Eugenio Garin
Nella sua lunga attività Eugenio Garin si concentrò anzitutto su due campi di ricerca: l’Umanesimo e il Rinascimento, di cui offrì una nuova interpretazione che ebbe eco a livello mondiale; la storia degli intellettuali italiani fra Ottocento e Novecento, cui dedicò opere diventate dei veri e propri classici. In entrambi i casi intrecciò strettamente filosofia e politica, nella persuasione che le ‘idee’ vadano analizzate, oltre che in se stesse, per la loro funzione sul piano ideologico e per gli effetti che hanno in ambito politico.
Eugenio Garin nacque il 9 maggio del 1909 a Rieti, dove il padre Francesco – filologo classico, allievo di Girolamo Vitelli, morto giovane in seguito alla guerra – si era trasferito da Firenze come insegnante nelle scuole medie. I Garin, di origine savoiarda, erano venuti a vivere e a lavorare in Toscana dopo la costituzione del Regno d’Italia, e a Firenze Garin rimase sempre profondamente legato sia sul piano personale sia su quello scientifico, diventando uno dei massimi studiosi del periodo aureo della civiltà fiorentina. A Firenze compì tutti i suoi studi frequentando prima il liceo Galileo, dove conobbe Maria Soro, di famiglia sarda, che sarebbe poi diventata sua moglie nel luglio del 1930 e con la quale avrebbe collaborato per tutta la vita; poi la facoltà di Lettere e filosofia, alla quale si iscrisse a sedici anni dopo aver ‘saltato’ l’ultimo anno di liceo, come la riforma Gentile consentiva, perché, come scrisse molti anni dopo, aveva «un gran bisogno di far presto» (Una collaborazione lunga una vita, «Belfagor», 1999, 6, p. 731).
Le esperienze e gli incontri fatti in piazza San Marco, dove si trovava la sede della facoltà di Lettere e filosofia, furono per lui decisivi. Qui incontrò professori che incisero profondamente sulla sua formazione e sulla sua personalità: Giorgio Pasquali, al quale rimase sempre intensamente legato e del quale poi divenne anche collega, Francesco De Sarlo e, soprattutto, Ludovico Limentani, il maestro con il quale si laureò con una tesi su Joseph Butler e di cui tenne sempre viva e difese in modo costante la memoria.
Laureatosi in filosofia nel giugno del 1929, fu subito abilitato all’insegnamento e nel 1931 (con Augusto Guzzo in commissione) vinse un concorso a cattedra di filosofia e storia per ‘grandi sedi’, come si facevano ancora, e a metà settembre dello stesso anno fu assegnato al liceo scientifico Stanislao Cannizzaro di Palermo. Agli anni palermitani Garin rimase sempre molto legato anche per gli incontri che ebbe occasione di fare, a cominciare dal «singolare fondatore e direttore» della Biblioteca filosofica, Amato Pojero, «l’amico di Gentile e primo editore dell’Atto puro, il bizzarro filosofo noto dappertutto, sempre teso a cogliere una battuta e a fissarla per scritto» (Una collaborazione lunga una vita, cit., p. 732). Nel 1935 fu trasferito al liceo scientifico Leonardo da Vinci di Firenze e iniziò anche a collaborare con la facoltà di Lettere e filosofia quale libero docente di storia della filosofia e assistente volontario di Limentani, titolare della cattedra di filosofia morale.
Proprio a Limentani successe come ‘incaricato’ dopo che quest’ultimo fu cacciato dalla cattedra a causa delle leggi razziali; ma continuando al tempo stesso a insegnare storia e filosofia presso il Leonardo da Vinci, dove rimase fin quando vinse la cattedra. Come risulta da una lettera del 23 gennaio del 1939, fu proprio Limentani a segnalare Garin per quell’incarico considerandolo uno dei suoi «migliori scolari», degno di succedergli; ma per Garin essere entrato in quel modo nell’università fu motivo di sofferenza e di pena fino agli ultimi anni di vita. Ancora nel 1997 in una lettera a Loretta Pampaloni, che aveva pubblicato un articolo dal titolo E il Duce cacciò Momigliano, continuò a testimoniare «l’amarezza che non abbandonerà mai quei giorni tristissimi», ricordando il modo con cui era succeduto al suo «maestro carissimo Ludovico Limentani» (M. Ciliberto, 1942: Garin, Pico, l’Oratio, introduzione a G. Pico della Mirandola, De hominis dignitate, a cura di E. Garin, 2012, pp. VII-VIII). Dopo essere stato bocciato per tre volte, vinse la cattedra nel primo concorso bandito dopo la Liberazione, insegnando dal 1949, dopo una breve parentesi a Cagliari, presso l’Università di Firenze prima storia della filosofia medievale, poi storia della filosofia, succedendo a Eustachio Paolo Lamanna. Nell’anno accademico 1974-75 passò alla Scuola Normale Superiore di Pisa, dove fu creata per lui la cattedra di storia della filosofia del Rinascimento; e qui concluse la sua carriera, ma continuando a tenere seminari anche negli anni del fuori ruolo, fino a quando, nel 1984, venne collocato a riposo.
Fu cooptato in molte accademie sia italiane sia straniere: nel luglio 1965 fu eletto socio corrispondente dell’Accademia nazionale dei Lincei, di cui il 22 novembre 1979 divenne socio nazionale. Fu anche presidente di molte importanti istituzioni, fra le quali l’Accademia toscana di scienze e lettere La Colombaria, il Lessico intellettuale europeo, l’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento. Alla vita di quest’ultimo partecipò attivamente fin dall’anno della fondazione, collaborando intensamente con la rivista «La Rinascita» diventata poi «Rinascimento» e, dopo aver fatto parte per molti anni del consiglio direttivo dell’Istituto, nel 1979 ne divenne presidente, succedendo a Mario Salmi, fino al 1988, quando gli subentrò il suo allievo Cesare Vasoli. Garin contribuì attivamente alla vita culturale italiana anche collaborando intensamente a varie riviste, fra le quali si possono ricordare: «Leonardo», di cui fu redattore, il «Giornale critico della filosofia italiana», la «Rivista critica di storia della filosofia», «Rinascimento», di cui fu anche a lungo direttore. Fu consulente di importanti case editrici, e in modo particolare della casa editrice Laterza, per la quale diresse, a lungo, le collane dei Classici di filosofia antichi, medievali e moderni. Morì a Firenze il 29 dicembre del 2004.
Tra i più eminenti rappresentanti della filosofia e della cultura filosofica del Novecento – insieme ad altri personaggi d’eccezione come Nicola Abbagnano, Mario Dal Pra, Ludovico Geymonat, Giulio Preti, Norberto Bobbio –, Garin nella sua opera si dedicò anzitutto a un’analisi della filosofia italiana dell’Umanesimo e del Rinascimento; ma queste ricerche, che rappresentano senza alcun dubbio uno dei vertici della sua attività e che lo collocano fra i massimi studiosi di quest’epoca della civiltà italiana ed europea, nacquero da una serie di domande schiettamente filosofiche che, profondamente inserite nel panorama della filosofia europea contemporanea, caratterizzarono fin dalle origini il suo lavoro storiografico.
È perciò riduttivo rinchiuderlo in un genere strettamente storiografico, tanto meno filologico: quello che distingue la sua ricerca storica fu una permanente interrogazione di carattere filosofico entro cui spiccavano in modo particolare la riflessione sulla «condizione umana» e sulla libertà come predicato specifico dell’uomo. Rovesciando un’immagine di tipo tradizionale, quando ci si avvicina alla sua opera occorre dunque guardare anzitutto alle opzioni teoriche da cui essa fu animata e individuare nella continuità di un percorso che si sforzò di essere fedele a se stesso costanti e mutamenti, mostrando come sul tronco di domande comuni venissero volta per volta elaborate differenti risposte.
Se si leggono i suoi primi scritti, e in modo particolare le ricerche su Giovanni Pico (a cominciare dalla importante monografia pubblicata nel 1937), si vedono bene sia i problemi che erano presenti al giovane Garin sia i rapporti che egli stabilì, fin dall’inizio, con le più importanti correnti filosofiche del suo tempo. I suoi interlocutori furono soprattutto pensatori di cultura e di lingua francese, orientati in direzione di un esistenzialismo di carattere religioso. Fra essi vanno citati Louis Lavelle, forse a quella data il più importante dei suoi ‘autori’, René Le Senne, Gabriel Marcel e, sul piano strettamente storiografico, Étienne Gilson, al quale Garin in quegli anni fu particolarmente vicino nella concezione dei rapporti tra Medioevo e Umanesimo, secondo modi e forme che sarebbero però venuti integralmente meno nel prosieguo della sua attività.
Più distanti in questi anni furono invece la filosofia, e anche l’esistenzialismo, di matrice tedesca. A questa ‘tradizione’ era stato avvicinato fin dagli anni dell’università dal suo maestro De Sarlo, che gli aveva fatto leggere anche importanti testi di Edmund Husserl; e, per parte sua, Garin lesse allora i testi principali di Martin Heidegger, come appare dalle pagine finali della Storia della filosofia pubblicata nel 1945, nelle quali il confronto con i temi esistenziali è centrale. Ma, anche in questo periodo, l’interesse di Garin, piuttosto che verso Heidegger – del quale pure analizzerà più tardi con attenzione la Lettera sull’Umanesimo, ma ribadendo con nettezza il suo punto di vista –, si orientò piuttosto verso Ernst Cassirer, autore che gli era noto fin dall’inizio degli anni Trenta e che fu poi uno dei centri della sua riflessione sia teorica sia storiografica.
Negli anni della formazione, Garin fu coinvolto in primo luogo dai pensatori di matrice francese, specialmente da quelli che egli chiamò i «filosofi della libertà» e anche, ma sempre in area francese, da romanzieri e saggisti come André Malraux, l’autore della Condition humaine (1933), che su di lui ebbe un effetto profondo, se è vero che ne ricordò l’importanza per i suoi studi ancora negli anni Novanta del secolo scorso. In effetti quello che interessava Garin, all’epoca e in seguito, era la «condizione umana», che egli fin da allora vide caratterizzata da una tensione costante fra «miseria» e «grandezza», che l’uomo è in grado di risolvere positivamente attraverso l’azione, la praxis, realizzando quel principio della libertà che è il predicato proprio di tale condizione. Sono testi in cui vibrano addirittura toni di tipo pascaliano, e nei quali campeggia l’immagine di Cristo, che si configura come il punto di unità e al tempo stesso di risoluzione concreta di una tensione che è strutturalmente radicale.
L’intreccio di questi temi filosofici con la ricerca storiografica si rivela sia nel libro su Pico sopra citato, sia in un saggio per molti aspetti fondamentale pubblicato nel 1938: La ‘dignitas hominis’ e la letteratura patristica («La Rinascita», 1938, 4, pp. 102-46). Specialmente in quest’ultimo testo appare con chiarezza la distanza del giovane Garin dall’interpretazione del Rinascimento di Giovanni Gentile, che tuttavia si accorse subito dell’importanza delle ricerche del giovane studioso su Pico e su Marsilio Ficino, invitandolo a collaborare al «Giornale critico della filosofia italiana». Ma il saggio su La ‘dignitas hominis’ e la letteratura patristica è importante, oltre che per la particolare interpretazione del rapporto fra il pensiero dei Padri e l’Umanesimo, per il rilievo che già in quegli anni Garin cominciò a dare alle problematiche ermetiche, rilevando l’incidenza esercitata nell’Umanesimo e nel Rinascimento dagli scritti attribuiti a Ermete Trismegisto.
È un punto di speciale rilievo, perché è proprio in quegli anni che, anche grazie alle sue ricerche, cominciò a entrare in crisi il modello interpretativo del Rinascimento elaborato da una lunga tradizione che, muovendo dagli illuministi, arriva fino a Jacob Burckhardt e allo stesso Gentile. Proprio allora iniziò quell’attenzione per le problematiche magiche e astrologiche che caratterizzerà poi gli studi sull’Umanesimo e sul Rinascimento negli anni Cinquanta fino a esplodere negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, dando vita a lavori di prima grandezza come il libro di Frances A. Yates Giordano Bruno and the hermetic tradition (1964), che farà esplicito riferimento ai saggi di Garin sulla magia pubblicati nei primi anni Cinquanta e al peso che essi avevano avuto nella sua ricerca.
A metà degli anni Trenta, riprendendo temi e motivi che erano cominciati a emergere già alla fine dell’Ottocento e si erano consolidati nei primi decenni del Novecento, Garin, insieme a studiosi come Paul Oskar Kristeller, iniziò a riportare alla luce, dopo secoli di oblio, temi e motivi essenziali per comprendere la civiltà umanistica rinascimentale, poi inabissatisi o per mancanza di un autonomo sviluppo o perché consapevolmente e duramente contrastati. Alla base di questa ‘scoperta’ storiografica c’erano, evidentemente, motivi di ordine teorico che incidevano sul piano storiografico e portavano a riconsiderare in forme differenti il problema delle ‘origini e dei caratteri del mondo moderno’, complicando profondamente la prospettiva tradizionale e fornendo una nuova immagine, oltre che del Rinascimento, della stessa ‘modernità’.
È significativo, in ogni caso, che in questi anni – a differenza di quanto farà dopo – Garin valorizzasse l’ermetismo, polemizzando al tempo stesso in modo aspro contro l’astrologia e riprendendo temi e motivi del pensiero di Pico. Va però rilevato che tale critica veniva svolta sulla base delle opzioni teoriche sopra ricordate, ossia la rivendicazione della volontà e della praxis come predicati propri dell’uomo, il quale in questo modo riesce ad affermare la propria libertà, emancipandosi da un destino di infelicità e di miseria.
È intorno a questi temi che l’Oratio de hominis dignitate assunse un ruolo centrale negli scritti di Garin di questo periodo, proprio per la capacità che Pico ebbe di elaborare quella «filosofia dell’uomo» che è il frutto più maturo dell’Umanesimo e del Rinascimento italiano. Scrisse Garin nel 1942:
L’Oratio pichiana è, prima ancora che un’opera di pensiero, un messaggio; il messaggio di una fede nuova: la fede nell’uomo e nella sua opera. Da quel brivido d’entusiasmo religioso nascerà veramente quella filosofia che trasformerà radicalmente la concezione del tutto, che sulle basi eterne degli immutabili valori umani impianterà un pensiero volto a proclamarli senza posa: il pensiero di Giordano Bruno e di Giovan Battista Vico (Filosofi italiani del Quattrocento, 1942, p. 68).
Pur con differenze di tono e di interpretazione, Pico resterà sempre al centro dello scrittoio di Garin che, a conferma di questa lunga fedeltà, in un testo del 1999 ricorderà proprio la scoperta che nei primi anni Trenta aveva fatto dell’Orazione sulla dignità dell’uomo mai pronunciata dal giovane Pico. E che nell’edizione di Basilea avrebbe circolato per tutto il Cinquecento, ispirando ancora negli ultimi anni del Seicento inglese poeti come Thomas Traherne. Questo aspetto è da tenere in attenta considerazione perché, pur muovendo dall’orizzonte fiorentino e italiano, Garin si sarebbe sempre preoccupato di individuare il legame fra Umanesimo italiano e Umanesimo europeo (Una collaborazione lunga una vita, cit., pp. 733-34). In questo orizzonte ciò che gli interessava individuare era quella che in una lettera del 1991 avrebbe chiamato la linea «Pico-Sartre», secondo cui l’uomo «non ha una natura (una specie, una forma), ma è un atto che si sceglie, cioè assoluta libertà» (M. Ciliberto, introduzione a G. Pico della Mirandola, De hominis dignitate, cit., pp. XIII-XIV). Nell’uomo – ed è questo che lo distingue dal punto di vista ontologico – è infatti riscontrabile un netto primato dell’«esistenza» sull’«essenza» – tema, anche questo, assai caro, prima e dopo, allo studioso, che in un testo del 1947 lo ribadirà con forza, mostrando piena consapevolezza di ciò che esso implicava anche dal punto di vista della concezione della filosofia: la distruzione, oltre che della platonica philosophia perennis, di «tutta la concezione classica della filosofia, da Platone a Cartesio a Spinoza a Leibniz contro i quali», scriveva, «hanno combattuto Kierkegaard e Nietzsche, Heidegger e Jaspers» (Essere e pensiero, «Rassegna di cultura e vita scolastica», 1947, pp. 3-4).
Sono nomi eloquenti, che mostrano con evidenza le radici teoriche dell’interpretazione che Garin stava dando dell’Umanesimo e della figura di Pico. Ma a testimoniare il nesso intrinseco, nella sua posizione, di ‘filosofia’ e ‘religione’ è, in questi anni, il ruolo che egli assegnò a Girolamo Savonarola, un autore che gli fu sempre caro, anche per la visione drammatica che ebbe dell’esistenza umana. Proprio nelle pagine su Pico sopra citate egli sottolineava il rapporto tra questi e il frate domenicano, «forse le figure più alte del pensiero quattrocentesco» (E. Garin, Filosofi italiani del Quattrocento, cit., p. 65), sostenendo addirittura che la morte del giovane filosofo era stata causata forse dalla sua adesione al movimento suscitato da Savonarola.
Alle origini della posizione di Garin c’era dunque un esistenzialismo religioso che costituisce una struttura essenziale della sua riflessione. Mentre invece muterà con gli anni in modo consistente la ‘filosofia dei valori’ che si era allora intrecciata a queste posizioni e che nel 1940 sfociò in un testo di particolare intensità intitolato Orientamenti morali, pubblicato sulla «Rivista di filosofia» nel 1941. Un ‘omaggio’ a Limentani, come egli ebbe modo di ricordare nel 1996, nel quale era durissimo lo scontro con lo storicismo idealistico crociano che, a suo giudizio, sfociava in un relativismo incapace di distinguere fra bene e male, fra vittima e persecutore, fra vinti e vincitori. Si trattava di un testo nel quale Garin svolgeva, nella situazione data e con gli strumenti a propria disposizione, una polemica anche di carattere politico individuabile a vari livelli e con toni e registri differenti. Era una struttura costitutiva della sua posizione incardinata in un rapporto organico tra storiografia e politica che si manifesterà in modo compiuto nella grande antologia sul Rinascimento italiano affidatagli da Gioacchino Volpe e pubblicata nel 1941, la quale si conclude – e basta questo riferimento per dare il senso del volume – con la pubblicazione del testamento di Filippo Strozzi.
Come era avvenuto negli scritti su Pico, anche qui era evidente l’intreccio tra passato e presente reso vivo dal modo con cui Garin nel suo lavoro riusciva a costituire un rapporto fra la situazione storica concreta e le proposte che egli veniva facendo sul piano scientifico. Discorso, questo, che può essere ulteriormente approfondito. Accanto alla ‘scoperta’ dei temi ermetici, fin dalla metà degli anni Trenta nelle ricerche di Garin è individuabile un altro motivo destinato a profondi e lunghi sviluppi nel quadro di quello che è stato chiamato Umanesimo civile.
Era un motivo che Garin condivideva con Hans Baron, studioso di origine tedesca costretto poi per motivi razziali a stabilirsi negli Stati Uniti, autore di importanti ricerche su Leonardo Bruni, su Niccolò Machiavelli e poi, soprattutto, di un lavoro ormai classico imperniato sulla lotta fra la Florentina libertas – rappresentata da grandi cancellieri come Coluccio Salutati e Leonardo Bruni – e la tirannide incarnata da Gian Galeazzo Visconti. Oggi sono chiari i motivi di ordine ideologico che generavano questa contrapposizione e, soprattutto negli ultimi anni, sono stati messi in evidenza anche i limiti di questa interpretazione. Del resto fu lo stesso Garin, negli anni Settanta del Novecento, a prenderne le distanze, concentrandosi su altri temi e motivi. Ma essa ha avuto un notevole rilievo sia sul piano storico sia su quello strettamente storiografico, consentendo di guardare da un altro punto di vista testi in genere consegnati al genere letterario della retorica, mostrando le loro complesse stratificazioni e la varia incidenza che essi avevano avuto nel loro tempo storico. Anzi, per quanto possa sembrare paradossale, tale interpretazione ha generato una nuova concezione della stessa retorica umanistica individuata, su questo sfondo, come un aspetto costitutivo della filosofia rinascimentale. A questa impostazione Garin diede un contributo rilevante, specie negli anni Cinquanta, con una serie di saggi e, in primo luogo, con il volume sui Prosatori latini del Quattrocento pubblicato per i tipi della Ricciardi nel 1952 – un’antologia assai notevole che spinse Delio Cantimori ad affiancare il nome di Garin a quello di Burckhardt come autore di una nuova visione generale del Rinascimento.
Quell’antologia non costituiva un’eccezione, perché Garin accompagnò in modo sistematico al suo lavoro di critico e di storico quello di editore di testi ignoti o malnoti: basti pensare, accanto a quella sul Rinascimento italiano, alla grande antologia pubblicata nel 1942, promossa dall’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, Filosofi italiani del Quattrocento. Qui erano squadernati e resi disponibili testi fondamentali del Rinascimento italiano mai studiati con la dovuta attenzione, che costituivano in effetti il retroterra dell’interpretazione che Garin stava maturando in quegli anni e che si espresse poi in modi per certi aspetti definitivi nel volume sull’Umanesimo italiano pubblicato prima in tedesco con il titolo Der italienische Humanismus (1947) e poi in italiano (1952). Come lo stesso Garin ebbe modo di sottolineare, questo libro costituiva il punto di arrivo delle ricerche avviate a metà degli anni Trenta e sviluppate nella prima metà degli anni Quaranta; mentre nei decenni successivi la sua ricerca si sarebbe avviata per nuovi sentieri sfociati in opere, anche in questo caso, assai importanti come Medioevo e Rinascimento (1954) e La cultura filosofica del Rinascimento italiano (1961).
È stato proprio Garin a sottolineare come sia necessario procedere con cautela di fronte a grandi cesure di carattere storico-politico come quella rappresentata dalla Seconda guerra mondiale e dalla fine del fascismo e del nazismo. Le dinamiche culturali non coincidono in modo meccanico con quelle politiche, anzi vanno colte nella loro autonomia e specificità. Sulla base di questa persuasione, Garin in un saggio molto interessante degli anni Ottanta sottolineò che il neoidealismo italiano era finito nel 1968 e non, come in genere si pensava, nel 1945, facendo una sorta di corto circuito fra filosofia, da una parte, politica, dall’altra. Senza dubbio, però, la fine della guerra e la situazione che essa generò, anche a livello di schieramenti politici e ideologici, ebbero un ruolo molto importante nello sviluppo della sua posizione, producendo sia l’avvio di nuove ricerche sia una serie di opzioni politiche che, anche attraverso la mediazione di Antonio Gramsci, lo spinsero, progressivamente, verso il ‘partito nuovo’ di Palmiro Togliatti.
In questa decisione, che divenne con gli anni più netta, senza peraltro che Garin, per una scelta consapevole, si iscrivesse mai al Partito comunista italiano, agì anche il convincimento che questo partito fosse diventato, in Italia, il baluardo delle posizioni, e della tradizione, di matrice laica. Per quanto possa sembrare paradossale, a questa scelta politica Garin arrivava muovendo proprio dal forte sentimento religioso da cui era particolarmente animato in quegli anni – reso anche evidente dalla pubblicazione nel 1947 di un’antologia di Lev N. Tolstoj. Proprio di qui scaturiva un atteggiamento profondamente contrario a ogni integralismo e a qualsiasi confusione fra Stato e Chiesa, fra Cesare e Dio. A suo giudizio, essi dovevano restare sempre nettamente separati, per non corrompere né la religione né la politica. Atteggiamento in lui sempre costante e intransigente, che lo portò ad assumere una posizione critica nei confronti dell’introduzione, con l’art. 7, dei Patti Lateranensi nella Costituzione italiana.
È al 1946 che risalgono le note sul pensiero italiano del Novecento nelle quali egli avvia una sorta di vero e proprio ‘esame di coscienza’ di se stesso e della sua generazione, cercando di mettere a fuoco, con occhio disincantato, anche l’importanza di movimenti e di figure come quelle di Giovanni Papini o Giovanni Vailati. Insieme agli articoli pubblicati nel 1951 sul «Giornale critico della filosofia italiana», queste ricerche, rivedute e riorganizzate, rappresentano i primi incunaboli delle Cronache di filosofia italiana pubblicate nel 1955, nelle quali questo ‘esame di coscienza’ è condotto su una sorta di doppio registro in cui si intrecciano, fino a confondersi, da un lato, disincanto, dall’altro, critica, appassionata e perfino sarcastico rifiuto di un’intera epoca della filosofia e, in genere, della cultura italiana.
Con questi testi Garin operava un notevole spostamento delle sue ricerche dalla filosofia rinascimentale e moderna al pensiero contemporaneo, che si sarebbe ulteriormente approfondito negli anni successivi fino a raggiungere il vertice, anche polemico, fra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta con una serie di interventi raccolti nel volume pubblicato nel 1962 La cultura italiana tra Otto e Novecento, nel quale erano compresi saggi su figure come Pasquale Villari, Piero Calamandrei, Gaetano Salvemini, Luigi Russo, con una parte che intendeva essere una ripresa e una conclusione delle Cronache di filosofia italiana uscite sette anni prima. Anche in precedenza Garin non si era astenuto da posizioni e giudizi politici. Ora però egli si misurava direttamente, e senza mediazioni, con il pensiero contemporaneo, facendo scelte assai nette attraverso una sorta di presa di distanza, e anche di ‘autocritica’, rispetto alle posizioni che aveva sostenuto in anni precedenti. Perdevano importanza e progressivamente abbandonavano il suo scrittoio i testi di Le Senne e dello stesso Lavelle, mentre diventava dura e netta la polemica con le interpretazioni del Medioevo e dell’Umanesimo di Gilson, che si sarebbe poi estesa anche alla sua interpretazione di René Descartes. Al tempo stesso diventavano centrali nuovi autori, anzitutto Gramsci e poi Antonio Labriola, ai quali Garin avrebbe poi dedicato molte delle sue energie. Simultaneamente egli avviava anche una riflessione organica sulla sua concezione della storia della filosofia interpretandola come «sapere storico», distanziandosi dalle posizioni che aveva sostenuto precedentemente e che erano state alla base, per es., di un libro significativo come L’illuminismo inglese. I moralisti, pubblicato nel 1942.
In altre parole, negli anni Cinquanta ci fu una generale ristrutturazione della posizione di Garin, che si espresse in una pluralità di direzioni che a loro volta si intrecciavano anche con la sua progressiva affermazione nella cultura italiana, della quale cominciava ormai a essere riconosciuto come uno dei maggiori rappresentanti – riconoscimento reso esplicito sul piano simbolico nel 1955 dal conferimento del premio Viareggio alle Cronache di filosofia italiana. Su entrambi i piani – sia su quello storiografico sia su quello metodico – fu fondamentale in questi anni, conviene ribadirlo, l’incontro con il pensiero di Gramsci, una delle leve principali sia di una nuova e differente visione della cultura filosofica italiana del Novecento, sia della posizione teorica elaborata da Garin negli anni Cinquanta che, pur mantenendosi per molti aspetti autonoma, faceva però i conti in modo più attento con lo ‘storicismo’. Ne conseguì anche una riconsiderazione del pensiero, e del ruolo, di Benedetto Croce e, in generale, del neoidealismo italiano.
Negli anni Trenta, si è visto sopra, Garin aveva avuto un atteggiamento nettamente ostile alla filosofia crociana e, in generale, allo storicismo, da lui risolto in una forma di relativismo incapace di cogliere l’autentico significato dei ‘valori’ nell’esperienza umana e nel generale processo storico. Diversa, in quegli anni, era stata la sua posizione nei confronti del pensiero di Gentile, ma per un motivo preciso, che contribuisce a mettere a fuoco l’ambiente culturale e filosofico nel quale va collocata la sua formazione. Con la ‘filosofia dell’atto’ Gentile apparteneva infatti a quella ‘filosofia della libertà’ con cui si era aperta in Francia la filosofia contemporanea, opponendosi, da un lato, all’hegelismo, dall’altro, al positivismo – entrambi incapaci di cogliere il valore concreto dello spirito umano e «il significato infinito della […] persona».
Negli anni Cinquanta, e in quelli successivi, questi giudizi muteranno, anche per il riconoscimento franco e aperto dell’importante ruolo svolto da Croce durante il fascismo e, sul filo di questa persuasione, al filosofo napoletano Garin dedicherà, nel 1966, un saggio pieno di consenso dal titolo significativo: Benedetto Croce o della ‘separazione impossibile’ tra politica e cultura. Ma sul piano teorico, pur continuando a complicarsi e ad approfondirsi, il giudizio al fondo non cambia, come appare chiaro da un altro saggio del 1966, Serra e Croce, nel quale, pur profondamente trasfigurati, riecheggiano motivi delle critiche rivolte a Croce nella Storia della filosofia del 1945. Mentre invece negli ultimi anni Garin riprenderà un dialogo molto intenso anche sul piano teorico con Gentile, del quale raccoglierà i principali scritti teorici in un massiccio volume pubblicato nel 1991, insistendo su un tema a lui assai caro (quello della praxis), riscoperto da Gentile attraverso Karl Marx e da lui consegnato alla filosofia italiana contemporanea, da Rodolfo Mondolfo a Gramsci. È sintomatico, in questo contesto, che, in occasione del primo Convegno di studi gramsciani tenutosi a Roma nel 1958, gli fosse affidata una delle principali relazioni su suggerimento di Togliatti, che nel 1955 aveva pubblicato su «La Rinascita» una lunga e articolata recensione delle Cronache di filosofia italiana, indicando la forte carica innovativa del metodo e delle analisi di Garin, ma sottolineando al tempo stesso il valore decisivo che per lui aveva avuto la lezione di Gramsci. Questa, in effetti, era molto evidente sia in diversi giudizi espressi in quel testo, sia, soprattutto, nel sistematico rapporto stabilito tra «astratta» ricerca filosofica e «concreta» lotta politica, illuminato attraverso l’analisi delle principali riviste filosofiche della prima metà del secolo.
Questi anni furono decisivi anche per lo sviluppo dell’interpretazione che Garin venne elaborando del Rinascimento, con la collaborazione di alcuni allievi destinati a loro volta a diventare eminenti maestri, come Paolo Rossi e Cesare Vasoli. Spiccano in questo contesto soprattutto alcuni testi: i saggi sulla magia e sull’astrologia pubblicati nel 1950 e nel 1953, e i testi sull’ermetismo e sulla retorica pubblicati nel 1953 e nel 1955 nell’«Archivio di filosofia». In tutti questi lavori Garin sviluppa in modo organico e compiuto le linee della ricerca avviata a metà degli anni Trenta, sia pur situandole in un contesto generale ormai molto mutato, come risulta con chiarezza dal differente approccio con cui egli studiava ora l’astrologia umanistica e rinascimentale, da un lato connettendola con l’operare magico, dall’altro inserendola nel processo costitutivo della scienza moderna.
Il periodo che va dalla conclusione della guerra sino alla fine degli anni Sessanta fu per molti aspetti uno dei più importanti e significativi della ricerca di Garin; né è un caso che gli studiosi della sua opera si siano concentrati anzitutto su di esso. Su questo sfondo egli è stato presentato in genere come uno dei massimi sostenitori dell’interpretazione del Rinascimento italiano in chiave ‘civile’ e come uno dei più autorevoli interpreti della filosofia italiana contemporanea, studiata in volumi ormai classici come Gli intellettuali italiani del XX secolo pubblicato nel 1974 e caratterizzato da un intreccio organico – tipico di Garin – tra storiografia e autobiografia. Ma sarebbe sbagliato se il giudizio sulla sua opera si limitasse a questo periodo e si restringesse alle opere ora ricordate. Nell’ultima fase della sua vita egli infatti mise fortemente in questione le linee principali della sua interpretazione sia del Rinascimento sia della filosofia italiana contemporanea, quale era stata delineata anzitutto nelle Cronache di filosofia italiana del 1955. Si è già avuto modo di ricordare l’importanza del suo dialogo con Gentile; ma a esso si affiancò in quel periodo anche una rinnovata riconsiderazione del positivismo italiano e, in generale, dei rapporti tra Ottocento e Novecento: Tra due secoli, così si intitola un importante volume pubblicato nel 1983 con l’obiettivo di mettere a fuoco i rapporti tra «socialismo e filosofia in Italia dopo l’Unità». È però soprattutto nel campo degli studi sull’Umanesimo e il Rinascimento che sono individuabili gli spostamenti interpretativi più importanti, consegnati a opere che oggi sono dei veri e propri classici: Rinascite e rivoluzioni. Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo (nel quale sono anche raccolti i fondamentali studi su Leon Battista Alberti), pubblicato nel 1975; Lo zodiaco della vita. La polemica sull’astrologia dal Trecento al Cinquecento uscito nel 1976, nel quale è raccolta una serie di lezioni tenute al Collège de France; Il ritorno dei filosofi antichi, dato alle stampe nel 1983.
Certamente in questo profondo ripensamento della sua visione dell’Umanesimo e del Rinascimento giocarono un ruolo importante gli eventi storici che, a cominciare dalla fine degli anni Sessanta, segnarono la storia dell’Italia e del mondo. È sempre sbagliato stabilire rapporti immediati fra ricerca filosofica e storiografica e processi storico-politici, anche nel caso di uno studioso come Garin, profondamente reattivo alle trasformazioni del proprio tempo storico. Ma, certo, questo rapporto ci fu e incise sullo sviluppo della sua ricerca. Ciò che conta, però, non è soltanto individuare la genesi di un’opera, quanto vedere quali ne sono stati i tratti principali e la specifica originalità; e nei suoi scritti dell’ultimo periodo furono molti e significativi.
Mentre si offuscava e si allontanava l’interpretazione in chiave ‘civile’ del Rinascimento italiano e quella che prima appariva realtà consolidata si rivelava invece, nel migliore dei casi, battaglia ideologica e lotta ideale per costruire un nuovo mondo, ora si affermava invece una veduta profondamente disincantata e per certi aspetti addirittura tragica del Rinascimento italiano. Campeggiavano in questi studi la figura di Leon Battista Alberti – del quale venivano messi in risalto in primo luogo le Intercenali, alcune delle quali erano state scoperte dallo stesso Garin nei primi anni Sessanta, e testi come il Momus, nel quale è ripreso e trasformato il verso di Pindaro sull’«uomo ombra di sogno» – e quella di Pietro Pomponazzi, con speciale riferimento al De fato, di cui era valorizzata un’immagine della vicenda umana integralmente imperniata su una vicissitudine senza senso e senza significato e dell’uomo come «giocattolo nelle mani degli dei», secondo il detto di Platone nelle Leggi (tema, quest’ultimo, destinato ad ampia diffusione nella cultura europea, a cominciare da William Shakespeare).
Sono motivi teorici e storiografici con i quali Garin consentiva profondamente anche sul piano personale, secondo quel circolo di storiografia e autobiografia che è uno dei tratti più significativi di tutta la sua opera. Se fin dagli scritti della metà degli anni Trenta aveva battuto sul primato della praxis e della volontà con le quali l’uomo può riscattare la sua originaria condizione di miseria, ora Garin arrivava alla conclusione che quella «linea Pico-Sartre» che egli aveva individuato come corrente fondamentale della cultura europea moderna si era logorata e poi spezzata, finendo sconfitta. Ma (ed è una verifica della forza e dell’intensità che nel suo pensiero aveva avuto, fin dalle origini, il motivo della praxis e dell’azione umana) anche negli scritti dei suoi ultimi anni Garin non rinunciava definitivamente alla speranza e, sia pur riprendendo il tema leopardiano delle ‘illusioni’, si sforzava di continuare a guardare con occhi aperti al futuro.
Giovanni Pico della Mirandola. Vita e dottrina, Firenze 1937.
Der italienische Humanismus, Bern 1942 (trad. it. L’Umanesimo italiano. Filosofia e vita civile nel Rinascimento, Bari 1952).
Medioevo e Rinascimento. Studi e ricerche, Bari 1954.
Cronache di filosofia italiana, 1900-1943, Bari 1955.
La filosofia come sapere storico, Bari 1959.
La cultura filosofica del Rinascimento italiano. Ricerche e documenti, Firenze 1961.
Rinascite e rivoluzioni. Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo, Roma-Bari 1975.
Lo zodiaco della vita. La polemica sull’astrologia dal Trecento al Cinquecento, Roma-Bari 1976.
Il ritorno dei filosofi antichi, Napoli 1983.
Tra due secoli. Socialismo e filosofia in Italia dopo l’Unità, Bari 1983.
Eugenio Garin. Il percorso storiografico di un maestro del Novecento, Giornata di studio, Biblioteca Roncioniana, Prato (4 maggio 2002), a cura di F. Audisio, A. Savorelli, Firenze 2003 (in partic. C. Cesa, Momenti della formazione di uno storico della filosofia (1929-1947), pp. 15-34; C. Vasoli, Gli studi di Eugenio Garin su Giovanni Pico della Mirandola, pp. 65-92).
«Giornale critico della filosofia italiana», 2009, 40, 2, nr. monografico: Garin e il Novecento.
M. Ciliberto, Eugenio Garin. Un intellettuale nel Novecento, Roma-Bari 2011.
Eugenio Garin. Dal Rinascimento all’Illuminismo, Atti del Convegno, Firenze (6-8 marzo 2009), a cura di O. Catanorchi, V. Lepri, premessa di M. Ciliberto, Roma-Firenze 2011.
Il Novecento di Eugenio Garin, Atti del Convegno promosso dalla Fondazione Istituto Gramsci in collaborazione con l’Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma (25-27 febbraio 2010), a cura di S. Ricci, G. Vacca, Istituto della Enciclopedia Italiana-Fondazione Istituto Gramsci, Roma 2011.