Eutanasia
In diversi Paesi occidentali, ma non ancora in Italia, il dibattito sulla liceità morale e le prospettive legali dell'e. e del suicidio medicalmente assistito si è orientato, grazie ai risultati scaturiti da esperienze concrete, in senso meno emotivo e ideologico. Sono stati condotti infatti studi empirici sulle decisioni che i medici assumono nelle fasi terminali della vita dei pazienti, e sulle aspettative dei malati terminali per quanto riguarda i trattamenti e la qualità degli ultimi momenti della loro esistenza. Inoltre, alcuni Paesi hanno optato in favore di norme che consentono al medico di aiutare un paziente a morire. I medici, attraverso prese di posizione personali o delle associazioni, stanno altresì accettando in modo sempre più diffuso di discutere il loro ruolo. Di conseguenza, il confronto filosofico tra chi è favorevole e chi è contrario su basi etico-religiose deve fare i conti con una serie di dati empirici, e quindi con la necessità di trovare risposte a domande e problemi di rilevanza personale e sociale.
Nessuna dottrina morale o religione è ormai contraria all'idea che alle persone allo stadio terminale di una malattia si debba riconoscere il diritto di non subire trattamenti che prolunghino soltanto le sofferenze fisiche e psicologiche. Nondimeno, in alcuni Paesi, tra cui l'Italia, non è ancora possibile sottoscrivere direttive anticipate di trattamento. A seconda dei Paesi, il diritto di non soffrire e di morire con dignità ha implicazioni diverse: in alcuni il medico può aiutare a suicidarsi o mettere fine attivamente alla vita di persone che lo richiedono consapevolmente, ma anche di individui che non sono in grado di chiederlo, come, per es., neonati destinati a morire o a vivere in condizioni di grave sofferenza fisica e psichica o soggetti in coma vegetativo permanente.
Gli studi empirici sulle scelte di fine vita mostrano che la morte assistita è una pratica abbastanza diffusa in tutto l'Occidente, con proporzioni che vanno dall'1 al 3,5% di tutte le morti. Ovviamente bisogna tenere conto del fatto che nei Paesi dove l'e. e il suicidio assistito non sono legali, i medici sono meno propensi ad ammettere di praticare interventi, su richiesta o meno del paziente, che accelerano o provocano direttamente la morte. In Italia, la scelta di alleviare i sintomi e il dolore con la conseguenza di accelerare la morte riguarda il 19% di tutte le morti. È abbastanza comune anche in Italia la sedazione terminale, vale a dire un trattamento palliativo con l'interruzione dell'alimentazione che sopprime lo stato di coscienza e affretta la morte. È significativo il fatto che nei Paesi in cui l'e. e il suicidio assistito sono legali le decisione mediche da prendere nelle fasi terminali vengono quasi sempre discusse con il paziente o con i parenti, mentre in un Paese come l'Italia, dove tali pratiche sono vietate, in più del 50% dei casi le decisioni non vengono discusse né con il paziente né con i familiari.
L'e. volontaria, vale a dire a fronte della richiesta esplicita del paziente, è legale solo in Olanda e Belgio, essendo stata revocata dal Parlamento federale dell'Australia nel 1997 la legge emanata nel 1996 nel Territorio del Nord, che consentiva l'e. volontaria. Dal 1° aprile 2002 è in vigore in Olanda una legge che consente l'e. e il suicidio assistito dal medico date precise circostanze e sulla base di una rigida procedura, e che codifica una pratica già tollerata e consentita da anni passando attraverso il giudizio di un tribunale. La ratio della legge era di rendere trasparente la pratica, in quanto i medici erano riluttanti a denunciare i casi in regime di depenalizzazione, e consentire l'applicazione di criteri uniformi nel valutare le situazioni in cui il medico mette fine alla vita di un malato, ovvero per garantire la massima attenzione nel procedere all'eutanasia. L'e. rimane illegale per i pazienti al di sotto dei 12 anni (mentre tra i 12 e i 16 serve il consenso dei genitori), ma - sulla base di dati che mostrano come più del 50% dei decessi di neonati e bambini negli ospedali dei Paesi Bassi e del Belgio è dovuto alla scelta di porre fine alle loro sofferenze, interrompendo o rifiutando una terapia o somministrando un farmaco letale - è stato proposto un protocollo (Groningen protocol) che stabilisce le condizioni per cui può essere giudicato compassionevole e quindi moralmente accettabile praticare l'e. di un bambino, senza che il medico venga incriminato.
Il 28 maggio del 2002 il Parlamento del Belgio ha legalizzato l'e., e la legge è entrata il vigore il 23 settembre dello stesso anno limitatamente agli adulti consapevoli e ai minori emancipati. Il rapporto della Commission fédérale de contrôle ed évaluation de l'euthanasie, reso pubblico nel settembre del 2004, registra 259 casi dall'entrata in vigore della legge al 31 dicembre 2003. Il rapporto rileva che le e. sono più frequenti al di sotto dei 40 anni e dopo gli 80, e sottolinea l'esigenza di migliorare l'informazione sulla legge tra i medici e a livello pubblico e la preparazione dei medici nell'affrontare i problemi che emergono nelle situazioni di fine vita, inclusa l'eutanasia. Poiché il rapporto sottolinea che il 40% dei casi di e. avviene a domicilio e suggerisce di facilitare tale tendenza, agli inizi del 2005 nelle 240 farmacie belghe della catena Multipharma è stato commercializzato un kit spécial euthanasie disponibile in ventiquattr'ore.
Rimane in vigore, nonostante i ripetuti ricorsi presso la Corte Suprema, la legge dello Stato dell'Oregon Death with dignity act che, dal novembre 1997, consente il suicidio medicalmente assistito (ma non l'e.). In Svizzera, invece, si è mantenuta, senza regolamentarla, la possibilità per il medico, ma anche per chi non è medico, di assistere al suicidio senza incorrere in sanzioni, in base all'art. 115 del Codice penale che prevede la punizione solamente per chi aiuta una persona a suicidarsi per interessi personali, ma non per chi afferma di aver agito altruisticamente.
È degno di nota il fatto che il 1° luglio 2005, dopo un secolo, è caduta l'opposizione contro l'e. della British Medical Association, che ha espresso una posizione neutrale rispetto alla legalizzazione dell'aiuto da parte del medico ai malati terminali che chiedono di morire. La stessa posizione è stata assunta dal Royal College of Phisicians e dal Royal College of General Practictioners. Dal 10 ottobre 2005 il Selected Committee della House of Lords discute il rapporto di Lord J. Joffe Assisted dying for terminally ill bill, che prevede la legalizzazione del suicidio medicalmente assistito.
A livello europeo, a parte la situazione dell'Olanda, del Belgio e della Svizzera, è stato respinto il tentativo di depenalizzare l'e. in Lussemburgo, mentre in Danimarca il comitato etico ha bocciato l'ipotesi di legalizzazione dell'e. nonostante i sondaggi abbiano rilevato un sostegno pubblico. In Francia nel novembre del 2004 l'Assemblea nazionale ha approvato quasi all'unanimità una proposta di legge sulla fine della vita e i diritti dei malati che, al termine dell'iter parlamentare, consentirà ai pazienti affetti da malattia grave e incurabile di rifiutare le cure, e autorizzerà i medici a non praticare atti medici inutili e sproporzionati, e ad alleviare le sofferenze di un malato in fase terminale applicando un trattamento che può avere come conseguenza di accorciare la vita, a condizione di averlo informato. La proposta di legge francese riconosce le direttive anticipate, rendendo possibile per il paziente decidere in anticipo la limitazione e la sospensione dei trattamenti di fine vita.
A livello dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa è stato respinto il rapporto del deputato D. Marty. In questo documento si proponeva di riconoscere che l'e. viene praticata in numerosi Paesi in una misura ben superiore a quella documentata, e si suggeriva di interpretare la Raccomandazione 1418 (1999) - in cui si chiede agli Stati di proteggere il diritto all'autodeterminazione dei malati inguaribili e dei morenti - nella direzione di un consenso al ricorso all'eutanasia. In realtà, la Raccomandazione 1419 (1999) afferma anche che "il desiderio di una persona terminalmente malata o morente non può di per sé costituire una giustificazione legale per realizzare azioni intese a causare la morte".
Il monitoraggio delle esperienze di legalizzazione dell'e. e del suicidio medicalmente assistito sta mettendo in evidenza meno difficoltà e abusi di quanto temuto. Nello Stato dell'Oregon, per es., si è visto che il fatto di essere disposti ad aiutare a morire non offende la professione del medico, e i pazienti tendono a scegliere i medici favorevoli al suicidio medicalmente assistito piuttosto che quelli contrari. Inoltre, sono pratica clinica quasi corrente decisioni e atti medici che, al di là delle interpretazioni più o meno capziose, hanno finalità eutanasiche, come la sedazione terminale. Sarebbe quindi più ragionevole portare alla luce quelle che sono le effettive scelte già praticate nelle fasi di fine vita per evitare proprio quegli abusi che vengono associati all'eutanasia.
Stante il fatto che le cure palliative devono essere più accessibili, a garanzia che la richiesta di morire non sia dovuta a una condizione di sofferenza medicalmente trattabile - in Italia nonostante sia in vigore dal 2001 una legge che regolamenta la vendita di oppiacei per la terapia del dolore solo il 3% dei malati terminali riceve cure palliative appropriate -, i medici devono cominciare ad accettare l'idea che i pazienti morenti vivono un'esperienza particolare, e che, se vale il rispetto per la loro autonomia decisionale in relazione al rifiuto di una trattamento salvavita, non può più essere considerato un tabù discutere su come garantire loro un'assistenza per evitare che proprio l'ultima fase della vita sia la più gravosa.
Naturalmente è necessario diversificare gli approcci, in quanto non sempre, ovvero non per tutti i pazienti, l'autodeterminazione e il rispetto per l'autonomia nelle decisioni di fine vita sono una priorità. In realtà solo una parte della popolazione di pazienti compila le direttive anticipate, non tanto per la difficoltà di elaborare formalmente tali direttive, ma perché i pazienti hanno spesso un'idea diversa dell'autonomia rispetto a quella teorizzata dai filosofi morali. Alcune ricerche hanno mostrato che i pazienti manifestano atteggiamenti eterogenei verso l'autonomia intesa come priorità decisionale. Per es., alcuni pazienti non vogliono discutere con il medico le loro preferenze, e uno studio condotto negli Stati Uniti ha rilevato che meno del 50% pensa che decidere il luogo e il momento della morte sia importante, mentre quasi tutti considerano importante "essere trattati come persone complete". Inoltre, l'età e l'origine etnica influenzano l'atteggiamento verso l'autonomia decisionale: gli adulti più anziani tendono ad avere priorità diverse dal prolungamento della vita rispetto ai giovani, mentre gli statunitensi e le popolazioni non caucasiche sono meno interessati a compilare le direttive anticipate e desiderano coinvolgere l'intera famiglia nelle scelte di fine vita.
Allo scopo di garantire che i pazienti possano esercitare un controllo anche sulle fasi terminali della loro vita in cui venga a mancare lo stato di coscienza, circa i trattamenti medici che giudicano compatibili con i loro valori e la loro concezione della dignità della vita si è largamente diffusa negli ultimi due decenni del 20° sec. la pratica delle direttive anticipate di trattamento, il cosiddetto testamento biologico (living will). Le direttive anticipate sono legalmente in vigore in diversi Paesi occidentali, e, per quanto riguarda l'Europa, sono previste all'art. 9 della Convenzione per la protezione dei diritti dell'uomo e la dignità dell'essere umano riguardo le applicazioni della biologia e della medicina, firmata a Oviedo nell'aprile del 1997 dai Paesi membri del Consiglio d'Europa. A seguito di una sentenza della Corte d'appello civile di Milano del 17 ottobre 2003, che negava l'autorizzazione al genitore di una ragazza in stato vegetativo persistente da 13 anni a interrompere l'alimentazione forzata, ma allo stesso tempo segnalava la necessità di una legislazione sul testamento biologico, il Comitato nazionale per la bioetica (CNB) il 18 dicembre 2003 ha licenziato un documento sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento proponendo di varare al più presto una legge sulla base dei punti di merito indicati nel documento. Il disegno di legge nr. 2943, approdato alla Commissione Affari sociali della Camera nel luglio 2005, accoglie le indicazioni del CNB, per cui se da un lato si dà valore giuridico alle dichiarazioni anticipate per tutelare le persone dall'accanimento terapeutico, dall'altro vengono escluse le dichiarazioni di volontà che implichino finalità eutanasiche, ma soprattutto le dichiarazioni anticipate, contrariamente alla manifestazione contestuale di un'autonoma decisione, non sono vincolanti per il medico.
Il punto più controverso, su cui il CNB si è spaccato, riguarda il significato dell'idratazione e dell'alimentazione artificiali in un soggetto in stato vegetativo permanente, se cioè questo intervento si configuri come un atto medico e quindi come una forma di accanimento terapeutico rispetto a cui possono valere le direttive anticipate di trattamento. L'orientamento prevalente nel CNB è stato un'interpretazione nel senso di intervento eutanasico della sospensione dell'idratazione e dell'alimentazione artificiali, che non sono considerate trattamenti medici, per cui le dichiarazioni anticipate non valgono per i soggetti in stato vegetativo persistente. La questione è stata intensamente dibattuta in relazione al caso di e. passiva non volontaria (in assenza cioè della capacità del paziente di decidere) che ha riguardato T. Schiavo, una donna della Florida che ha vissuto per 15 anni in condizioni vegetative, alimentata artificialmente: il marito chiedeva che fosse sospesa l'alimentazione per lasciarla morire, mentre i genitori che fosse tenuta in vita. I giudici hanno dato ragione al marito, e la donna è morta il 1° aprile 2005.
Il caso Schiavo, che negli Stati Uniti ha scatenato la richiesta di informazioni da parte dei cittadini sul testamento biologico, era controverso in quanto mancava testimonianza scritta, e il marito riportava le volontà espresse oralmente. Allo stesso tempo la vicenda ha messo in luce, attraverso l'autopsia che ha dimostrato che la donna non era in alcun modo cosciente e che le lesioni cerebrali erano irreversibili, la necessità di definire più precisamente i danni neurologici associati agli stati vegetativi, e di disporre quindi di maggiori informazioni per dirimere ogni controversia sul livello di coscienza e il grado di irreversibilità del danno, consentendo almeno il diritto di non essere tenuti artificialmente in vita quando non esiste alcuna possibilità di recupero della coscienza.
bibliografia
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