Evoluzione
«This preservation of favourable variations and the rejection of injurious variations, I call Natural Selection» (Charles Darwin, On the origin of species)
Evoluzionismo, creazionismo, neodarwinismo
di Vincenzo Cappelletti
12 febbraio
Manifestazioni in tutto il mondo celebrano il 200° anniversario della nascita di Charles Darwin e il 150° dalla pubblicazione del suo L’origine delle specie. In Italia, tra le iniziative spiccano il convegno internazionale all’Accademia dei Lincei – per discutere le novità nei settori biologici d’avanguardia e il ruolo svolto dall’opera di Darwin nel mutamento della visione del mondo naturale, ma anche sociale, filosofico e morale – e la mostra Darwin 1809-2009 al Palazzo delle Esposizioni di Roma.
Dal preformismo all’epigenismo
Nell’eredità intellettuale trasmessa dal Settecento, il secolo di ‘epigenesi’, all’Ottocento e al Novecento, i secoli di ‘evoluzione’, la kantiana Critica del giudizio (1790) figura come un libro di sempre, ispirato a un’esemplare disciplina dell’argomentazione, con un’apertura integrale alle attese della conoscenza. Dopo aver circoscritto il ragionamento dimostrativo alla realtà spazio-temporale con la Critica della ragion pura (1781), è come se Immanuel Kant (1724-1804) avesse voluto gettare il cuore di là dall’ostacolo, delineando dopo due soli anni, nei Prolegomeni ad ogni futura metafisica che si presenterà come scienza (1783), la ripresa di un’indagine su esigenze sostanziali, irrinunciabili del conoscere. Scriveva: «Quando io dico: siamo costretti a guardare il mondo come se fosse l’opera di un supremo intelletto e volere, in realtà non dico niente più che questo: come un orologio, una nave, un reggimento sta all’orologiaio, al nocchiero, al colonnello, così il mondo sensibile (ovvero tutto ciò che costituisce il fondamento di questo insieme di fenomeni) sta allo Sconosciuto, che dunque io certo non conosco in ciò che esso è in sé, ma pur conosco in ciò che esso è per me, cioè riguardo al mondo di cui io sono parte.» La traduzione è di Pantaleo Carabellese, l’abbiamo accolta qui per ricordare un insigne studioso di Kant, ma va rettificata. Il testo tedesco mostra nel seguito d’essersi servito di un neutro sostantivato, das Unbekannte, e non di un maschile: dunque «Entità sconosciuta», meglio che «Sconosciuto». Un passo avanti, comunque, quello dei Prolegomeni, verso il soddisfacimento del bisogno conoscitivo sostanziale, che avverrà nell’opera citata all’inizio. Si trattava d’impostare l’uso razionalmente disciplinato di un nuovo concetto, quello appunto di ‘epigenesi’, affiorato nelle scienze della natura vivente, in antitesi a ‘preformazione’ o al suo equivalente, rappresentato allora, paradossalmente, da ‘evoluzione’.
La storia della scienza non presenta altri esempi di termini che siano migrati, come evoluzione, verso il polo opposto al significato originario. Il caso di ‘atomo’ è diverso: da Democrito a Fermi e Bohr, permanenza strutturale e rottura verranno a coesistere. Ma che l’organismo preesista con la varietà delle sue parti nell’uovo, e ne derivi con un processo d’incremento quantitativo, che porta allo sviluppo e alla crescita di parti avviluppate, in altri termini al dispiegamento di parti ripiegate, o appunto allo svolgimento di alcunché avvolto: tutto questo può solo ascriversi alla bizzarria di persone, che non si chiamano ancora ‘intellettuali’, ma ne anticipano la paradossale originalità. Kant, l’autore della luminosa conquista del pensiero umano che è la Critica del giudizio (1790), prende un’altra strada. Il «giudizio», Urteilskraft, è la facoltà di pensare il particolare come contenuto nel generale. Una duplice strada immette nella generalità, nella totalità, noi diremmo nel mondo: la strada del bello, la strada del fine. Si è portati a supporre che i punti di arrivo siano l’arte e la scienza: ma c’è un’interferenza nella matematica, in particolare nel ‘sublime matematico’, una grandezza uguale solo a sé stessa e risiedente non nella natura, ma nelle nostre idee. La natura, assimilata a un tutto, deve pensarsi come madre comune di tutte le forme, dotata di un’organizzazione originaria che possa produrle. Sulla ‘autocrazia della materia’ non si può far conto per ricavarne le cose esistenti, e viceversa è impossibile non concedere al ‘principio delle cose’ il carattere di una sostanza semplice e intelligente, legata a ciò che esiste da un rapporto di causalità. C’erano tutte le premesse all’incontro di Kant con l’epigenesi, ovvero con l’origine degli organismi viventi, concepita secondo un modello diverso dall’antitesi tradizionale tra preformismo e meccanicismo, e che chiameremmo ‘evolutivo’, se ‘evoluzione’ non fosse ancora un sinonimo, raffigurato come abbiamo detto, in modo assurdo, di quel che sarà poi considerato il suo opposto, la ‘preformazione’.
Linneo (1707-1778) – Carl von Linné, ‘cavaliere’ lo chiama Kant, con bonaria ironia, riferendosi all’ordine della Stella Polare conferitogli dal Sovrano svedese, insieme alla nobiltà retrodatata di alcuni anni – ha da poco congedato la fondamentale, decima edizione del Systema naturae (1758-59), ispirata a un creazionismo tradizionale, quando in un’università tedesca, a Halle nei pressi di Lipsia, matura la crisi che travolgerà l’embriologia preformistica. Si parla latino, negli ambienti accademici – quasi due millenni dopo Cicerone – e si attiene all’uso Caspar Friedrich Wolff (1734-1794) nel presentarsi alla laurea in medicina (1759) con una tesi audacemente innovativa sulla Theoria generationis. Sarà seguito da Johann Friedrich Blumenbach (1752-1840) – peraltro laureatosi nel 1781 a Gottinga con una tesi in tedesco su L’impulso formativo e la generazione – quando darà alle stampe (1787) il trattato delle Institutiones physiologicae. Lo stesso Kant aveva tenuto in latino la prolusione alla cattedra di Königsberg: De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis (1770). Ma siamo al tramonto di una lunga, abbagliante giornata dell’umano discorso: alle quattro lingue cosiddette degli angeli – ebraico, greco, latino, tedesco – potrebbe non seguirne una quinta. Kant è più anziano degli ‘epigenisti’ citati: ma l’uscita dei loro lavori, in particolare del saggio di Blumenbach Sull’impulso formativo (1785), lo convince a riprendere e proseguire l’analisi della conoscenza, dal procedimento inferenziale all’accoglimento di esigenze integrative del sapere, tra mondo e Dio, natura e uomo. Entro la Critica del giudizio, nata come conclusiva ricognizione del conoscere, venne in tal modo a costituirsi quell’Appendice sulla Metodologia del giudizio teleologico, che è il più elevato momento di consapevolezza raggiunto dalla filosofia e dalla scienza sui rapporti tra la natura, con l’esserci della sua esistenza e delle sue modalità, e la presenza dell’uomo nel mondo.
Per ‘scopo finale’, Kant intende quello che non ne suppone alcun altro come condizione del suo essere possibile, del suo darsi. Se per spiegare la finalità della natura non si ammettesse altro principio, diverso dalle proprietà meccaniche, non si potrebbe domandare perché esistano cose nel mondo. Ma se ammettiamo nel mondo la finalità, e con essa una specifica causalità, quella di una causa che agisce intenzionalmente, non possiamo fermarci alla questione del sapere perché le cose abbiano questa o quella forma. C’è ben altro, c’è da cercare una cosa che esista in virtù della sua oggettiva natura, e rappresenti lo scopo finale per una causa intelligente. Questa cosa dev’essere tale che non dipenda da nessun’altra condizione, diversa dall’intrinseco valore della sua idea. Un essere siffatto è l’uomo, che diventa lo scopo finale della creazione, der Schöpfung Endzweck: perché senza di esso la catena dei fini subordinati l’uno all’altro non avrebbe né un innegabile principio né un senso intellegibile.
Che cos’è l’uomo? È soggettività razionale e morale. Nelle pagine di Kant sulla premessa finalistica alla storia della natura, ritorna l’afflato della Critica della ragion pratica (1788), che sembrava seguire un itinerario parallelo. Al soggetto di un pensare incondizionato si aggiunge quello di un fare imprescrittibile: «Dovere! nome sublime e grande, che non contieni niente di piacevole implicante lusinga, ma desideri la sottomissione … qual è l’origine degna di te e dove si trova la radice del tuo nobile lignaggio, che ricusa fieramente ogni affinità con le inclinazioni?» (con l’occhio all’originale, abbiamo seguito la spigliata traduzione di Alfredo Gargiulo, redattore della Critica di Benedetto Croce). Attraverso l’uomo, la natura si riversa nella storia, mentre la metafisica si collega con l’etica e con la politica. Il Kant politologo è poco frequentato, poco noto. Si è offuscata la geniale essenzialità che egli seppe imprimere al saggio sull’Illuminismo (1784), visto come sapere aude, audacia della conoscenza, ed è finito tra i testi utopici il discorso sulla pace perpetua (1795). Qui interessa di notare, a merito di Kant, la formulazione di un epigenismo creazionistico e antropologico, nella trama di una concezione della natura che attraversa l’intera sua opera, con assoluto rigore e piena apertura alla concezione meccanica del mondo, quale era venuta determinandosi da Galilei a Newton, a Eulero, a d’Alembert.
La risposta del preformismo alle critiche di Wolff e di Blumenbach ci appare, alla distanza, di una sconcertante puerilità. Ma le premesse sono nel secolo della microscopia, tra la Dissertatio epistolica de formatione pulli in ovo (1673) di Marcello Malpighi e la Historia insectorum generalis (1669) di Jan Swammerdam, integrata dal Miraculum naturae, sive uteri muliebris fabrica (1672). Dissente William Harvey, lo scopritore della circolazione del sangue nonché dell’area germinativa dell’uovo di pollo, nelle Exercitationes de generatione animalium (1651). Ma la confluenza di preformismo e cartesianismo, attraverso Nicolas Malebranche e la sua Recherche de la verité (1674-75), garantisce alle tesi preformistiche un prestigio e un vantaggio culturale che risulteranno decisivi, ribaditi dalle Considerazioni ed esperienze intorno alla generazione de’ vermi ordinari del corpo umano (1710), di Antonio Vallisnieri. Il dissenso di Harvey, prestigioso filosofo della vita, impedisce tuttavia che si abdichi alla riflessione metafisica sulla genesi e sulla funzionalità degli organismi viventi. «Majus enim, et divinius inest in generatione animalium mysterium, quam simplex congregatio, alteratio et totius ex partibus compositio: quippe totum, suis partibus prius constituitur, et decernitur: mixtum prius quam elementa». La prevalente impostazione preformistica, morfologico-classificatoria, della botanica e della zoologia, spiega il tardivo costituirsi di due categorie fondamentali come ‘vita’ e ‘scienza della vita’ ovvero ‘biologia’. Hanno invece massima diffusione e fortuna i paradigmi classificatori. La polemica sulla generazione spontanea, con la vittoria di Lazzaro Spallanzani, che la confutava sperimentalmente nel Saggio di osservazioni microscopiche (1765), su John Turberville Needham e Georges-Louis Leclerc de Buffon che l’avevano sostenuta, era servita indirettamente a legittimare quel primato della sistematica, di cui il linneano Systema naturae per tria regna, nelle sue tredici edizioni dal 1735 al 1768, rappresentava il trionfale epilogo.
Kant potrebbe aver avuto una sua responsabilità nel tardivo affioramento problematico delle idee prima citate, nonché in quello di ‘epigenesi’ ed ‘evoluzione’, attraverso l’interpretazione panteistica che egli dette dell’ultimo, sommo metafisico europeo, Baruch Spinoza (1632-1677). Il pensatore olandese era stato, prima che altro, un creazionista. Il panteismo che Kant gli attribuisce era uno dei due possibili modi d’impostare la relazione fra il Dio creatore e il mondo creato. L’altro modo, lungo la traccia lasciata dalla tradizione dello Pseudo-Dionigi areopagita, implicava l’inerenza non del Creatore al creato, ma del creato al Creatore, come nel discorso dell’apostolo Paolo agli Ateniesi, sull’Areopago della città: «In lui viviamo, ci muoviamo e siamo…». In Spinoza, di cui Friedrich Jacobi con le Lettere a Moses Mendelssohn (1785) avrebbe riproposto il pensiero ai Romantici, convivevano entrambi gli orientamenti. Non se ne conosceva, perché disperso – riaffiorerà alla fine dell’Ottocento –, il Breve trattato su Dio, l’uomo e il suo bene, ma erano accessibili i Princìpi della filosofia di Cartesio (1663) e l’Etica (1677), documento eccelso della razionalità pura nel secolo della ‘rivoluzione scientifica’. Il capitolo X dei Princìpi è dedicato alla creazione, e ripercorre passaggi che già Tommaso d’Aquino aveva enucleati (1254) nel De ente et essentia. Colpisce l’identità dell’argomentazione nell’Aquinate e in Spinoza. L’essere è distinto dall’essenza – da ciò di cui una determinata cosa consiste – in tutti gli enti, che sono, ma sono alcunché determinato. Invece l’essere di Dio costituisce la sua stessa essenza, Dio sempre, soltanto è. Il filosofo olandese aggiunge che gli enti, fatti essere ovvero creati da Dio, devono venir mantenuti nell’esistenza da lui in quanto Causa assoluta. Due età diverse e lontane giungevano a coincidere in un’affermazione di significato sostanziale.
Forma e natura
La storia non è mai univoca successione: per la razionalità, filosofica e scientifica, la vicenda storica si configura come un affiancarsi e un succedersi di durate, ciascuna caratterizzata da protagonisti, funzioni e innovazioni. A Kant e all’epigenesi di Wolff e Blumenbach si aggiunge dialetticamente Goethe con i concetti di metamorfosi, vita, qualità, e un confronto tra meccanica e scienza della natura vivente, che all’inizio del nuovo secolo comincerà a chiamarsi ‘biologia’. Lo stesso anno, 1790, vede uscire la Critica del giudizio e la Metamorfosi delle piante, dove Goethe tenta di aprirsi un varco verso la comprensione della vita, lasciandosi alle spalle lo sterile epilogo del preformismo. Affabulazioni come quelle che si desumono dal carteggio ventennale, dall’inizio degli anni 1760 alla fine dei 1770, tra Charles Bonnet e Albrecht von Haller, con l’ovaio di Eva visto come ricettacolo della successiva umanità, si dissolvono dinnanzi ai fecondi sviluppi dell’epigenesi, che nell’opera goethiana diventerà ripudio della soggezione alla meccanica e ripresa del naturalismo. E tuttavia si trattava di una scelta che rischiava di dimenticare l’ampiezza del discorso aperto da Kant nella citata Appendice alla terza Critica. Il quindicennio della vita di Goethe, dalla presa di servizio alla corte di Weimar, nel 1775, al secondo viaggio in Italia, nel 1790, è una di quelle stagioni coesistenti con altre ma autonome, di cui abbiamo fatto cenno. Anche l’epigenesi viene oltrepassata, pur senza accantonare l’esigenza di analogie, che in seguito saranno chiamate simmetrie, tra l’inizio e le fasi successive dello sviluppo, concepito o meglio sentito come realtà sempre aperta a modifiche innovative. Ma qual è il soggetto della trasformazione? Ce ne sono due, o uno solo chiamato in due modi: ‘forma’ e ‘natura’. Nella prima, Ernst Cassirer avrebbe visto un riproporsi dell’‘idea’ platonica: che tornava a rappresentare un fattore o momento indiveniente nel divenire, ma restando confinata nella determinatezza, nella peculiarità. La seconda raffigurava il tutto che diviene e si trasforma, e prometteva, o rischiava, di far compiere alla filosofia e alla scienza il lungo passo verso il trasformismo, sempre latente nella cultura, ma che dopo Darwin, con Haeckel, assumerà concreta evidenza e si chiamerà evoluzionismo.
C’è un’altra strada, che parte non lontano dalla Weimar di Goethe, dall’Università di Bonn dove insegna un giovane fisiologo, Johannes Müller (1801-1858): «l’uomo che portava su di sé l’impronta dello straordinario», lo definirà un allievo anch’egli illustre, Emil du Bois-Reymond, commemorandolo all’Accademia delle Scienze di Berlino. Nella corrispondenza fra Müller e Goethe avviene la presa d’atto di una circostanza fondamentale: la percezione cromatica ha riportato la ‘qualità’ tra i fattori costitutivi, strutturali, della natura. Il colore si produce nell’area celebrale visiva, il suono nell’area cerebrale uditiva, a prescindere dalla natura dello stimolo: attraverso il nostro corpo, la natura si rivela intrinsecamente qualitativa. Integrata dalla goethiana Teoria dei colori (1810), con la polemica a distanza quasi secolare tra Goethe e Newton, il carteggio citato documenta una svolta, gnoseologica e ontologica, da quantità a qualità, d’importanza pari a quella dal preformismo all’epigenismo. Prescindere da una siffatta dialettica delle idee era un’impresa assurda, in nome di una concezione meccanica del mondo, che apparteneva all’ieri della scienza. Più del colore, del suono e delle altre qualità percettive, è la vita che arricchisce, sulla Terra e forse altrove, l’Universo: e si candida a diventare un termine primitivo dell’intero discorso scientifico. Ancora dalla scuola di Müller sarebbe promanata la peculiarità della struttura cellulare di animali e piante con le Ricerche microscopiche (1839) di Theodor Schwann (1810-1882): per la biologia, un avanzamento di valore inestimabile. Hermann Helmholtz (1821-1894), mülleriano anche lui, fisico e fisiologo, formulava la legge di conservazione della forza, noi diremmo dell’energia, in un sistema di parti materiali che si attraggono o si respingono, connotate da ‘qualità indistruttibili’. Una lapide che la guerra ha rispettata, nei pressi dell’Università Humboldt, ricorda il giorno e il luogo della seduta nella quale Helmholtz lesse la sua memoria alla Società fisica berlinese: 23 luglio 1847. Rudolph Virchow (1821-1902) avrebbe enunciato la legge della derivazione delle cellule da elementi cellulari preesistenti: omnis cellula e cellula. L’ultimo allievo del maestro, Emil du Bois-Reymond (1818-1896), neurofisiologo meccanicista e materialista, avrebbe proclamato l’inaccessibilità alla comprensione razionale di un mondo fatto come quello che la scuola alla quale anch’egli, du Bois, apparteneva, era venuta analizzando e definendo: con uno scostamento qualitativo dall’uniformità del punto mobile, ovvero dalla meccanica, assurdo ma innegabile e perciò incomprensibile. Una somma di Rätsel, enigmi, per usare un termine dello stesso autore nel titolo di una celebre conferenza che scosse le fondamenta del materialismo dominante: I sette enigmi del mondo (1880), le nozioni – anzitutto l’essenza della materia e della forza, l’origine del movimento, l’inizio della vita – non accoglibili nell’archivio concettuale dell’epistemologia meccanica o, che è lo stesso, nel meccanicismo materialistico.
Le variazioni vantaggiose
Quando Charles Darwin (1809-1882) nel 1859 pubblicò L’origine delle specie attraverso la selezione naturale – la tiratura di 1250 copie si esaurì a Londra in un giorno – la biologia aveva assommato momenti disomogenei, ma anche conquistato la propria autonomia dalla meccanica, attorno al caposaldo della concezione epigenetica dello sviluppo. L’età del mondo si era prolungata dai 5000 anni di Spinoza ai 20.000 della Scienza nuova di Vico (1725), per arrivare ai 100.000 nelle Epoche della natura (1773) di Buffon. La paleontologia era entrata nelle scienze della vita e ne era stato tramite, con altri, Georges Cuvier (1769-1832), al quale spetta il merito di aver integrato, per il regno animale, l’insufficiente trattazione contenuta nel linneano Systema naturae, alla luce di una rigorosa metodologia classificatoria. Quattro ampi ‘raggruppamenti’ strutturali – vertebrati, molluschi, articolati, raggiati –, autonomi, inaccessibili dall’esterno, rappresentavano una totalità che affiancava, nella prospettiva scientifica, quella vegetale ripartita nelle specie da Linneo. La sistematica si era allontanata dai criteri pratici, tradizionali, per darsi un’oggettività definitoria: eluderla diventava impossibile. Allorché lo zoologo Etienne Geoffroy St. Hilaire presentò all’Accademia delle scienze di Parigi, il 15 febbraio 1830, una memoria che sosteneva la possibilità di passare dalla struttura dei Cefalopodi – seppie e polpi – a quella dei Vertebrati, Cuvier si oppose ravvisandovi una modificazione globale. Ed ebbe la meglio, sebbene Goethe da Weimar parteggiasse per l’oppositore, come riferisce Eckermann in una vivace pagina delle Conversazioni. All’Accademia Carolina di Stoccarda, un geniale insegnante, Friedrich Kielmeyer (1765-1844), aveva aperto gli occhi di un allievo, destinato ad alto prestigio, sull’unità morfologica e funzionale delle parti nel tutto dell’organismo. L’allievo, Cuvier, valorizzerà l’insegnamento ricevuto nella classica opera Il regno animale ripartito secondo la sua organizzazione (1817). Il nuovo Linneo – tale dev’essere considerato il Darwin dell’Origine – è consapevole di ciò che lo aveva preceduto, in particolare del dibattito sulla struttura degli organismi viventi e sul rapporto funzionale tra vita e ambiente. Il quinquennio (1831-36) passato sul brigantino The beagle visitando terre e mari poteva tradursi, come in Alexander Humboldt, dotato di una curiosità estesa ma non profonda, nel senso panico e non meglio determinato della natura vivente. Invece il Viaggio sulla Beagle, 1839 e 1845, e quel che sappiamo degli anni che precedettero l’uscita del capolavoro scientifico e letterario dell’Origine delle specie (1859), denotano una radicata disciplina intellettuale. Disciplina fondata sulla ricerca delle ‘invarianze’, diremmo noi, mentre Darwin usa il termine ‘legge’, collegandolo con la ‘variazione correlata’, e ne fa il caposaldo assiomatico della concezione trasformistica, evolutiva (ma il termine evolution manca nella prima edizione dell’opera). «Le complesse e poco conosciute leggi che regolano la produzione di varietà sono le medesime, per quanto ci è dato di giudicare, che regolano la produzione di specie distinte», scrive nel capitolo conclusivo, un testo che rappresenta una seducente sintesi di contenuti nonché un formale esempio di rigore argomentativo. Il termine da cui tutto viene fatto dipendere è variation, mentre evolution si aggiunge dalla terza edizione – a prescindere, si direbbe, da un’adeguata giustificazione –, ma senza peraltro alterare l’equilibrio del ragionamento. Che all’ultimo postula nella natura vivente – in tutte le sei edizioni dell’opera – la presenza di powers, forze o ancor meglio virtualità, il testo dice breathed e dunque soffiate, alitate: la causa del soffio manca nella prima edizione ma compare dalla terza, ed è the Creator, il Creatore. Quest’ultimo generalmente è escluso dall’‘indice analitico’ dei curatori dell’opera. Poco importa: è il primo presupposto dell’epigenesi, che aleggia sull’opera darwiniana. Ed è il motivo che dovette indurre un teologo autorevole come John Henry Newman, fondatore e rettore (1859) dell’Università cattolica di Dublino, a esprimersi in termini rassicuranti, scrivendo al vescovo David Brown
il 4 aprile 1874: «Nella teoria dell’evoluzione non vedo alcunché d’incompatibile con un Creatore onnipotente e previdente». All’Origine fecero seguito due lavori innovativi e metodicamente esemplari: Sulla fecondazione delle Orchidee per opera degl’insetti (1862) e La variazione degli animali e delle piante allo stato domestico (1868). Altro contributo, zoologico, sui crostacei Cirripedi, viventi e fossili (1851 e 1854), aveva preceduto l’opera fondamentale del 1859. Che non nacque solo da un’esperienza priva di confronti, ma assommò i risultati della peregrinazione per terre e mari alle osservazioni compiute dall’autore attorno alla sua residenza nel Kent, nonché a innesti teorici, talora fortuitamente acquisiti. Uno di questi fu il Saggio sul principio della popolazione dell’abate Malthus, di cui Darwin riferisce nell’Autobiografia: «Nell’ottobre 1838, quindici mesi dopo l’inizio della mia ricerca sistematica, lessi per diletto il libro di Malthus e poiché, date le mie lunghe osservazioni sulle abitudini degli animali e delle piante, mi trovavo nella buona disposizione mentale per valutare la lotta per l’esistenza cui ogni essere è sottoposto, fui subito colpito dall’idea che, in tali condizioni, le variazioni vantaggiose tendessero a essere conservate, e quelle sfavorevoli a essere distrutte». Dal nesso di osservazioni e postulati teorici, e in relazione all’assioma di Linneo, in Fundamenta botanica, 1736, da falsificare: «Species tot sunt diversae quot diversas formas ab initio creavit infinitum Ens », era nata L’origine delle specie, sintesi di ricerche osservative e riflessioni, durate un ventennio e presidiate dal ‘genuino metodo baconiano’. Nel 1871, la Discendenza dell’uomo determinava peraltro una svolta epistemologica nel percorso darwiniano: il soggetto del discorso veniva coinvolto negli sviluppi dell’argomentazione, ma nelle considerazioni conclusive dell’opera Darwin gli riconosceva la prerogativa di un «intelletto quasi divino, che è penetrato nei movimenti e nella struttura del sistema solare». Conoscenza e verità erano salve, e Kant aveva osservato – ne abbiamo fatto cenno – che non poteva non essere così, quando si passava a considerare la storia della natura, da cui era sorta la soggettività umana. Mentre con Haeckel e Spencer, evolution sostituiva totalmente descent nel lessico della filogenesi trasformistica, non-linneana.
Da ‘evoluzione’ a ‘evoluzionismo’
È una svolta sostanzialmente terminologica quella che avviene con il passaggio da ‘discendenza’ a ‘evoluzione’, ed è invece una transizione radicale l’altra, che porta da ‘evoluzione’ a ‘evoluzionismo’. Vi è coinvolto tutto, e non potrebbe essere diversamente, contenuto e forma della teoria.
Il Sistema di filosofia sintetica di Herbert Spencer (1820-1903), uscito in dieci volumi tra gli anni 1860 e 1890, si apriva con i Princìpi della biologia in due volumi, seguiti dalla psicologia, dalla sociologia e dall’etica. Spencer attinge a piene mani Darwin, mentre il darwiniano Thomas Huxley dà simbolicamente l’imprimatur alle bozze di stampa. Sul continente, Ernst Haeckel (1834-1919) ha raccolto tra Messina e Jena i materiali per la grande monografia sui Radiolari, che gli varrà la cattedra di anatomia comparata all’Università di Jena e la direzione dell’Istituto di zoologia, poi integrato da una cattedra ad personam. Nel 1866 esce a Berlino la Morfologia generale degli organismi, seguita due anni dopo dalla Storia naturale della creazione, che sopravvanza L’origine delle specie per numero di traduzioni in altre lingue. L’evoluzione doveva diventare, nella foga tra scientifica e profetica di Haeckel, forma ultima della razionalità come ‘evoluzionismo’: ma non vi riesce se non pagando un duplice prezzo. Da una parte, c’è l’aperta confessione del limite conoscitivo: tra le opere che si succedono a ritmo incalzante, e ciascuna in più edizioni,
la più fortunata è Gli enigmi del mondo (1899). D’altra, il concetto metafisico di ‘creazione’, Schöpfung, migrato nella scienza con la Storia della creazione naturale (1868), vi mette radice, periodicamente ricompare e suggella un esproprio di radicalità, almeno per il momento, riuscito. Ma chi crea che cosa, e perché? La vicenda ideologica, in pieno svolgimento tra Inghilterra e Germania, si diffonde in Europa: in Italia mette radice a Torino con lo psichiatra Enrico Morselli (1852-1929) e il fisiologo Amedeo Herlitzka (1872-1949), mentre l’editore torinese Pomba fa tradurre e pubblica, in alte tirature e in più edizioni, le principali opere di Haeckel. Questi intanto estrapola termini e dati osservativi, come nella teoria della gastrea. Da gastrula, piccolo vaso, nome di uno stadio precoce dello sviluppo embrionale, Haeckel ricava l’ipotesi di uno stadio della filogenesi comune a tutti i Vertebrati, e lo designa con un termine affine a quello ormai accreditato nell’embriologia. Un eminente studioso dell’evoluzione, di orientamento darwiniano, Giuseppe Montalenti, al riguardo non esita a parlare di «romanzo filogenetico». Nelle sei edizioni dell’Origine, Darwin da parte sua avrebbe conservato un sostanziale equilibrio tra dati osservativi e leggi dello sviluppo.
Il neodarwinismo e il darwinismo odierno
Nella terminologia che ha tratto origine dalle ricerche sull’evoluzione, s’intende con neodarwinismo la teoria che accetta il processo evolutivo mediante la selezione dei caratteri favorita dall’ambiente, ma nega l’ereditarietà dei caratteri acquisiti per l’influenza dell’ambiente sull’organismo. La scienza procede seguendo l’autore de L’origine delle specie, ma periodicamente è sedotta dal ricordo di Jean-Baptiste Lamarck (1744-1829) e dalla sua Filosofia zoologica (1809), che ammetteva la trasmissione dei caratteri, derivati da presunta influenza dell’ambiente sull’organismo. Esclusa questa eventualità, da dove ottenere la variabilità sulla quale possa lavorare la selezione evolutiva? Difficile sopravvalutare l’importanza di chi dette risposta – controintuitiva, direbbe l’odierna epistemologia – a questa domanda. Eppure il neodarwiniano August Weismann (1834-1914), della generazione successiva a Darwin – volendo rispettare il tradizionale intervallo del venticinquennio – rischia di essere dimenticato. La disinvolta gestione delle collane editoriali ha escluso dai cosiddetti ‘classici della scienza’ un’opera d’eccezione: La continuità del plasma germinale come fondamento di una teoria dell’ereditarietà (1885), e lo stesso ha fatto con gli Studi sulla teoria della discendenza (1875-76), che ne avevano preparato la base osservativa e sperimentale. Una delle ipotesi geniali, poi confermate dalla ricerca osservativa, che hanno creato nell’Ottocento la biologia come scienza della natura vivente, è quella weismanniana della continuità della linea germinativa: i gameti, dai quali l’organismo ha avuto origine, attraverso i progenitori, riacquistano precoce autonomia nello sviluppo, e il ripetersi di tale circostanza nelle generazioni successive crea un tramite potenzialmente immortale della vita. Medico e poi zoologo, Weismann tiene nel 1867 la prolusione a Friburgo, che con lui assurge tra i massimi atenei della Germania, sul tema:
La giustificazione della teoria di Darwin. È una formula che non è eccessivo considerare di rilievo storico. L’eredità, passibile di protrarsi indefinitamente, deve avere una base strutturale, e Weismann ne ipotizza una duplice struttura: gli ‘idi’, inosservabili, e gli ‘idanti’, passibili di osservazione. Wilhelm Waldeyer li osserverà nel 1882, chiamandoli ‘cromosomi’. Non basta. Poiché la linea germinativa nasce da due progenitori, deve esserci una fase di riduzione a metà dei cromosomi, per evitarne il raddoppio nella discendenza. L’ipotesi della divisione riduttiva – chiamata ‘meiosi’ da Eduard Van Beneden, 1883 –, per merito prevalente di Weismann apportava alla darwiniana teoria della discendenza, poi teoria dell’evoluzione, un’integrazione sostanziale, di nozioni e di metodo ipotetico-deduttivo. Il neodarwinismo merita di essere aggiunto al darwinismo, formando una solida premessa, osservativa e teorica, alla comprensione filosofica della natura e della vita. Invece l’odierno darwinismo evoluzionistico sembra poco incline a seguire questo itinerario. Al bivio tra costrutto teorico e raccolta di fatti, il darwinismo evoluzionistico è soprattutto interessato a questi ultimi, nella convinzione che la struttura derivi dal ripetersi, dal sommarsi e dal protrarsi di mutazioni prive di una radice strutturale. Dietro i sussidi sensoriali di organismi viventi che se ne avvalgono – ma in base a quali leggi? – c’è, a dirla con il titolo di un’opera recente (1986) del darwinista Richard Dawkins, un «orologiaio cieco» che ha fatto il suo lavoro, risparmiandosi l’onere dell’esistenza personale, e colmando un vuoto di intelligibilità. Quelli che sembrano esiti di una brillante progettazione, sarebbero accumuli di successivi adattamenti. E non basta. Il congegno sensoriale, sorto come abbiamo accennato, giungerebbe a trasmettersi ereditariamente: e qui il contrasto tra l’ultradarwinismo e il neodarwinismo weismanniano è incolmabile. Dawkins e Weismann non possono avere entrambi ragione. Ma a questo punto il problema della vita diventa una finestra aperta su tutta la natura, sul mondo, sull’Universo. I confini tra i paradigmi scientifici si cancellano e il dibattito si fa radicale. Una voce che non si può non raccogliere viene dalla cosmologia, ed è quella di Fred Hoyle, in Matematica dell’evoluzione (1999). Il caso è escluso dalle strutture dell’Universo. Agli ultraevoluzionisti è molto dispiaciuto il paragone impostato da Hoyle tra la probabilità che una bufera di vento possa costruire a caso un odierno aeroplano servendosi della spazzatura diffusa in una città, e l’origine casuale di un gene: il primo evento è considerato assai più probabile del secondo. Ma è necessario seguire la via del rigoroso ragionamento, evitando seducenti scorciatoie. L’epigenesi con il suo fondamento metafisico, la simmetria evolutiva, può offrire una premessa teoretica all’analisi dei problemi accennati. Si deve scavare ancora e operosamente attendere.
Charles Robert Darwin
La formazione
Charles Robert Darwin nacque il 12 febbraio 1809 a Shrewsbury, nello Shropshire, quinto figlio di Robert Darwin, medico, e di Susannah Wedgwood, che morì quando lui aveva solo otto anni. I suoi nonni, Erasmus Darwin, poeta, evoluzionista e medico, e Josiah Wedgwood, fondatore di una famosa fabbrica di ceramiche, furono due protagonisti della rivoluzione industriale e del suo contesto intellettuale. Darwin manifestò fin da bambino una vivace passione per il mondo naturale, dedicandosi alla raccolta di campioni, alla caccia e a lunghe passeggiate esplorative. Dopo aver compiuto i corsi secondari in un collegio della sua città natale, nell’ottobre 1825 si iscrisse all’Università di Edimburgo per studiare medicina, pensando di seguire le orme paterne. Vi restò per due anni, accorgendosi però di non nutrire alcun interesse per quella disciplina e dedicandosi invece allo studio degli invertebrati marini sotto la guida di Robert Grant. Anche se in seguito rinnegò l’istruzione ricevuta a Edimburgo, essa esercitò senza dubbio un ruolo importante sulla sua formazione. A quell’epoca, l’Università di Edimburgo era infatti all’avanguardia nello studio delle materie scientifiche e della medicina; i suoi insegnanti seguivano con attenzione gli sviluppi della ricerca nel resto dell’Europa e offrivano corsi sulle scienze moderne. Nel 1827, dopo l’abbandono definitivo degli studi di medicina, il padre spinse Charles a intraprendere la carriera ecclesiastica e lo iscrisse al Christ’s College di Cambridge, ritenendo che come parroco di campagna sarebbe stato libero di appagare il suo interesse per la storia naturale. Pur riuscendo a conseguire dopo tre anni il grado di magister artium, anche a Cambridge Darwin non fu uno studente modello. Qui, però, strinse una serie di amicizie destinate a durare a lungo, come quelle con il botanico John Stevens Henslow e il geologo Adam Sedgwick; quest’ultimo, durante un viaggio di esplorazione nel Nord del Galles, gli impartì alcune essenziali lezioni di geologia. Fu proprio Henslow a fornire a Darwin l’opportunità di intraprendere il viaggio a bordo del Beagle.
Il viaggio sul Beagle
L’ammiragliato inglese aveva affidato al brigantino H.M. Beagle l’incarico di tracciare le carte delle acque costiere dell’America Meridionale, perfezionando in particolare lo studio delle coste della Patagonia e della Terra del Fuoco e rilevando i piani della costa del Cile, del Perù e di alcune isole del Pacifico, e inoltre di effettuare una serie di osservazioni cronometriche intorno al mondo. Il comandante della nave, Robert FitzRoy, aveva ottenuto dall’ammiragliato l’autorizzazione a prendere a bordo un compagno di viaggio di buona famiglia, il quale avrebbe potuto approfittare del viaggio per raccogliere esemplari naturalistici. La rete di relazioni che collegava il governo, l’amministrazione della Marina e le università portò le autorità a rivolgersi a Henslow, il quale pensò immediatamente a Darwin. Superate le perplessità del padre, Darwin accettò il posto. Come scrisse più tardi, nella sua autobiografia, « Il viaggio sul Beagle è stato di gran lunga l’avvenimento più importante della mia vita e ha determinato l’intero svolgersi della mia carriera». Il 27 dicembre 1831 il Beagle lasciava il porto di Devon; avrebbe fatto ritorno a Falmouth dopo cinque anni, il 2 ottobre 1836. Durante il viaggio Darwin visitò dapprima le Isole di Capo Verde, quindi effettuò lunghe escursioni nell’interno del Brasile partendo da Rio de Janeiro e da Bahia e poi, nei due anni in cui il Beagle perlustrò la costa a sud di Montevideo, si soffermò in molti punti compiendo ampie esplorazioni nella Pampa e nei piani della Patagonia. Visitò anche le Isole Falkland e la Terra del Fuoco (rischiando anche, presso Capo Horn, di naufragare a causa di una tempesta) e poi, sul Pacifico, le Isole Chiloé e Chonos e tutta la costa del Cile e del Perù fino a Callao, facendo molte soste ed entrando profondamente nel retroterra fin sulle Ande; infine poté esplorare a fondo l’arcipelago delle Galápagos. Nel viaggio, Darwin accumulò una grande quantità di fossili, uccelli, invertebrati, organismi marini e insetti e mise insieme una notevole collezione di piante; particolarmente interessato alla geologia, dedicò molta attenzione anche alla raccolta di campioni di rocce, a sostegno delle teorie che andava sviluppando sulla sedimentazione, il sollevamento e l’attività vulcanica. Compì inoltre numerose osservazioni su animali di grandi dimensioni, come i nandù, i guanachi, le vigogne e gli alpaca, rilevandone differenze e affinità. Registrava quotidianamente i risultati delle sue indagini in un diario, in cui annotava estesamente le osservazioni dal vivo sull’habitat, il comportamento, la colorazione e la distribuzione delle varie specie; queste annotazioni formano la base di numerosi articoli e libri pubblicati successivamente. Particolare influenza sullo sviluppo delle sue idee ebbe l’opera del geologo Charles Lyell, il cui testo Principi di geologia (1830-33) aveva portato con sé. Darwin poté verificare in prima persona l’esistenza delle forze naturali identificate da Lyell che gradualmente trasformano la superficie del pianeta. Facendo riferimento proprio alle teorie di Lyell, fece alcune scoperte molto importanti sulla geologia dell’America Meridionale, sulle isole vulcaniche e sulle origini delle barriere coralline. Questo enorme lavoro lo aiutò sicuramente a sviluppare una notevole capacità analitica, teorica e di osservazione, qualità che avrebbe messo a frutto con grande efficacia nelle indagini sull’evoluzione. Durante tutto il viaggio, i materiali raccolti venivano spediti per nave a Cambridge, dove erano presi in consegna da Henslow il quale, nell’ultimo periodo, organizzò un’esposizione degli esemplari più interessanti e pubblicò brevi estratti delle lettere ricevute. Al momento del suo rientro in patria, Darwin era quindi già famoso e disponeva di una magnifica collezione naturalistica, che agevolò il suo ingresso nella comunità scientifica, e di un’ampia visione del mondo naturale, che spaziava dai tropici alle regioni subtropicali, dalle isole coralline e dai vulcani alle popolazioni indigene; possedeva inoltre una rara conoscenza della varietà e dell’interdipendenza del mondo naturale.
Il ritorno in Inghilterra
Concluso il suo viaggio, Darwin si stabilì a Cambridge per alcuni mesi, durante i quali si dedicò alla stesura di articoli di geologia e alla distribuzione tra gli esperti degli esemplari raccolti. Entrò a far parte della Geological Society di Londra, nonché della Zoological Society e dell’Entomological Society. Nel marzo 1837, lasciata Cambridge, si trasferì a Londra, dove visse fino al 1842; nel gennaio 1839 sposò sua cugina Emma Wedgwood, dalla quale avrebbe avuto dieci figli. In seguito le sue condizioni di salute iniziarono a essere, a intervalli, meno soddisfacenti e, nell’ottobre 1842, decise di ritirarsi con la famiglia nel piccolo villaggio di Down, nel Kent, dove trascorse il resto della sua vita.
Nel periodo trascorso tra Cambridge e Londra, e quasi certamente sotto l’influsso del lavoro di classificazione degli esemplari di uccelli delle Galápagos eseguito dall’ornitologo John Gould, Darwin cominciò a valutare come possibile la trasformazione delle specie. Al principio del 1837 iniziò ad annotare le sue idee in proposito in una serie di taccuini privati, distinti con le lettere dalla A alla E e dalla M alla N e divenuti in seguito noti come Taccuini della trasmutazione; già in questi scritti sembra non avere dubbi sul fatto che le specie fossero soggette a cambiamenti. In seguito Darwin effettuò numerose letture, registrò le proprie osservazioni su quanto andava leggendo e prese nota di una serie di argomenti che avevano attirato la sua attenzione. In quel periodo il suo interesse era rivolto a questioni di vastissima portata, come quelle riguardanti la natura della vita, il carattere umano, l’adattamento all’ambiente degli organismi e l’esistenza di un progetto divino, il funzionamento della mente, l’origine del genere umano e delle altre specie. Ipotizzò diverse teorie, compresa la possibilità che le estinzioni fossero dovute alla senescenza delle specie e quella che i cambiamenti potessero avvenire per saltum, senza bisogno di anelli intermedi. Un’ampia percentuale delle note riguardava la variazione e la riproduzione delle piante e degli animali domestici. Già molto prima di formulare la teoria dell’evoluzione per selezione naturale, infatti, Darwin era convinto dell’esistenza di un’affinità tra i cambiamenti delle specie domestiche e quelli degli organismi selvatici. Questa analogia tra selezione ‘artificiale’ e selezione ‘naturale’, che precede l’identificazione di un meccanismo causale, costituisce la premessa di tutti i successivi sviluppi della sua teoria evolutiva.
Nel settembre 1838 Darwin lesse Saggio sul principio della popolazione (1798), di Thomas R. Malthus, nel quale l’autore spiegava le ragioni per cui le popolazioni umane tendono a mantenersi in equilibrio numerico. Malthus sosteneva che le popolazioni hanno la tendenza ad aumentare più rapidamente delle risorse alimentari disponibili. Questa crescita è però limitata da cause naturali come carestie ed epidemie o da fenomeni sociali come le guerre. Darwin comprese immediatamente che il ragionamento poteva essere applicato anche al mondo animale e vegetale e arrivò alla conclusione che moltissimi esseri viventi muoiono prima che possano riprodursi. Diversamente, ogni specie si sarebbe già riprodotta così tanto da riempire il pianeta in poche centinaia di generazioni, mentre nella realtà le popolazioni rimangono più o meno stabili, anno dopo anno. L’unica spiegazione possibile sta nel fatto che la maggior parte della progenie non sopravvive abbastanza per potersi riprodurre. Per Darwin la soluzione era da ricercare nella differenza tra gli esseri viventi che sopravvivono e si riproducono e quelli che invece non ce la fanno e denominò questa serie di cause variabili ‘selezione naturale’. Anche se non sapeva esattamente come funzionava il principio dell’ereditarietà e la genetica gli era completamente sconosciuta, Darwin si rese conto che l’eredità dei caratteri rivestiva un ruolo importante. La progenie assomiglia ai genitori e solo chi sopravvive trasmette alla prole la propria forma e le proprie abilità. Le caratteristiche favorevoli alla sopravvivenza saranno trasmesse alla prole e si moltiplicheranno, mentre diminuiranno quelle degli individui che non sopravviveranno tanto a lungo da riprodursi. Per la prima volta Darwin pensava in termini di popolazioni di individui portatori di differenze, e non più in termini di tipi ideali, come avevano fatto molti studiosi fino ad allora.
Lo sviluppo della teoria
Nei mesi successivi Darwin prese nota delle vie che si proponeva di esplorare alla luce di quella che chiamava la ‘discendenza con modificazione’, si applicò sistematicamente a un intenso programma di letture e avviò una serie di esperimenti sulla riproduzione delle piante. Non aveva, però, intenzione di pubblicare le sue ipotesi senza una preparazione e una documentazione adeguate, in quanto era consapevole che la sua teoria avrebbe rivoluzionato il campo delle scienze biologiche. Né gli sfuggivano le conseguenze sociali, non solo per la diversa visione sull’origine del genere umano che implicava, ma anche per il sovvertimento che avrebbe comportato sulle concezioni teologiche riguardanti il ruolo di Dio nella natura, radicate in maniera profonda nella vita e nelle istituzioni britanniche di quel tempo. Per queste ragioni, Darwin in un primo momento decise di tenere segrete le sue riflessioni e di confidarle esclusivamente alla moglie, alla quale però spiegò soltanto i principi generali, senza scendere nei dettagli. Dopo un certo tempo, tuttavia, iniziò a esporre cautamente alcune sue idee anche agli amici scienziati più fidati, per valutarne le reazioni. Nel giugno 1842 scrisse un primo abbozzo di 35 pagine della sua teoria, in cui elencava gli argomenti a favore della nozione di discendenza con modificazione e del meccanismo malthusiano di selezione naturale, ma evitava di affrontare le questioni riguardanti i progenitori dell’uomo. Tale abbozzo fu ampliato in un saggio di circa 230 pagine, completato nel febbraio 1844, che Darwin affidò alla moglie, insieme a una lettera che avrebbe dovuto essere aperta in caso di morte improvvisa, in cui le chiedeva di trovare un editore disposto a pubblicarlo postumo. In questo saggio Darwin sottolineava il ruolo dell’isolamento geografico nella formazione delle specie e considerava i fenomeni geologici come parte essenziale del meccanismo causale del cambiamento biologico. Partendo dal presupposto di un perfetto adattamento degli organismi all’ambiente, pensava che le loro variazioni dovessero essere precedute da un mutamento delle condizioni ambientali, spiegabile con la teoria geologica del sollevamento e della subsidenza, che avrebbe quindi stimolato la variazione, la competizione e la selezione. In sostanza, inizialmente, Darwin attribuiva al cambiamento geografico il ruolo di agente primario nella genesi delle variazioni e all’isolamento geografico lo stesso ruolo nel consolidamento delle differenze specifiche. Anche se il saggio del 1844 era sufficientemente completo da non richiedere ulteriori modifiche per la pubblicazione, Darwin continuò a lavorare alla sua teoria, accumulando prove a suo favore ed esplorandone tutte le possibili applicazioni prima di renderla pubblica. A rafforzare questo suo atteggiamento contribuì senza dubbio la pubblicazione, nello stesso anno, di un opuscolo anonimo, dal titolo Vestiges of the natural history of Creation (rivelatosi poi opera di Robert Chambers), in cui si proponeva l’idea della trasformazione come legge naturale dello sviluppo. Il testo, il cui contenuto era per sommi capi molto simile alle speculazioni darwiniane, fu accolto con aspre critiche negli ambienti teologici e scientifici, in particolare quelli conservatori, e l’autore fu oggetto di derisioni sarcastiche. Di conseguenza Darwin, che naturalmente voleva evitare di esporsi allo stesso tipo di critiche, fu spinto ad accumulare una quantità sempre maggiore di prove, che cercò di convalidare sulla base dei criteri adottati dall’élite scientifica. A tale scopo, intensificò la corrispondenza con esperti di diverse discipline, per documentarsi sui principi fondamentali dell’ereditarietà, della variabilità e dei processi riproduttivi negli organismi domestici e selvatici. Nello stesso tempo intraprese un vasto programma di esperimenti, allevando piccioni, sperimentando nuovi incroci di piante e dedicandosi ad altre attività del genere. I resoconti di questi esperimenti formarono il contenuto di una serie di brevi articoli, pubblicati sulle riviste di storia naturale.
In seguito Darwin si dedicò allo studio dei cirripedi, una sottoclasse di crostacei marini. La ricerca, che gli costò otto anni di lavoro e fu pubblicata tra il 1851 e il 1854, descriveva tutte le specie conosciute, viventi ed estinte. Le scoperte effettuate in questo campo gli fornirono una grande quantità di materiale sul quale lavorare; in particolare, mentre nel saggio del 1844 egli attribuiva ancora molta importanza al mutamento delle condizioni ambientali, le ricerche condotte sui cirripedi indicavano invece che le variazioni si verificavano in numero sufficiente per cause naturali, pertanto senza l’intervento di fattori ‘perturbanti’, e ciò lo indusse a rielaborare alcune parti della sua teoria della selezione naturale. Dal 1855, iniziò quindi a condurre esperimenti per provare che semi, piante e animali avrebbero potuto raggiungere le isole oceaniche senza che fosse stato necessario alcun movimento geologico. Intorno al 1857 riuscì a confermare quanto ipotizzato. Secondo il suo ragionamento, i generi numericamente più consistenti e dotati di un’area di distribuzione più vasta erano quelli che si potevano considerare ‘vincenti’ nella lotta per la sopravvivenza e più efficienti dal punto di vista evolutivo, quindi quelli più propensi alla variazione. Durante questo periodo di studio Darwin formulò il cosiddetto ‘principio di divergenza’, l’ultima modifica significativa apportata allo schema evolutivo originale elaborato nel 1844. In sostanza, riconobbe la necessità di dare espressione formale alle sue precedenti ipotesi sulla diversificazione e cominciò a chiedersi in che modo la selezione naturale potesse dare origine al metaforico ‘albero’ della vita. Egli aveva inizialmente ipotizzato che la divergenza si verificasse nel momento in cui specie affini rimanevano isolate per un motivo o per l’altro, senza alcuna possibilità di entrare in contatto tra loro. Ora si domandava invece in che modo le variazioni favorevoli riuscissero a conservarsi in quelle specie vincenti che facevano parte di popolazioni numerose e complesse, diffuse nelle vaste regioni continentali. Il principio di divergenza gli fornì una risposta: la diversificazione delle specie è il risultato di una divisione del lavoro e la selezione naturale favorisce la sopravvivenza delle varietà che si distinguono maggiormente dalla forma originale. In altre parole, in un ambiente sovrappopolato la lotta per la sopravvivenza avrebbe favorito le varianti in grado di sfruttare meglio le nuove opportunità.
L’origine delle specie
Nel maggio 1856 Darwin aveva iniziato a scrivere un lungo trattato sulla selezione naturale; aveva ormai completamente abbandonato l’idea che le diverse specie fossero adattate in maniera perfetta al loro ambiente finché le condizioni ambientali restavano immutate a favore della tesi che le nuove varianti avessero tutte qualche grado di imperfezione e pertanto fossero costrette a una perenne lotta per la sopravvivenza. La stesura dell’opera fu interrotta il 18 giugno 1858, quando ricevette da Alfred Russel Wallace, un naturalista e collezionista inglese che in quel momento stava raccogliendo campioni nell’Asia sud-orientale, una lettera con allegato un saggio (Sulla tendenza delle varietà ad allontanarsi indefinitamente dal tipo originario), in cui gli esponeva in modo particolareggiato la propria teoria evolutiva, apparentemente identica a quella di Darwin. Darwin inoltrò la lettera di Wallace a Lyell e di comune accordo decisero di evitare una rincorsa alla rivendicazione di priorità e di diffondere le osservazioni congiuntamente quanto prima possibile. Il 1° luglio 1858 i testi furono letti dallo stesso Lyell e dal botanico Joseph D. Hooker durante una seduta della Linnean Society di Londra, a cui sia Darwin sia Wallace non presero parte, e vennero successivamente pubblicati negli atti della Society. Dopo il duplice annuncio, Darwin decise di dare rapidamente alle stampe la sua teoria. Preparò quindi una versione ridotta del manoscritto sulla selezione naturale, intitolata L’origine delle specie, che uscì il 24 novembre 1859 per i tipi dell’editore londinese John Murray. Se da un lato Darwin definiva questo libro ‘una lunga argomentazione’, resa molto incisiva dalla drastica condensazione del copioso manoscritto originale, dall’altro lato riteneva che soffrisse dell’inevitabile omissione di molti dettagli pazientemente accumulati e di molte citazioni di fonti. Considerò sempre quest’opera come un ‘compendio’ obbligato della sua teoria e per molti anni coltivò il progetto di pubblicare il lungo manoscritto originale, la cui stesura era stata bruscamente interrotta dalla lettera di Wallace. Dal punto di vista concettuale, l’Origine delle specie è divisa in due parti: nella prima metà sono esposti i ‘fatti’ palesi, seguiti dalla presentazione della teoria nel quarto capitolo; nel resto del libro è invece descritto il modo in cui essa consente di spiegare aspetti fondamentali della biologia quali l’embriologia, la classificazione, la paleontologia e la distribuzione geografica. L’argomentazione di Darwin procede esclusivamente per analogia, senza il sostegno di prove; egli, tuttavia, presentò di proposito numerosi casi in cui la selezione naturale, una volta accettata, avrebbe potuto fornire una spiegazione convincente e pratica di una vasta gamma di fenomeni osservabili in biologia. La teoria darwiniana dell’evoluzione attraverso la selezione naturale afferma che la progenie di tutte le specie è costretta a competere duramente per la sopravvivenza. Gli individui che sopravvivono tendono a incorporare qualche carattere favorevole, sia pure minimo, e tali variazioni vengono trasmesse per via ereditaria alla nuova generazione. Ne consegue che ogni generazione successiva sarà meglio adattata all’ambiente rispetto a quella precedente, sebbene non si possa parlare di una tendenza necessaria verso il miglioramento in senso assoluto. Tale processo continuo e graduale è il principio che sottende l’evoluzione della specie. Darwin riuscì in questo modo a spiegare per la prima volta in modo coerente e unitario una quantità di evidenze molto diverse fra loro, come la successione dei fossili nei reperti geologici, la distribuzione geografica delle forme di vita, le somiglianze negli stadi embrionali precoci, le omologie strutturali, gli organi vestigiali, le relazioni tassonomiche osservate nel mondo vivente.
Le reazioni alle idee rivoluzionarie di Darwin furono diverse e alquanto accese. Nel campo della zoologia, della tassonomia, della botanica, della paleontologia, della filosofia, dell’antropologia, della psicologia e della religione l’opera scatenò forti resistenze. Ciò che risultò più ostico furono le implicazioni della teoria dell’evoluzione sulla presunta unicità assoluta dell’uomo. Sebbene Darwin si fosse astenuto dal trattare all’interno della sua opera la comparsa di singole specie, compresa quella umana, molti lettori pensarono subito alle ricadute che questa visione genealogica avrebbe avuto sulle antiche e radicate visioni circa il posto dell’uomo nella natura. Darwin trattò l’argomento in seguito, in L’origine dell’uomo del 1871 e L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali del 1872, lo stesso anno in cui uscì la sesta e definitiva edizione dell’Origine delle specie. All’interno di queste opere, Darwin dimostrò che non esistevano differenze nel modo di evoluzione tra l’uomo e gli altri animali, ma solo nel grado. Dimostrò cioè l’esistenza di una diversità di gradazione, non di un divario incolmabile, non solo tra Homo sapiens e gli altri animali, ma tra tutti gli esseri viventi, il che è una conseguenza del perenne e continuativo cambiamento che agisce accumulandosi nel tempo. I risultati conseguiti da Darwin non si limitano alle sue prime opere di carattere scientifico e a quelle relative alla teoria dell’evoluzione. Le sue attente osservazioni, la sua immaginazione, la sua curiosità e la sua determinazione gli permisero di fornire contributi estremamente preziosi al mondo dell’ecologia, della botanica e a decine di quelle che in seguito sarebbero diventate discipline autonome. A proposito della correlazione tra specie diverse, clima e ambiente, Darwin propose nuove soluzioni al quesito riguardante il modo in cui gli esseri viventi si sarebbero sparsi nel mondo, pubblicò opere fondamentali sugli espedienti con cui le orchidee sono fecondate dagli insetti (1862), sui movimenti e le abitudini delle piante rampicanti (1865), sulla variazione degli animali e delle piante sotto addomesticamento (1868), sulle piante insettivore (1875), sugli effetti della fecondazione nel regno vegetale (1876), sulle differenti forme dei fiori o delle piante della stessa specie (1877), sul potere del movimento nelle piante (1880). Anche nel suo ultimo libro, La formazione del terriccio vegetale per l’azione dei lombrichi, del 1881, diede un contributo scientifico significativo, rivelando la straordinaria complessità e importanza di un processo naturale di accumulazione graduale di cambiamenti, che nessuno pareva aver intuito prima e che era sempre stato, come egli disse, «sotto i piedi di tutti». La straordinaria importanza della sua opera fu riconosciuta dai contemporanei: insignito di molte onorificenze, fu chiamato a far parte di numerose società, fra le quali la Deutsche Akademie der Naturforscher nel 1857 e l’Académie des Sciences nel 1878. Si spense nella sua abitazione di Down il 19 aprile 1882; è sepolto nell’Abbazia di Westminster, a Londra, accanto a Isaac Newton.
Le teorie dell’evoluzione
Gli sviluppi
Le teorie evolutive dominarono il campo della biologia dopo l’uscita dell’Origine delle specie, eppure Darwin stesso era conscio di una difficoltà nella sua formulazione: è vero che ogni popolazione animale o vegetale è altamente variabile, ma certamente l’evoluzione non può avvenire se non esiste negli organismi una fonte continua di variabilità, la cui origine era sconosciuta ai tempi di Darwin. Le ricerche successive al 1900, con la nascita della genetica come scienza, hanno risolto questo problema. La causa della variazione che permette l’evoluzione degli organismi è rappresentata dalla mutazione o meglio da vari tipi di mutazione, intendendo per mutazione una variazione improvvisa del gene, o comunque del materiale ereditario, che avviene spontaneamente per cause diverse. La rielaborazione della teoria darwiniana sulla base delle nuove acquisizioni della genetica, operata nei primi decenni del 20° secolo, prende il nome di teoria neodarwiniana dell’evoluzione, o teoria sintetica dell’evoluzione. Un secondo problema della teoria darwiniana non è stato risolto: se il processo evolutivo utilizza la selezione naturale, che favorisce la sopravvivenza del più adatto, è difficile capire come si siano formati gradualmente gli organi e le funzioni complesse. La formazione improvvisa di tali funzioni è anche impossibile in quanto necessita dell’improbabile comparsa contemporanea di numerosissime mutazioni. A queste difficoltà concettuali, notevoli ai tempi di Darwin quando le basi dell’ereditarietà erano ignote e ancor più grandi adesso che sono note, si aggiunge il fatto che la teoria darwiniana dell’evoluzione prevede che i fossili forniscano una serie continua e graduale dell’evolversi della vita: in realtà la serie dei fossili è tutt’altro che continua. Mentre ai tempi di Darwin era facile pensare che le serie fossero lacunose per la difficoltà di reperire i fossili, adesso è molto più difficile sostenere questa spiegazione: o l’evoluzione non è stata continua o alcune forme sono durate così poco e sono state così poco numerose che non riusciamo a reperirne i fossili. Sulla base dell’evoluzione darwiniana sono state sviluppate altre teorie, come quella dell’evoluzione neutrale, secondo la quale i cambiamenti evolutivi sono dovuti a una deriva genetica casuale e non sempre sono adattivi (potrebbero quindi essere anche sfavorevoli). Secondo la teoria dell’evoluzione a salti (o degli equilibri punteggiati), si sarebbero alternati lunghi periodi di stabilità a brevi periodi di cambiamenti; questa teoria spiegherebbe la mancanza, in molti casi, di forme di transizione fossili tra i diversi gruppi zoologici. Infine, la teoria dell’evoluzione a mosaico sostiene che, nelle diverse strutture (anche a livello molecolare) di un individuo, i cambiamenti evolutivi possono avvenire in tempi diversi.
Le prove
Prove basate sui reperti fossili. Anche se incomplete, le serie fossili non sono spiegabili se non accettando l’insieme di un processo evolutivo. I fossili più antichi che sono stati trovati finora sono residui di organismi microscopici, simili agli odierni batteri, reperiti in rocce che risalgono a 3,5 miliardi di anni fa. Fossili simili agli attuali cianobatteri, presumibilmente fotosintetici, compaiono in rocce di circa 2 miliardi di anni, mentre cellule con strutture simili a quelle degli eucarioti risalgono a circa 1,7 miliardi di anni fa. In un periodo molto più recente, e cioè nel Cambriano (570 milioni di anni fa), si assiste a un’incredibile diversificazione degli esseri viventi: quasi all’improvviso compaiono i rappresentanti di tutti i principali gruppi animali attualmente esistenti. Ancora oggi non esiste una spiegazione convincente di come nel giro di pochi milioni di anni (un tempo evolutivamente brevissimo) vi sia stata una simile esplosione delle forme viventi. Nelle ere successive si trovano evidenze delle prime forme di vita terrestre, sia vegetale sia animale, fino a che in tempi evolutivamente recentissimi, circa un milione di anni fa, si assiste alla comparsa dei primi uomini. È importante notare che moltissimi degli organismi che troviamo allo stato fossile sono estinti perché gradualmente sostituiti da altri, più adatti all’ambiente in continuo cambiamento. Prove fornite dalla biochimica e dalla biologia molecolare. L’analisi dei costituenti biochimici e delle vie metaboliche degli organismi, dai batteri all’uomo, mette in evidenza alcune caratteristiche fondamentali della vita. Tutti gli organismi hanno come mattoni fondamentali due macromolecole, le proteine e gli acidi nucleici, la cui struttura fondamentale è identica in tutti gli esseri viventi. Le proteine sono sempre composte dagli stessi 20 amminoacidi (il numero possibile di questi è molto superiore) in forma L (la forma L e la forma D sono funzionalmente identiche). Anche gli acidi nucleici, nei quali risiedono i determinanti ereditari, hanno la stessa identica struttura in tutti gli esseri viventi, così come è identico (salvo trascurabili eccezioni) il codice genetico, cioè l’insieme delle regole con cui l’informazione contenuta negli acidi nucleici viene utilizzata per costruire le proteine. Ciò si spiega solo ammettendo che tutti gli organismi derivino da un organismo primordiale che già possedeva le caratteristiche fondamentali di quelli attuali. Inoltre, prendendo in esame le vie metaboliche, vale a dire quelle serie di reazioni biochimiche con cui gli organismi costruiscono i propri componenti e utilizzano i substrati, è possibile osservare che esse sono quasi identiche in tutti gli esseri viventi.
Prove derivate dall’anatomia comparata, dalla fisiologia e dall’embriologia. L’esame comparato degli organismi indica chiaramente che essi presentano notevoli somiglianze e che possono essere ordinati sulla base della loro struttura, secondo una serie in cui la complessità aumenta progressivamente. Gli animali pluricellulari più semplici sono le Spugne e i Celenterati, il cui corpo è formato da due soli foglietti cellulari (l’ectoderma e l’entoderma) e presentano una sola apertura che è insieme anale e buccale. Seguono i Platelminti, o vermi piatti, nei quali compare il terzo foglietto cellulare (il mesoderma) e poi i Nematelminti, o vermi tondi, nei quali compaiono una seconda apertura, quella buccale, organi complessi, che più o meno modificati troveremo in tutti gli animali, e un accenno di formazione del celoma, ovvero la cavità che separa l’intestino dal tegumento. Il celoma si perfeziona negli Anellidi, dove la cavità risulta circondata completamente di una sua propria membrana. Esaminando un gruppo di animali più ristretto, per es. i Mammiferi placentati, si può osservare che tutti, pur così differenti tra di loro come una giraffa da un topo o un pipistrello da una foca, sono costituiti esattamente dai medesimi organi, i quali hanno la stessa struttura fondamentale: gli animali sono diversi fra loro solo perché lo sviluppo di ogni singolo organo è differente nei diversi animali. Prendendo in considerazione un gruppo vasto quale quello dei Vertebrati, che comprende i Pesci (cartilaginei e ossei), gli Anfibi, i Rettili, gli Uccelli e i Mammiferi, è possibile in alcuni casi vedere come molti organi che compaiono nel gruppo più primitivo (quello dei Pesci cartilaginei, che sono comparsi per primi nella storia evolutiva, come si desume dallo studio dei fossili) si conservano, seppure adattati alle nuove situazioni, nei gruppi più recenti. Un caso tipico è rappresentato dal sistema circolatorio, e in particolare dal cuore, che presenta nei Pesci un singolo atrio e un singolo ventricolo, due atri e un solo ventricolo negli Anfibi, due atri e due ventricoli non completamente separati nei Rettili, due atri e due ventricoli completamente divisi nei Mammiferi e negli Uccelli. Questi cambiamenti progressivi sono correlati a esigenze funzionali del sistema circolatorio; in ogni caso, la condizione più semplice è quella presente nell’organismo che è comparso per primo sulla scena dell’evoluzione. Queste osservazioni sono interpretabili nella maniera più logica supponendo la formazione di piani strutturali che sono andati lentamente evolvendo, a seconda delle specifiche necessità dei diversi organismi: per es., il sistema circolatorio è drasticamente cambiato nei Vertebrati con il passaggio dalla vita acquatica a quella terrestre. Queste conclusioni sono ulteriormente avvalorate dallo studio dell’embriologia. Gli organismi sono fra loro molto più simili nella vita embrionale di quanto non lo siano nella vita adulta. In base a questa considerazione E. Haeckel fondò la cosiddetta legge biogenetica fondamentale, la quale afferma che l’ontogenesi (sviluppo embriologico) è la ricapitolazione della filogenesi (storia evolutiva). Sebbene la validità di tale legge appaia oggi più limitata di quanto non si pensasse ai tempi di Haeckel, è certo che alcune affinità e omologie si possono stabilire solo in base a ricerche embriologiche. Inoltre, nel corso della vita embrionale si formano, spesso senza mai divenire funzionali, organi che sono presenti e funzionali in organismi più primitivi. La distribuzione geografica degli animali e delle piante presenta singolarità (per es., l’assenza di Mammiferi nella Nuova Zelanda, dei Placentati nell’Australia, di orsi bianchi nell’Antartide e di pinguini nell’Artide; la presenza dei Marsupiali soltanto in Australia e, con pochissime specie, in America) che si possono interpretare abbastanza bene in termini evoluzionistici. Infine la sistematica zoologica e botanica, che appunto si basa sulle affinità di struttura fra gli esseri viventi, offre argomenti di prima importanza a favore dell’evoluzione. Anche l’uomo è il prodotto di un’evoluzione a partire da antenati del gruppo delle scimmie, durante il Pliocene e il Pleistocene. Gli antenati più prossimi erano simili alle attuali scimmie antropomorfe. Questa affermazione, già contenuta in Darwin, ha poi trovato conferma nelle numerose scoperte di resti fossili di Preominidi e Ominidi, che dimostrano alcune tappe di questa evoluzione.
I meccanismi
La scoperta dei meccanismi che sono alla base dell’evoluzione è dovuta per la massima parte ai grandi progressi compiuti dalla genetica nel Novecento. I processi evolutivi fino a ora ben dimostrati sono: la mutazione, la selezione, la deriva genetica e l’isolamento geografico. Essi determinano sostanzialmente una variazione delle frequenze alleliche nelle popolazioni. Lo studio della variabilità ereditaria e della sua modulazione nel tempo e nello spazio è stato effettuato da Godfrey Harold Hardy e Wilhelm Weinberg. La mutazione. Le mutazioni operano a tre livelli: genico, producendo nuovi alleli, cromosomico, producendo nuove strutture cromosomiche, e genomico, dando luogo a cambiamenti del numero dei cromosomi. Esse rappresentano la base dell’evoluzione: le mutazioni geniche possono produrre effetti sull’insieme dei caratteri visibili di un organismo (fenotipo); avvengono spontaneamente (e cioè per cause ignote) con frequenza molto bassa (circa 1/100.000 o 1/1.000.000 di geni, per gene e per generazione); la loro frequenza può essere aumentata da agenti mutageni quali i raggi X o alcune sostanze chimiche. Comunque le mutazioni che si verificano in un determinato ambiente sono casuali, cioè non si verificano con maggiore frequenza le mutazioni che consentono un migliore adattamento degli individui all’ambiente stesso. Le mutazioni cromosomiche non producono modificazioni delle caratteristiche morfologiche ma controllano caratteristiche funzionali; inoltre rivestono un ruolo importante nel determinare la sterilità degli ibridi negli incroci interspecifici. Le mutazioni genomiche, molto diffuse nelle piante e rare negli animali, causano variazioni dell’assetto cromosomico che, invece di essere diploide (2n), come di norma, può essere triploide (3n), tetraploide (4n) ecc.; possono produrre anche variazioni che interessano una sola o poche coppie di cromosomi (aneuploidia). La selezione naturale. L’orientamento dell’evoluzione è il risultato dei fenomeni di selezione naturale i quali agiscono sulla variabilità genetica, fornita dalle mutazioni casuali, attraverso la riproduzione differenziale; infatti i portatori di combinazioni geniche favorite dalla selezione contribuiscono con un maggior numero di discendenti alla generazione successiva. L’esistenza e l’azione della selezione naturale sono suffragate da numerose prove sperimentali, date da esperimenti di laboratorio e da osservazioni in natura. Per es., ceppi di batteri incapaci di sopravvivere in presenza di un certo antibiotico divengono improvvisamente resistenti a esso e si moltiplicano nonostante la presenza dell’antibiotico grazie alla comparsa per mutazione di individui resistenti. Questa mutazione, preesistente nel genotipo dei batteri alla comparsa dell’antibiotico, risulta neutra o addirittura sfavorevole in ambienti privi di antibiotici, ma è invece favorita dalla selezione in presenza di antibiotico; infatti solo gli individui portatori di tale mutazione sopravvivono e si riproducono, mentre tutti gli altri muoiono: ciò spiega perché alcuni antibiotici rivelatisi molto efficaci al momento della loro comparsa perdono in breve tempo la capacità di agire su molti germi patogeni. Analoghi ai fenomeni di resistenza dei batteri agli antibiotici sono quelli di resistenza agli insetticidi da parte di molti artropodi; anche gli insetticidi hanno quindi agito come forze selettive modificando in breve tempo il patrimonio ereditario di numerose popolazioni. Deriva genetica. Si hanno fenomeni di deriva quando la frequenza di uno o più alleli (o addirittura la presenza o l’assenza di essi) in una popolazione è determinata unicamente dal caso, e ciò avviene quando più alleli hanno valore selettivo simile e quando una popolazione viene drasticamente ridotta di numero (per es., in una popolazione di zanzare che abita una zona trattata con insetticidi, la popolazione che si formerà dopo il trattamento porterà solo gli assetti cromosomici delle zanzare sopravvissute); gli effetti della deriva sono tanto più accentuati quanto minore è il numero degli individui della popolazione. Isolamento geografico. L’isolamento geografico riveste un ruolo fondamentale nell’evoluzione e in particolare nel processo di formazione delle specie o speciazione, che ne è il punto cruciale. Esso, impedendo il flusso genico e quindi il rimescolamento genetico tra popolazioni adiacenti, permette alle popolazioni isolate di adattarsi indipendentemente ai diversi ambienti, ed è quindi la causa primaria del loro differenziamento in razze, semispecie e specie distinte. Così, se una singola specie è distribuita uniformemente su un certo territorio e in seguito, sia per effetto delle diverse pressioni selettive che si realizzano nelle varie parti dell’areale, sia per la presenza di una barriera geografica (catena montuosa, tratto di mare o più semplicemente un territorio inabitabile per la specie), si stabiliscono differenze genetiche tra gruppi di popolazioni a mano a mano isolati, questi si evolveranno indipendentemente gli uni dagli altri dando origine a razze geografiche o a specie distinte. Se la barriera viene a cadere e i gruppi di popolazioni tornano in contatto, possono o ibridarsi o risultare riproduttivamente isolati, e in tal caso il processo di speciazione è compiuto. È da notare che l’isolamento riproduttivo non viene necessariamente raggiunto nel corso dell’isolamento geografico, perché, finché le popolazioni rimangono isolate, nessuna forza selettiva agisce in favore dell’insorgenza di barriere riproduttive; è quando le popolazioni tornano in contatto che l’isolamento riproduttivo può essere favorito dalla selezione naturale, instaurarsi e rafforzarsi con meccanismi di varia natura (genetica, ecologica, etologica ecc.). Se infatti la prole derivata da due popolazioni precedentemente isolate ha un grado di adattamento (fitness) inferiore a quello della prole derivata da incroci intrapopolazionali, la selezione naturale favorirà le mutazioni e le combinazioni geniche che rendono più probabile l’accoppiamento tra individui della stessa popolazione.
Formazione delle specie per poliploidia. Nelle piante, ove è largamente diffusa la riproduzione vegetativa, la formazione delle specie attraverso l’ibridazione di due entità diverse e successiva poliploidizzazione assume un ruolo importante. Infatti, anche se gli ibridi tra due specie sono sterili, a causa di disturbi nella formazione dei gameti, essi possono ugualmente propagarsi per riproduzione vegetativa. Uno dei più noti e importanti organismi poliploidi è il frumento da pane (Triticum aestivum) con 42 cromosomi, che si è originato in seguito alla produzione di un ibrido tra un frumento coltivato, con 28 cromosomi, e una graminacea selvatica dello stesso genere, con 14 cromosomi. Fenomeni simili non sono conosciuti negli animali e ciò è probabilmente in rapporto alla quasi generale assenza in essi della riproduzione vegetativa; sono invece frequenti casi di animali in cui l’ibridazione e la poliploidia hanno sostenuto un ruolo importante nell’evoluzione (Platelminti, Anellidi, Crostacei, Insetti, alcuni Vertebrati); in questi casi però vi è presenza anche di ermafroditismo o di partenogenesi.
riferimenti bibliografici
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