EVEMERO (Εὐήμερος, Euhemĕrus)
Scrittore greco, nato, secondo la tradizione più attendibile, a Messene: incerto però è se si tratti della Messene di Sicilia o di quella del Peloponneso. Se è vera, e non partecipe del carattere romanzesco dell'opera nella cui introduzione essa appare, la sua asserzione di esser contemporaneo di Cassandro, la vita di E. può essere approssimativamente collocata tra il 340 e il 260 a. C. Quest'opera, che è l'unica di cui abbiamo notizia e da cui derivò del resto tutta la sua fama, è la ‛Ιερὰ ἀναγραϕή ("Sacra scrittura", nel senso di "descrizione delle cose sacre": Sacra scriptio o Sacra historia - secondo il senso greco di ἱστορία - nella tradizione latina: erronea è invece l'ipotesi di alcuni interpreti, che il titolo derivi dalla sacra iscrizione di cui si parla nell'opera, perché ἀναγραϕή non può aver tale significato). Secondo la probabile datazione che si può derivare da Callimaco, essa fu pubblicata intorno al 280. Se ne conservano non molti frammenti: pochissimi quelli dell'originale greco; in numero maggiore, grazie specialmente alle citazioni di Lattanzio, quelli della versione latina di Ennio, che peraltro è talora non solo traduzione ma anche rielaborazione.
La Sacra scriptio aveva il carattere di un'opera di filosofia politica costruita su schema utopistico, ed era quindi per questo rispetto simile agli analoghi scritti di Teopompo ed Ecateo. Vi era immaginato un viaggio nell'Oceano Indiano, nel quale, circumnavigata l'Arabia, si raggiungeva un gruppo d'isole: nella descrizione di tutto ciò, E. mirava sì a serbare il tono esotico, ma evitando accuratamente di far uso di ogni elemento meraviglioso, che avesse potuto render meno credibile il suo racconto. Nella principale di queste isole, Panchaia (Πάγχαια), E. trovava realizzato il suo stato ideale: un sistema collettivistico, alieno però da ogni forma estrema che avesse potuto (anche qui) farlo sembrare meno accettabile, e in cui quindi il collettivismo era assai attenuato (provento doppio per gli appartenenti alla classe dei sacerdoti, premî ai migliori artigiani, possesso privato delle case e dei giardini, permanenza dell'istituzione familiare e nessuna comunanza o emancipazione delle donne). Tre erano le classi: sacerdoti-artigiani, coltivatori e soldati.
Ma questa costruzione politica doveva essere per E. d'interesse secondario rispetto a quelle dottrine intorno all'origine degli dei, che poi determinarono soprattutto la sua fama. Queste dottrine, narrava E., erano iscritte in una stele antichissima del tempio di Zeus Trifilio, nella forma d'una storia delle gesta divine. L'iscrizione era stata fatta scolpire da Zeus, secondo il costume dei re asiatici, a perpetuo ricordo delle proprie opere: e di fatto gli dei non erano stati che potenti della terra, i quali avevano saputo attribuirsi, sulla terra, natura e adorazione divina. Tale il concetto fondamentale della critica teologica di E., che determinò già nell'antichità quella spiegazione "evemeristica" del divino, la quale si poneva accanto, come razionalismo storico-politico, al razionalismo naturalistico o moralistico dell'allegoresi stoica. E. applicava cosi audacemente alla sfera superiore del divino quella critica che già gli storici greci, a cominciare da Ecateo, avevano esercitato nel campo del mito eroico: seguendo per ciò, anche, motivi già fatti valere dalla critica greca a proposito della teologia egiziana. In ciò non era, d'altronde, nulla di propriamente ateistico: su una falsa valutazione si basò quindi l'antica inserzione di E. nel catalogo degli ἄϑεοι, e così anche quell'idea del suo discepolato presso Teodoro Ateo, che è l'unico fondamento per la sua connessione con la scuola cirenaica.
Ediz.: F. Jacoby, in Die Fragm. d. griech. Hist., I, p. 300 segg.
Evemerismo. - Se Evemero ebbe con ogni probabilitȧ come precursore Ecateo, le sue idee ebbero tuttavia larga diffusione, non tanto fra gli scrittori e i pensatori pagani, quanto nell'apologetica giudaica e cristiana. Callimaco, Eratostene, Plutarco combatterono infatti l'evemerismo; tuttavia qualche scrittore si mise sulle orme di Evemero, come Leone di Pella a cui risale una falsa lettera di Alessandro Magno a Olimpia (in Müller, Fragm. histor. gr., II), Dionisio Skytobrachion, citato da Diodoro Siculo (III, 56, 2-5; 70, 7-8, ecc.) ed Erennio Filone (Sanchuniathon, in Eusebio, Praep. evang., I, 9) i quali tutti ravvisarono, negli dei di varî popoli, antichissimi incivilitori o benemeriti dell'umanita, divinizzati dalla riconoscenza dei contemporanei o dei posteri.
Di questa teoria, che poteva essere tanto più facilmente accolta in un'epoca nella quale si riconosceva la divinità dei sovrani, morti e viventi, si valsero gli apologisti del giudaismo, i quali dovevano da una parte dimostrare ai pagani la falsità del politeismo e dell'idolatria, dall'altra spiegarne a sé stessi l'origine. Così, accanto alle testimonianze, autentiche o fittizie, rese da autori classici (specialmente i tragici) al Dio unico, fu raccolto e utilizzato quanto serviva a dimostrare che gli dei del paganesimo erano in realtà semplici uomini e come tali indegni di venerazione. Tracce dell'influsso che Evemero esercitò su questi scrittori si ritrovano negli Oracoli sibillini (III, 110 segg.) e nella Sapienza (XIII-XIV), dove, con molta finezza psicologica, si spiega come un padre potesse procurarsi dapprima l'immagine d'un figlio morto (cfr. la divinizzazione del figlio, morto giovinetto, di Tolomeo III; v. Dittenberg, Orient. inscript., 56, 46-75) o come si desiderasse avere l'immagine d'un re benefico, indi a poco a poco si passasse alla venerazione e al culto vero e proprio. Su un motivo psicologico simile si fondano alcuni scrittori pagani (Dio Chrys., Orat., XII, 61; Mass. Tyr., Diss., II, 10) quando asseriscono la necessità per l'uomo di avere un'immagine della divinità, che lo assicuri della presenza di questa.
D'altra parte, l'evemerismo penetrò abbastanza presto nella cultura romana, grazie a Ennio, che tradusse la Sacra historia (frammenti in Lattanzio, Inst. div., I, xi, 45-48, 63 e 65; xiii, 2 e 14; xiv, 1-8 e 10-12; xvii ,10; xxii, 21); e, se non largamente accolto, non pare nemmeno che vi fosse combattuto (cfr. Cic., De nat. deor., I, 42, 118-119; III, 21, 53; Tusc., I, 29).
Sia attraverso gli apologisti del giudaismo che scrissero in greco. sia attraverso la tradizione latina, la dottrina evemeristica passò poi nell'apologetica cristiana. Abbiamo notato come Eusebio di Cesarea raccogliesse passi di Erennio Filone, e Lattanzio di Ennio; lo stesso Lattanzio nota la somiglianza tra le asserzioni di questo e della Sibilla. Teofilo Antiocheno cita Evemero (Ad Autol., III, 7) e usa largamente gli Oracoli sibillini; il passo di questi ricordato sopra ricorre in Tertulliano (Ad nat., II, 12) in un contesto che presenta stretta analogia con Minucio Felice, il quale (Octavius, XX, 5-6 e XXI) inoltre menziona Evemero, Prodico di Ceo, lo pseudo-Alessandro Magno, Nipote, Cassio, Tallo e Diodoro. Quest'ultimo, là dove cita Evemero (I, 12 seg.; V, 41-46; VI, 1) è ricordato anche in una recensione degli Atti di S. Caterina d'Alessandria (in Patrol. Gr., CXXI) dove la santa tiene un discorso contro il paganesimo, che risale, se non a una vera e propria apologia perduta, a materiale apologetico o a tradizioni, note d'altra parte anche a Giovanni Malala (II, 55).
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