malefatta, si volevano scagionare buttando la colpa l'uno sull'altro, il cieco sull'occhio dello zoppo e viceversa; essi furono fustigati insieme l'uno addosso all'altro. Sull'origine di tal frammento non si sa dire se non che lo si trova preso dal Talmud babilonese, Sanhedrin, 91 a. b. Con ciò non si hanno dati che valorizzano l'opinione di Giuseppe Flavio, Antiq. Iud., X, 5, 1, che il profeta E. abbia composto due libri.
Bibl.: M. R. James, The apocryphal Ezechiel, in Journ. theol. stud. XV (1914), pp. 236-243; K. Holl, Das apokryphe Ezechiel, in Aus Schrift und Geschichte A. Schlatter dargebracht, Stoccarda 1922, pp. 85-92.