ANGUILLARA, Everso (Avverso)
Nacque verso la fine del secolo XIV da Dolce e da Battista Orsini. Il padre, facendo testamento l'anno 1400, gli lasciò metà del suo patrimonio e il giovane conte, già fra il 1416 e il 1418, diede prova del suo valore compiendo scorrerie nel territorio di Sutri e offrendo concreti aiuti, finanziari e militari, al nuovo pontefice Martino V. Nel 1419 rafforzò la propria posizione sposando Francesca Orsini e negli anni seguenti continuò a svolgere una accorta politica di assoluta devozione al pontefice e di accanita ostilità contro i Colonna e i prefetti di Vico. Con l'ascesa al trono pontificio di Eugenio IV, l'A. trovò modo di far valere ancor più le sue doti di abile uomo d'armi e, ponendosi al servizio di Giacomo Vitelleschi, diede un deciso contributo alla campagna del 1431-1432 contro i di Vico, partecipando anche alla conquista di Vetralla. Nel 1433 ricacciò da ponte Milvio Niccolò Fortebraccio e conquistò Bieda. Nel maggio del 1435, in seguito a ordine del Vitelleschi, ruppe la breve tregua ffin'allora mantenutasi fra le truppe della Chiesa e Giacomo di Vico, e partecipò con decisione alle azioni che portarono al crollo della potenza del prefetto e alla sua cattura. Dopo l'esecuzione di Giacomo di Vico, Everso approfittò con molta abilità del fa vore di cui godeva presso il Vitelleschi e presso lo stesso pontefice e provvide ad allargare molto la sfera del suo diretto dominio territoriale verso la zona settentrionale del Patrimonio mediante l'acquisto di Vetralla, Vico, Caprarola e Casamala, feudi già appartenuti ai di Vico. Malgrado il notevole aumento della sua potenza personale, l'A. continuò a rimanere fedele alla Chiesa e al Vitelleschi: nel 1436 respinse da Roma Antonio da Pontedera e nel 1438 partecipò ad alcune scorrerie nell'Orvietano. Ma nel 1440 la fortuna del Vitelleschi precipitò, e l'A., che era presente al momento del suo arresto avvenuto il 19 marzo in Roma presso Castel S. Angelo, non riuscì a salvarlo, limitandosi a portar via con sé una parte del seguito del cardinale. Il 6 maggio poi fece atto di sottomissione alla Chiesa, e in quell'anno e nel seguente partecipò ad alcune campagne sotto il nuovo cardinale legato, Ludovico Scarampo. Dopo la tragica scomparsa del Vitelleschi, suo protettore ed amico, l'A. aveva però mutato il suo atteggiamento nei riguardi della Chiesa, intuendo che il rafforzamento del dominio pontificio nel Patrimonio avrebbe portato all'indebolimento della sua stessa potenza, così come era già avvenuto per il disgraziato Giacomo di Vico. Infatti, dopo aver debolmente combattuto nel 1442-43 contro lo Sforza e i suoi capitani che spadroneggiavano nel territorio della Chiesa, l'A. si chiuse in un assoluto isolamento per alcuni anni, isolamento da cui uscì soltanto nel 1448 per porgere aiuto a Rinaldo Orsini assediato in Piombino da Alfonso d'Aragona. Com'è noto il tentativo di Alfonso fallì, né l'A. ebbe da temere troppo le rappresaglie minacciategli in quest'occasione dal re di Napoli; anzi, nel 1452, egli passò addirittura al servizio di Alfonso, raggiungendolo in Toscana. Nel frattempo l'A., che con i suoi domini occupava quasi tutto il territorio della diocesi di Sutri e in più Cerveteri a sud e Caprarola a nord, accarezzava l'ambizioso disegno di formarsi una signoria nel Patrimonio. Ma perché il suo non troppo omogeneo dominio feudale potesse trasformarsi in signoria, occorreva che almeno un grande centro cittadino venisse a costituirne il necessario punto di convergenza economica, politica ed amministrativa. L'A., pur sapendo di sfidare così il potere di Roma, pensò di impadronirsi di Viterbo, che dal 1450 era dominata dalla forte personalità del guelfo Princivalle Gatti; a questo fine egli fornì ogni sorta di aiuti al partito ghibellino viterbese, giungendo sino ad organizzare nell'aprile 1454 l'assassinio del Gatti e proteggendo, dopo il delitto, l'esecutore materiale di esso, Lanciotto Monaldeschi. Alla fine dello stesso anno, senza curarsi delle proteste di Niccolò V, che tentava di controllare i baroni romani piuttosto con gli accordi che non con la forza, l'A. si inserì in una controversia allora scoppiata fra Spoleto e Norcia, stringendo alleanza con la prima di queste due città ed estendendo così in Umbria la sua sfera d'influenza. Niccolò V intuì il grave pericolo insito in questa manovra e la stroncò con prontezza, costringendo Spoleto alla sottomissione e l'A. alla fuga. Questo incidente non intaccò la potenza del conte, che anzi trovò modo ai primi del 1445 di ottenere un'assoluzione completa da Niccolò V. Ma intanto si erano gravemente turbati i suoi rapporti con Napoleone Orsini, il quale mirava ad impossessarsi dell'eredità di Antonio Orsini conte di Tagliacozzo, la cui figlia Maria aveva sposato Deifobo, figlio dell'Anguillara. Quando l'Orsini e l'A. si trovarono insieme a Roma per la consacrazione del nuovo pontefice Callisto III (20 apr. 1455), il dissidio si risolse in uno scontro armato che sconvolse Roma per tutta la giornata e diede origine ad una lunga e sanguinosa guerriglia nel Patrimonio, in cui l'A. trovò l'appoggio dei Colonna. Questa guerriglia, che Callisto III tentò vanamente di troncare, fornì all'A. l'occasione per lanciarsi in una serie di campagne di conquista nel corso delle quali riuscì ad impossessarsi di Carbognano, Vallerano e Nepi, alleandosi a Niccolò Piccinino e tentando vanamente di formarsi un vasto dominio in Umbria. Nell'agosto del 1459, inoltre, egli cercò di impadronirsi nuovamente di Viterbo, che fu effettivamente occupata, ma solo per tre giomi, dai fuorusciti ghibellini e dai suoi connestabili. Anche dopo l'infelice tentativo, la minaccia dell'A. gravò su Viterbo per parecchio tempo.
Nel 1460 l'A. sfruttò a suo vantaggio il grave stato di disordine creatosi nello Stato della Chiesa in seguito alla guerra fra Renato d'Angiò e Ferrante d'Aragona per il trono di Napoli, nella quale il pontefice Pio II era alleato dell'aragonese. L'A., naturalmente, appoggiò Renato e strinse una lega con Iacopo Piccinino, capitano dell'esercito angioino, che s'era stabilito nel Lazio e da Palombara minacciava direttamente Roma. Quindi, agendo in modo del tutto indipendente, conquistò Tolfanuova e saccheggiò Scrofano, ambedue feudi degli Orsini, compì numerose incursioni sulle strade che conducevano a Roma e, infine, nell'ottobre, conquistò il castello di Anguillara, che spettava ai nipoti, figli di suo fratello Dolce.
Nel 1461, secondo quanto afferma Pio II nei suoi Commentarii, l'A. partecipò ad una congiura che mirava all'uccisione dello stesso pontefice. Ma essa fallì; subito dopo, la fine della guerra per Napoli, conclusasi nel 1462, lo privò dell'appoggio del Piccinino, e lo costrinse quindi a ritirarsi nei propri feudi.
Il periodo 1454-60 fu, in effetti, quello in cui l'A. raccolse le maggiori soddisfazioni e si trovò più vicino alla sua meta: la creazione di uno stato indipendente nel Patrimonio. Intorno a lui s'erano raccolti tutti i nemici della dominazione pontificia, molti banditi che spadroneggiavano nel Patrimonio, parecchi nobili minori; a lui guardavano i ghibellini fuorusciti delle città della Tuscia e del Lazio e perfino i Romani vagheggianti la repubblica e ancora memori del Porcari. Il fatto dunque che, malgrado questi numerosi consensi, malgrado l'ampiezza dei suoi domini e la sua personale capacità militare, l'A. non sia riuscito, neppure m un periodo di così grave crisi per lo Stato della Chiesa, a crearsi una signoria indipendente, merita una spiegazione. Ed essa è forse da ricercarsi, da una parte nelle arretrate condizioni sociali ed economiche del Patrimonio, che bloccarono i grandi feudatari, e l'A. in particolare, nei muniti domini di campagna, senza permettere loro l'inserimento nella vita politica delle città e l'assorbimento delle città nei loro domini; dall'altra nella presenza di forze politiche potenti, che contrastarono in ogni modo e in ogni momento i disegni dell'A.: la Chiesa, gli Orsini, i guelfi delle varie città del Patrimonio. Si aggiunga a tutto ciò il fatto che l'A. non riuscì mai a coltivare alleanze fuori del ristretto, mondo laziale e in nessun momento riuscì ad inserirsi autorevolmente nel complesso gioco politico italiano.
Nel 1463 l'A. era rinchiuso nei suoi castelli "pavidus tremensque", come dice con disprezzo Pio II. Morì il 4 sett. 1464.
Fonti e Bibl.: Cronache di Viterbo e di altre città scritte da Niccolò Della Tuccia, in Cronache e Statuti della città di Viterbo, a cura di I. Ciampi, Firenze 1872, pp. 57, 61, 66, 73, 259 s; Diario della città di Roma di Stefano Infessura, a cura di O. Tommasini, in Fonti per la storia d'Italia, V, Roma 1890, pp. 40, 58, 59, 62, 67, 69, 154, 169; La mesticanza di Paolo di Lello Petrone, in Rerum Italicarum Script., 2 ediz. XXIV, 2, a cura. di F. Isoldi, pp. 15, 28; C. Massimo, Cenni storici sulla Torre Anguillara in Trastevere, Roma 1847, pp. 10-16; C. Pinzi, Storia della città di Viterbo, III, Viterbo 1899, pp. 607 ss.; IV, ibid. 1913, pp. 20-24, 95-97, 152, 162-165, 209 s.;. V. Sora, I conti di Anguillara, in Arch. d. soc. romana di storia patria, XXX(1907), pp. 53-88 (con ulteriori indicazioni bibliografiche); L. v. Pastor, Storia dei Papi, I, Roma 1925, passim; II, ibid. 1925, pp. 391 s.; F. Gregorovius, Storia della città di Roma nel medio evo, XIII, Città di Castello 1944, passim e in partic., pp. 168 s, 257 s.; P. Paschini, Roma nel Rinascimento, Bologna 1940, pp. 127, 135, 140, 142, 147-49, 151, 171, 185, 192-95, 201, 202, 204, 207, 211, 222, 223, 284.