Evangelista Torricelli
Tra i più originali e dotati discepoli di Galileo Galilei, di cui fu successore nella carica di matematico del granduca di Toscana, Evangelista Torricelli è noto soprattutto per l’invenzione del barometro a mercurio, ma ottenne fondamentali risultati anche in matematica, cinematica, statica, idrodinamica e ottica.
Poche e imprecise le notizie sulla vita di Evangelista Torricelli: nacque a Roma il 15 ottobre del 1608, primo dei tre figli di Gaspare Ruberti, muratore originario di Bertinoro, vicino Cesena, e di Giacoma Torricelli, discendente da una famiglia latifondista proprietaria della Torricella, podere agricolo nei pressi di Faenza. Evangelista, che al pari del fratello Francesco assunse il cognome della madre, fu affidato alle cure di uno zio materno, il monaco camaldolese don Jacopo, parroco dell’abbazia di S. Ippolito, a Faenza (Bertoni 1987). Fra il 1625 e il 1626 Evangelista fece ritorno a Roma, dove divenne allievo di Benedetto Castelli, titolare della cattedra di matematica presso lo Studium Urbis.
Nella sua prima lettera a Galilei, datata 11 settembre 1632 e scritta in veste di segretario di Castelli, Torricelli raccontava di aver studiato per due anni «sotto la disciplina delli padri gesuiti» e di essere ormai da sei anni allievo di Castelli. Il Dialogo sopra i due massimi sistemi era stato pubblicato da pochi mesi e Torricelli riferiva di essere stato il primo in Roma ad averlo studiato «minutissimamente e continuamente», con tutto il gusto che poteva trarne
uno che, già avendo assai bene praticata tutta la geometria, Apollonio, Archimede, Teodosio, et che havendo studiato Tolomeo et visto quasi ogni cosa del Ticone, del Keplero e del Longomontano, finalmente adheriva, sforzato dalle molte congruenze, al Copernico, et era di professione e di setta galileista (cit. in G. Galilei, Carteggio 1629-1632, in Le opere, Ed. nazionale a cura di A. Favaro, 14° vol., 1904, pp. 387-88).
Anche se ragioni di prudenza portarono Torricelli ad astenersi dal trattare nei suoi scritti di questioni cosmologiche, egli continuò in privato a coltivare l’interesse per l’astronomia (Galluzzi, in La scuola galileiana. Prospettive di ricerca, 1979).
Fra il novembre del 1632 e l’inizio del 1641, viaggiò per l’Italia centrale al seguito di monsignor Giovanni Ciampoli. In questo periodo approfondì la preparazione matematica e iniziò a studiare il moto dei gravi. Quando nel febbraio 1641 fece ritorno a Roma, aveva già redatto buona parte del De motu gravium naturaliter descendentium et proiectorum, che sarebbe stato pubblicato nel 1644 negli Opera geometrica, l’unico volume dato alle stampe dallo scienziato durante la sua vita. Nel marzo 1641 Castelli mostrò il De motu a Galilei, che fu così colpito dal rigore dimostrativo dell’opera, da esprimere il desiderio di avvalersi della collaborazione del giovane scienziato. Torricelli accettò con entusiasmo l’invito, ma si vide ripetutamente costretto a rimandare la partenza. Nell’ottobre 1641 arrivò finalmente ad Arcetri, dove assistette il maestro nella stesura della Giornata quinta da aggiungere ai Discorsi. Alla morte di Galilei (8 genn. 1642) Torricelli si vide offrire l’incarico di lettore di matematiche nello Studio fiorentino e di matematico del granduca Ferdinando II (Giusti 1989). Nella primavera dello stesso anno fu nominato membro dell’Accademia della Crusca e agli inizi del 1644 ottenne anche la cattedra di fortificazioni militari presso l’Accademia del disegno di Firenze.
Nel periodo fiorentino si dedicò a ricerche di matematica, cinematica, ottica e pneumatica. Ottenne ingenti guadagni dalla costruzione di pregevoli lenti. A Torricelli si deve anche l’invenzione del microscopio ‛a perlina’, che si sarebbe rivelato prezioso per i biologi (Belloni 1972). Torricelli stava lavorando alla stesura del Racconto di alcuni problemi proposti e passati tra i matematici di Francia et il Torricelli, quando fu sorpreso da una malattia virulenta che in pochi giorni lo portò alla morte. Si spense a Firenze il 25 ottobre del 1647 a soli 39 anni. Prima di morire Torricelli espresse il desiderio di ricevere «una sepoltura onorata» in S. Lorenzo a Firenze, desiderio che i canonici della chiesa non vollero onorare. Il corpo dell’illustre discepolo di Galilei venne provvisoriamente tumulato nella cripta della chiesa, in un deposito comune. Per una serie di sfortunate circostanze la salma di Torricelli non venne più riesumata e finì dispersa tra gli altri resti mortali.
Non migliore fu il destino toccato alle sue opere inedite. Lodovico Serenai, suo esecutore testamentario, tentò invano di convincere Michelangelo Ricci (1619-1682) e Raffaello Magiotti (1597-1656) a curarne la stampa. A sobbarcarsi il gravoso compito fu infine Vincenzo Viviani (1622-1703), il quale morì senza portare a termine l’impresa. Bisognerà aspettare il terzo centenario della nascita di Torricelli perché si avvii un’edizione completa, anche se non molto attendibile dal punto di vista filologico e scientifico, delle Opere di Evangelista Torricelli, che vedrà la luce tra il 1919 e il 1944.
Il De motu gravium naturaliter descendentium et proiectorum è articolato in due libri, il primo dedicato alla discesa dei gravi lungo piani inclinati, corde di cerchi e archi di parabola, il secondo alla traiettoria di proietti lanciati con diverse inclinazioni. Nelle pagine di apertura Torricelli riconosce il proprio debito nei confronti della teoria del moto esposta da Galilei nei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (1638), e dichiara di avere come obiettivo principale quello di fornire una dimostrazione del postulato dei piani inclinati, sul quale si fonda l’intera analisi galileiana del moto di caduta. A premessa della propria dimostrazione egli pone un principio, conosciuto come principio di Torricelli, secondo il quale «due gravi congiunti assieme non possono muoversi da sé, se il loro comune centro di gravità non si abbassa» (Capecchi, Pisano 2007, pp. 1-29). Torricelli diede un notevole contributo al perfezionamento della geometria degli indivisibili; tuttavia scelse, a differenza di Galilei, di non applicare tale metodo allo studio del moto dei gravi, ma di servirsi unicamente di un procedimento di prova «meccanico», basato sull’idea che le velocità di corpi di uguale mole siano direttamente proporzionali ai momenti di gravità degli stessi corpi (Giusti 1990). In un’appendice al libro secondo, intitolata De motu aquarum, Torricelli formula una legge che porta ancor oggi il suo nome, secondo la quale le quantità d’acqua che scorrono in tempi uguali attraverso un foro praticato alla base di un recipiente stanno fra loro come le radici quadrate delle altezze del liquido in esso contenuto (Blay 1985).
Dopo la pubblicazione degli Opera geometrica, Marin Mersenne, anche a nome di Descartes e Gilles Personne de Roberval, criticò la teoria galileiana dell’accelerazione, che riteneva non confermata dalle esperienze. Dopo uno scambio di lettere, Torricelli troncò la discussione. All’amico Ricci dichiarò nel 1646 di non essere interessato a stabilire se i principi della dottrina de motu fossero veri, poiché, anche in caso contrario, si potevano comunque considerare tutte le conseguenze da essi derivate come cose «pure geometriche» (Le opere dei discepoli di Galileo Galilei, a cura di P. Galluzzi, M. Torrini, 1° vol., Carteggio 1642-1648, 1975, p. 276). Torricelli restò però intimamente convinto della verità di quei principi.
Per ciò che attiene alle matematiche, il principale contributo di Torricelli è rappresentato dallo sviluppo del metodo cavaleriano degli indivisibili, del quale sfruttò le potenzialità, senza porsi molte domande sulla sua legittimità teorica. In risposta a chi, come il gesuita Paul Guldin, tacciava il metodo degli indivisibili di essere poco rigoroso, faceva notare che i matematici antichi per dimostrare i loro teoremi più difficili avevano seguito una via occulta, analoga a quella cavaleriana, e che si erano poi serviti del metodo di esaustione per verificare e dimostrare le loro conclusioni.
Gli Opera geometrica, pubblicati nel 1644, contenevano, oltre al De motu, altri due trattati: il De dimensione parabolae, solidique hyperbolici problemata duo e il De sphaera et solidis sphaeralibus libri duo. Nel De dimensione parabolae figurano ben 21 dimostrazioni del teorema della quadratura della parabola, dieci basate sul metodo archimedeo di esaustione, ovvero della doppia riduzione all’assurdo, e undici basate su quello degli indivisibili, metodo più diretto e veloce. Torricelli non si limitò ad applicare il metodo cavaleriano, ma lo ampliò, introducendo accanto agli indivisibili lineari anche indivisibili curvi. Attraverso il confronto tra gli indivisibili curvi di una figura (per es., le circonferenze concentriche di un cerchio) e gli indivisibili rettilinei di un’altra figura (per es., le linee parallele alla base di un trapezio) Torricelli derivò il rapporto fra le aree delle figure stesse. Estendendo tale metodo ai solidi, ottenne uno dei risultati più importanti della sua carriera di matematico, ovvero il calcolo del volume del solido iperbolico acuto, figura tridimensionale di lunghezza infinita, ma di volume finito, ottenuta facendo ruotare un ramo di iperbole attorno al proprio asintoto (Mancosu, Vailati 1991, pp. 50-70). Nell’appendice al De dimensione parabolae vi è una soluzione dell’annoso problema della quadratura della cicloide, la curva descritta da un punto fisso di un cerchio che rotoli, senza strisciare, sulla tangente. Torricelli dimostra, due volte con il metodo degli indivisibili e una volta con il metodo di esaustione, che lo spazio compreso fra la cicloide e la sua retta di base è triplo del cerchio generatore.
Nel De sphaera et solidis sphaeralibus libri duo Torricelli estende la teoria archimedea della sfera e del cilindro a tutte le specie di solidi generati dalla rotazione di poligoni regolari sia iscritti sia circoscritti alla sfera. Dopo aver mostrato la costruzione di tali solidi, Torricelli li classifica in sei gruppi studiandone le proprietà.
Nell’estate del 1643 Torricelli inviò, per il tramite di Ricci, alcune delle sue dimostrazioni al matematico francesce Jean-François Niceron, il quale a sua volta le fece conoscere a Mersenne, Pierre Fermat e Roberval. Il rapporto di collaborazione con i matematici d’oltralpe si interruppe nel 1646, quando Roberval rivendicò la priorità della scoperta della quadratura della cicloide, accusando Torricelli di plagio.
Negli ultimi anni della sua vita Torricelli sviluppò in maniera originale il metodo cavaleriano introducendo indivisibili che sono in realtà degli «infinitamente piccoli», nel senso che hanno lo stesso numero di dimensioni del continuo di cui fanno parte e non una dimensione in meno come gli indivisibili di Bonaventura Cavalieri. La caratteristica fondamentale di questi nuovi indivisibili è che essi non sono necessariamente uguali fra loro: un punto può essere infatti più grande di un altro punto, una linea più larga di un’altra linea e una superficie più larga o più spessa di un’altra superficie. Fu attraverso lo studio di tali differenze che Torricelli risolse problemi lasciati irrisolti da Cavalieri, quali, per es., quelli relativi alla determinazione delle tangenti di curve o al confronto di lunghezze di archi (De Gandt 1992). In una lettera a Ricci del 7 aprile 1646, Torricelli si serve di questi indivisibili nell’enunciare il teorema universale che permette di determinare il centro di gravità tanto delle figure piane quanto di quelle solide (Gliozzi 1977).
Torricelli è noto soprattutto per l’esperimento barometrico, eseguito nel 1644 a Firenze con la collaborazione di Viviani. Per comprendere a pieno il senso di tale esperimento occorre tornare al luglio 1630, quando Giovanni Battista Baliani, in una lettera a Galilei, chiese una possibile spiegazione del perché a Genova non si fosse riusciti per mezzo di un sifone di rame ad aspirare acqua fino alla sommità di una collina di 20 metri (G. Galilei, Carteggio 1629-1632, in Le opere, Ed. nazionale a cura di A. Favaro, 14° vol., 1904, pp. 124-25). Nella risposta, Galilei spiegava che se l’acqua poteva «per impulso» essere spinta a qualunque altezza, «per attrazione» non poteva essere aspirata oltre le 20 braccia, ovvero 12 metri (pp. 127-29). Tale stima fu corretta per difetto nella prima giornata dei Discorsi, dove Galilei raccontava di avere sperimentato che
il prefisso termine dell’altezza alla quale qualsivoglia quantità d’acqua, siano cioè le trombe larghissime o strette o strettissime quanto un fil di paglia poteva sostentarsi era di diciotto braccia (G. Galilei, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attenenti alla meccanica e i movimenti locali, in Le opere, cit., 8° vol., 1898, pp. 63-64).
Sia nella lettera a Baliani sia nei Discorsi, Galilei paragonava il comportamento della colonna d’acqua a quello di un cilindro solido che si spezzava sotto l’effetto del proprio peso, ma precisava che l’acqua, le cui parti erano tenute insieme dalla sola resistenza al vacuo, si rompeva più facilmente che i solidi.
Per verificare l’ipotesi di Galilei, Gasparo Berti ideò un esperimento di cui ci sono pervenute diverse descrizioni. Secondo Magiotti, Berti fece allestire nel cortile della sua casa romana un apparecchio formato da un tubo di piombo alto più di undici metri aperto all’estremità inferiore e chiuso all’estremità superiore da un’ampolla di vetro nella quale si poteva infondere acqua. Alla presenza di numerosi testimoni, Berti appurò che se la base del tubo era immersa in un recipiente più grande, anch’esso contenente acqua, il liquido versato attraverso l’ampolla scendeva di livello fino a raggiungere un’altezza di circa nove metri, corrispondenti alle 18 braccia indicate da Galilei. Torricelli comprese che il fenomeno non era dovuto alla ripugnanza della natura all’ammettere il vuoto (come affermato nei Discorsi), ma alla pressione esercitata dall’aria sul liquido sottostante. Escogitò un sistema più semplice per misurarla: utilizzò al posto dell’acqua l’argento vivo che, avendo un peso specifico di 13,5 volte superiore, consentiva l’uso di un apparato sperimentale di dimensioni ridotte.
In una lettera a Ricci dell’11 giugno 1644, Torricelli descriveva in dettaglio la «sperienza filosofica intorno al vacuo», compiuta «non per far semplicemente il vacuo, ma per fare uno strumento che mostrasse le mutuazioni dell’aria, hora più grave e grossa, et hora più leggiera e sottile». La resistenza incontrata «nel voler fare il vacuo» veniva infatti interpretata da Torricelli come l’effetto quantificabile della gravità dell’aria (Le opere dei discepoli di Galileo Galilei, cit., 1° vol., 1975, p. 100).
Torricelli raccontava poi a Ricci di aver fatto costruire vasi di vetro dal collo lungo circa due braccia, di averli riempiti completamente di argento vivo, in modo da togliere tutta l’aria in essi racchiusa, e di averli poi capovolti e immersi in un recipiente contenente anch’esso metallo liquido. Indipendentemente dal diametro dei tubi di vetro, l’argento vivo si era sempre abbassato a formare una colonna alta «un braccio, e un quarto, e un dito di più» (circa 76 centimetri). Torricelli interpretava tale fatto come un segno «quasi certo» che la forza misurata dalla colonna di mercurio fosse esterna al vaso e non interna. Riconobbe che l’esperienza barometrica non consentiva di «conoscere quando l’aria fusse più grossa e grave e quando più sottile e leggera», dato che l’altezza della colonna di mercurio variava anche per «un’altra causa (che io non credevo mai), cioè per il caldo e freddo e molto sensibilmente» (Le opere dei discepoli di Galileo Galilei, cit., 1° vol., 1975, pp. 122-23).
L’esperimento torricelliano produsse vivaci discussioni fra coloro che ammettevano la possibilità del vuoto e coloro che la negavano (de Waard 1936). Anche se nella lettera a Ricci Torricelli aveva sostenuto che la colonna di mercurio, scendendo, lasciava uno spazio vuoto, in seguito non intervenne nel dibattito. La decisione di non pronunciarsi sull’esistenza del vuoto è stata interpretata come segno di disinteresse per questioni filosofiche, ma anche come atteggiamento prudenziale: Torricelli avrebbe evitato di intervenire nel dibattito sul vuoto per non compromettere i propri rapporti con i gesuiti (Galluzzi, in La scuola galileiana. Prospettive di ricerca, 1979). In una lettera del 18 giugno 1644 Ricci, nel riportare l’opinione di teologi convinti che «neppure l’Onnipotenza Divina poteva operare in modo che si desse questo spazio vuoto», esprimeva comprensione per Torricelli, nauseato
dal costume […] di meschiar subito le cose di Dio ne’ ragionamenti naturali, dove che quelle dovrebbono con maggior rispetto e riverenza esser trattate (Le opere dei discepoli di Galileo Galilei, cit., 1° vol., 1975, p. 126).
Nell’estate del 1644 Ricci mostrò le lettere di Torricelli all’ambasciatore francese presso la Santa Sede, François du Verdus, il quale a sua volta le trasmise a Mersenne e a Niceron. In Francia l’esperimento torricelliano suscitò grande interesse e molti si impegnarono a cercare ulteriore conferma del ruolo svolto dalla pressione atmosferica nei fenomeni pneumatici. Adrien Azout, Roberval e Blaise Pascal realizzarono la cosiddetta esperienza del vuoto nel vuoto, volta a mostrare che, se il barometro torricelliano era posto in un ambiente privo di aria, il mercurio non saliva a formare una colonna, ma rimaneva nella bacinella. La conferma definitiva del fatto che l’altezza della colonna di mercurio variava al variare della pressione atmosferica venne dalla celebre esperienza che nel settembre 1648 Pascal compì assieme al cognato Florin Périer sulla montagna del Puy-de-Dôme.
In Italia furono gli Accademici del Cimento a raccogliere l’eredità torricelliana. I Saggi di naturali esperienze, pubblicati nel 1667, sono in gran parte dedicati al resoconto di esperienze appartenenti «alla naturale pressione dell’aria», «alla compressione dell’aria» e di «esperienze fatte nel vuoto».
Opera geometrica. De sphaera et solidis sphaeralibus libri duo […]. De motu gravium naturaliter descendentium et proiectorum libri duo. De dimensione parabolae, solidique hyperbolici problema duo, Florentiae 1644.
Lezioni accademiche, Firenze 1715.
Opere di Evangelista Torricelli, a cura di G. Loria, G. Vassura, 4 voll., Faenza 1919-1944.
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L. Belloni, Il microscopio applicato alla biologia da Galileo e dalla sua scuola (1610-1661), in Saggi su Galileo Galilei, a cura di C. Maccagni, 3° vol., Firenze, 1972, pp. 689-730.
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