DONADONI, Eugenio
Nacque ad Adrara San Martino (Bergamo) il 16 nov. 1870 da Rosa Previtali e Defendente, ingegnere.
A causa delle scarse risorse economiche di cui la famiglia soffri costantemente, dopo avere frequentato a Torino l'istituto ginnasiale dei salesiani, fu costretto ad interrompere gli studi regolari: trovò a Milano un modesto impiego, e consegui la licenza liceale con una preparazione da autodidatta. Ottenuta una borsa di studio per diretto interessamento di un notabile, amico del padre, frequentò la facoltà di lettere dell'università di Roma, interrompendo gli studi universitari dopo i primi due anni, quando il padre ebbe dei dissensi con il suo protettore, per ragioni elettorali, e questi non volle rinnovare la borsa di studio. Ottenne quindi incarichi di insegnamento negli istituti secondari di Castrogiovanni (1893-95), Mazara del Vallo (1896-97)., Cefalù (1898), Lucca (1899), Ventimiglia (1900) e Palermo dal 1901 al 1905, quando vinse la cattedra di lettere con l'assegnazione al liceo "Garibaldi" di Palermo, dove rimase fino al 1909. Qui, dove aveva cominciato a frequentare l'università già nel 1893, aveva conseguito la laurea in lettere con una tesi su G. Trissino (relatore G. A. Cesareo), che non riscosse tuttavia l'apprezzamento della commissione e ottenne un punteggio piuttosto modesto, pregiudicando in senso negativo la sua successiva carriera.
Si trasferi a Napoli presso il liceo, quindi presso l'istituto superiore femminile "Suor Orsola" (1910-12), dove ebbe occasione di conoscere B. Croce, al quale tributò sempre grande stima e considerazione e che esercitò una notevole influenza sulla definizione del suo metodo critico. Negli anni 1913-15 fu a Milano al liceo "Berchet", entrando in rapporti di amicizia con L. F. Benedetto e R. Mondolfò e contribuendo attivamente ai corsi dell'università popolare con lezioni, conferenze e pubblicazioni. Nel 1913 tentò senza successo il concorso per la cattedra di letteratura italiana all'università di Bologna; nello stesso anno, il 15 settembre, sposò la palermitana Melina Pastorelli, da cui ebbe due figli, Sergio e Miriam. Nel 1916 tornò ancora una volta in Sicilia con un incarico di insegnamento di letteratura italiana presso l'università di Messina, tenendo anche per breve tempo l'incarico di letteratura francese, lasciato da C. Marchesi. Vinse, nel 1922, la cattedra di letteratura italiana e fu chiamato a ricoprirne l'insegnamento presso l'università di Pisa.
Morì a Milano il 15 giugno 1924 per una malattia che lo affliggeva da tempo.
Gli interessi del D. si indirizzarono all'inizio verso la produzione di versi; è del 1892 una raccolta intitolata appunto Versi (Roma), a cui fece seguire Caino (Palermo 1897)., un poemetto biblico in nove canti e in versi sciolti; quindi I superstiti (ibid. 1909), un poemetto in esametri pubblicato con una prefazione di A. Graf, la storia di "due umili e poveri vecchi che, avvertendo continuamente la mutazione avvenuta, sentono le offese e non possono intendere le ragioni e tanto meno acquetarsi, rappresentano un'intera generazione" (p. 6); ancora Romilde (Rocca San Casciano 1912), un altro poemetto in esametri; va aggiunto Didone e Sicheo, un poemetto a cui lavorò negli ultimi anni e che è rimasto inedito.
In questa produzione, ha scritto W. Binni "il motivo donadoniano dell'elegia e dell'idillio a cui la delusione della vita rimanda, ha trovato l'espressione più tenue e musicale, mentre nella critica si svolgerà più forte il motivo parallelo dell'impegno e della serenità poetica purificatrice" (p. 166). Si tratta in effetti di una produzione scarsamente significativa, nel panorama della poesia italiana contemporanea, che tuttavia mantiene un interesse legato alla definizione di una figura intellettuale come il D. che anche per le scelte stilistiche ed espressive riconducibili facilmente a un "patetico anacronisticamente romantico" (Sozzi, 1969, p. 2058), si caratterizza in una prospettiva singolare, come avverrà nell'attività critica, certamente con risultati di gran lunga più validi.
L'impianto sostanzialmente spiritualistico della sua poesia anima anche la produzione narrativa del D. che non si distacca sostanzialmente, per quanto riguarda le novelle, dalla produzione tipica del genere. Si tratta di Ilcieco (in Secolo XX, aprile 1914., pp. 289-298), Il martire (ibid., giugno 1914, pp. 490-496), L'ultima pazzia di Fernanda (ibid., aprile 1915, pp. 381-387); a parte va collocato il romanzo Il sudario (Milano 1914), dedicato alla memoria di A. Graf, che nel sottotitolo Pagine di passione e di dubbio evidenzia la tonalità dominante della scrittura del D., qui impegnata nella finzione letteraria del manoscritto ritrovato contenente un diario spirituale attribuito ad un prete, resoconto con forti motivi autobiografici del travaglio intellettuale e morale di chi, come il D., tentava di costruire una propria dimensione spirituale sotto l'influenza e l'urgenza di diversi e contrastanti tensioni filosofiche e religiose, dall'idealismo crociano e gentiliano al modernismo di Buonaiuti e Martinetti.
L'attraversamento dei movimenti e delle correnti più significative avviene qui sul terreno del "contrasto tra lo spirito e il senso, tra la fede e la ragione", del "dissidio fra l'umano e il divino" (prefaz. a Il sudario, p. 8). Temi questi cari al D. che tornano in una conferenza che tenne con qualche scandalo al Circolo internazionale di Ventimiglia (maggio 1901) e che fu poi pubblicata con il titolo Gesù in Scritti e discorsi letterari (Firenze 1921). Il D. riprendeva in entrambi i casi, seppure in forme diverse, il motivo diffuso nella eterodossia cattolica della fine dell'Ottocento, ovvero la difficoltà di conciliare la fede con la ragione, di congiungere nella coscienza i principi rivisitati del cristianesimo con la teorica e la pratica dell'istituzione cattolica ed ecclesiastica. Non a caso certamente due figure emblematiche, in questo senso, come Manzoni e Fogazzaro attrassero l'attenzione del D. che calerà entrambi in una dimensione analitica e critica tutt'altro che neutra, ma anzi decisamente orientata dai suoi soggettivi sentimenti e risentimenti.
A questo tipo di suggestioni fortemente operanti sull'esercizio intellettuale e riflessivo del D. va aggiunto un certo ascendente che probabilmente esercitò su di lui, come su tanti altri dei suo tempo, la cultura del vocianesimo o piuttosto di quella zona di intellettuali raccolti per un breve periodo attorno alla Voce (come Boine, Slataper, Jahier), che avevano fissato su una prospettiva eticamente fondante l'esercizio letterario e l'impegno intellettuale.
L'attività critica, dunque, e la pratica poetica, narrativa e saggistica del D. sono riconducibili alle medesime coordinate ideali ed etiche, sicché è possibile trovare nei suoi saggi affermazioni e considerazioni che sono egualmente riferibili all'oggetto specifico dell'analisi letteraria e all'espressione soggettiva di sentimenti e condizioni esistenziali. In questo senso particolarmente significativi sono L'anima e la parola. Principi di letteratura ... (Roma 1915) e I valori umani della poesia (Roma 1917; anche in Rivista d'Italia, giugno 1917, poi in Scritti e discorsi letterari), entrambi leggibili come complementari al suo esercizio critico, in quanto dettati dalla tenace e incessante ricerca donadoniana sui caratteri intrinseci del fare poetico e artistico, sul ruolo della poesia e dell'arte nella vita dell'uomo.
È stata rilevata la mancanza di organicità e di spessore teorico in queste trattazioni del D., come lo scarso rigore delle definizioni concettuali e dello svolgimento del ragionamento; ma sono caratteristiche che non stupiscono affatto, data la natura degli interessi del D. di ordine certamente non speculativo ma piuttosto etico e spirituale e direttamente connessi con l'indagine critica su certe figure della storia letteraria italiana e sulle loro opere. Prendendo decisamente le distanze dalle metodologie positivistiche di fine secolo che concentravano l'attenzione sulle forme della scrittura, in senso precisamente tecnico (retorico, filologico, stilistico), ovvero privilegiavano la ricerca specialistica applicata ad aspetti determinati e molto circoscritti dell'opera poetica, il D. si dispone idealmente sulla linea desanctisiana, portando innanzitutto in primo piano il nesso tra l'oggetto letterario e il soggetto produttore: ossia, per usare le parole del titolo del suo saggio, tra l'anima e la parola ("l'anima per lui era l'autonomia della vita interiore, contro la grettezza che sottoponeva a processo freniatrico ogni ardita creazione spirituale": Omodeo, p. 125).
Solo nell'incontro proficuo tra queste due componenti il D. ravvisava le premesse per il perseguimento della piena espressione poetica, dove fosse possibile rintracciare la sostanza dei valori ideali più alti, qualificati eticamente e spiritualmente: "Poesia senza pensiero sarà, quasi sempre, trucco poetico".
Il poeta è colui che sa esprimere al livello più alto le più riposte e nobili aspiraziopi umane, è colui al quale è possibile comunicare, in virtù di una capacità non comune, la "consapevolezza di un sogno a cui la realtà non ci consente di abbandonarci, desiderio di ciò che sentiamo inconseguibile" (L'anima e la parola, p. 40). È una concezione di chiara derivazione romantica della natura privilegiata della poesia come totalità e della funzione oggettivamente moralizzatrice del poeta in quanto esemplarmente dotato di ricchezza interiore e di sofferte e inedite tensioni spirituali. In questa ottica, all'investigazione accurata dell'anima del poeta fa da complemento indispensabile la sottolineatura delle peculiarità della parola poetica e prima di tutto la sua affinità con la espressione musicale, nella convergenza dei due linguaggi sul comune terreno della ineffabilità, della espressione del "senso dell'infinito". Accanto alla impronta romantica e neoidealistica del crocianesimo e del gentilianesimo innestati sul tronco desanctisiano, si manifesta dunque in modo evidente quella componente religiosa che aveva animato la produzione poetica e saggistica del D.; una religiosità non confessionale e non ortodossa ma nutrita di motivi squisitamente laici e spiritualistici.
Di qui la scelta, sempre significativa di un interesse per nulla accademico, delle figure poetiche sulle quali si accentrò l'analisi, da Manzoni a Tasso, da Foscolo a Leopardi a Dante. Di qui anche la caratteristica precipua del metodo donadoniano, consistente nel rilievo dato all'indagine sul rapporto tra l'autore, la vita interiore dell'autore, e la sua opera. Per cui l'operazione critica viene a essere una sorta di "noviziato esplorativo ... che il critico compie intorno all'opera d'arte, e per sé, e per i suoi lettori ed ascoltatori" (Russo, p. 87).
Dunque la più forte motivazione del D. all'esercizio critico sugli autori della letteratura italiana e sulle loro opere risiedeva nelle medesime ragioni che dettavano la sua scrittura originale; una evidente ed esplicita carica soggettiva, come traspare da queste parole poste a premessa di uno dei suoi saggi più noti e più riusciti, quello su Fogazzaro, in cui, volendo spiegare uno dei caratteri più appariscenti del suo modo di rendere conto dell'analisi critica, ossia la quasi totale assenza di riferimenti bibliografici (all'opposto, anche per questo rispetto, della consuetudine dominante nella critica contemporanea e in genere nella critica accademica), scrive: "dirò che il tenermi presenti i giudizi altrui non avrebbe fatto che paralizzare o conturbare il giudizio mio, qualunque esso sia e comunque esso valga. Avrebbe tolto, cioè, a questo libro quel poco che ci può essere di sincero, di vivo, di immediato, di mio insomma; e si sa che appunto per esprimere il proprio io si scrivono i libri: anche, e soprattutto, i libri di critica" (p. 7). Qui è la sostanza della metodologia critica donadoniana, espressa anche in diversi altri luoghi dei suoi saggi, che potrebbe farlo apparentare a quei filoni di critica fondamentalmente psicologica e impressionistica che ebbero per alcuni decenni un loro spazio nella cultura francese come in quella italiana; indubbiamente l'attenzione del D. è sempre più orientata alla psicologia che agli elementi di carattere estetico, soprattutto sul terreno precisamente formale, stilistico e peculiarmente espressivo; tuttavia nel D. dominano in modo così trasparente e pervasivo i motivi etici e di una spiritualità non restrittivamente soggettivistica, da doverlo'collocare in disparte anche rispetto agli impianti metodologici psicologistici e impressionistici di cui certa cultura europea tra la fine dell'Ottocento e il Novecento è stata assidua praticante.
Il D. aveva esordito nell'attività critica con interventi orientati fondamentalmente in ambito accademico; si tratta di conferenze come Caratteri del pessimismo e della lirica leopardiana (1898, pubblicato in Scritti e discorsi letterari, Firenze 1921); I Paralipomeni e le idee politiche di G. Leopardi (1898, ibid.); Nel sesto centenario della visione dantesca (1900, ibid.); ancora del saggio Diuno sconosciuto poema eretico (Napoli 1900), la presentazione di un testo ereticale del Cinquecento che egli aveva scoperto nella Biblioteca comunale di Lucca, al quale segui Sull'autenticità di alcuni scritti reputati danteschi (Palermo 1905), che fu stroncato da I. Del Lungo e che comunque attirò molte critiche e riserve sul suo lavoro. Prosegui negli stessi anni nell'attività di conferenziere: Vittorio Alfieri (1903), Francesco Petrarca (1904), Le tre donne della Divina Commedia (1905), poi raccolti in Discorsi letterari (Palermo 1905); e ancora Commemorazione di Giosuè Carducci (1907; pubblicata in Scritti e discorsi letterari).
Il primo saggio di ampio respiro e di solido impianto metodologico e critico fu la monografia Ugo Foscolo pensatore, critico, poeta (Palermo 1910, più volte ristampato fino all'edizione del 1964 che ha un'appendice critico-bibliografica di R. Scrivano), un lavoro per il quale ricevette un premio dall'Accademia dei Lincei e che fu lodato da B. Croce. In questo saggio, sorretto da un'indagine accurata e documentata sulla biografia foscoliana e sull'ambiente nel quale visse, operano al meglio i criteri ispiratori della attitudine del D. alla ricostruzione del "mondo interiore" della personalità foscoliana. Rimangono peraltro, e anzi in questo caso vengono in un certo senso esaltati dalla minuziosità dell'insieme, i limiti connaturati al suo metodo: quel difetto di storicizzazione che restituisce quadri sostanzialmente statici di una vicenda biografica e intellettuale; e la svalutazione costante e consapevole delle componenti formali e tecniche della poesia, che è intrinseca a quella considerazione dell'arte che altrove il D. aveva teso a teorizzare e che gli faceva ritenere preliminare indispensabile all'indagine specifica sulla poesia la definizione puntuale del mondo interiore dell'autore preso in esame. Ciò nonostante la monografia su Foscolo mantiene intatte, a distanza di molti decenni, varie ragioni di interesse e di validità, soprattutto per la trattazione, molto approfondita ed esauriente, delle concezioni foscoliane in materia di politica, filosofia, estetica.
Su una linea analoga si colloca la monografia successiva dedicata ad Antonio Fogazzaro (Napoli 1913), con la differenza essenziale che la scelta dell'oggetto di analisi, in questo caso, è orientata in modo decisamente più evidente e influente dagli interessi letterari e soprattutto extraletterari del critico. Tanto che si è parlato a questo proposito di un "tono di requisitoria che ne fa piuttosto un libro di polemica che di critica" (Sozzi, 1969, p. 2071). Il fatto è che per un verso il D. è indotto, nel caso di Fogazzaro, come succederà con il saggio successivo su Tasso, a far dominare nettamente il giudizio etico sulla figura intellettuale rispetto alla valutazione estetica sulle opere, e d'altra parte si realizza sulla scelta di Fogazzaro come oggetto d'analisi la fondamentale propensione donadiana ad esprimere l'operazione critica prima di tutto come confronto diretto e serrato di idee tra il soggetto impegnato nell'attività critica e l'oggetto implicato nell'indagine. Una attitudine di tal genere è evidentemente esaltata dal rapporto con figure, produzioni e concezioni nei confronti delle quali l'attrazione e la ripulsa si combinano in una miscela che rimanda continuamente dall'oggetto investigato al soggetto indagatore. Di qui giudizi pesantemente limitativi sulla produzione narrativa e poetica di Fogazzaro, il rilievo dei nodi irrisolti della sua scrittura e della sua invenzione, derivanti direttamente e senza mediazioni dalla debolezza della sua figura sul terreno intellettuale e spirituale, connotati entrambi per il D. da una fondamentale ambiguità. Un severo ridimensionamento di uno scrittore che in quegli anni ancora era oggetto di entusiasmi quando non di vera e propria apologia; una rilettura decisamente critica (sulla quale, del resto, ha proseguito gran parte degli studiosi successivi) che nel caso del D. è motivata da ragioni tutte interne alla sua peculiare visione dell'arte e dell'indagine su di essa.
Si colloca idealmente a conclusione del ciclo delle monografie il libro su Torquato Tasso (Firenze 1921) che appartiene alla fase matura dell'attività donadoniana. Pure mantenendo l'attenzione sulla personalità e le vicende biografiche del poeta, qui il D. si dispone ad un'analisi a tutto campo, in cui poesia e biografia, soluzioni formali e attitudini spirituali siano congiuntamente sottoposte al vaglio dell'indagine e della riflessione. Passando attraverso una disamina attenta del "mondo interiore" del Tasso, delle ragioni letterarie del poema, del carattere e del peso delle opere minori, il D. propone, come sempre, una lettura fortemente individualizzata dell'artista, un "Tasso vivo" che deve risultare dall'incrocio, in ultima analisi, tra i due mondi interiori, tra le due concezioni dell'arte che sono del critico e del poeta.
Sono degli ultimi anni della sua vita, gli anni in cui il D. si disponeva a una stagione di studi più distesa e libera da preoccupazioni anche materiali, una serie di interventi critici in cui è possibile avvertire una decisa maturazione di intendimenti e di svolgimenti critici. Si tratta di un saggio di grande suggestione, Il sentimento dell'infinito nella poesia leopardiana (Pavia 1923), dove tornano motivi già illustrati dal D. negli scritti di estetica degli anni precedenti, qui calati e come modulati su una lettura dei caratteri della poesia di Leopardi che presenta non poche ragioni di interesse. Ancora una serie di interventi danteschi (Lectura Dantis. Il canto VIII del Purgatorio, Firenze 1919; Attori sopraumani nella Divina Commedia, 1920, in Scritti e discorsi letterari; Le nostalgie dantesche, Messina 1922; Lectura Dantis. Il canto XXV del Paradiso, Firenze 1923; Ilcanto XXVI del Paradiso, 1924, in Leonardo, gennaio 1929). Vi Si affiancano due raccolte di saggi, Da Dante al Manzoni (Pavia 1923) e la Gertrude del Manzoni (Palermo 1924) che riprendono una linea di interesse già manifestata dal D. anni prima con le conferenze Personaggi di autorità nei Promessi sposi (1913, poi in Scritti e discorsi letterari) e La dottrina nei Promessi sposi (1913, ibid.). Gli scritti su Dante e Manzoni furono raccolti in un volume Studi danteschi e manzoniani (Firenze 1963) da W. Binni, che volle sottolineare così il valore originale di questi contributi sul terreno critico e interpretativo.
Il ritratto del D. risulterebbe comunque monco se non si facesse cenno alla sua straordinaria attitudine didattica, documentata direttamente dalle testimonianze di molti suoi allievi, sia nella Scuola superiore sia all'università, e in forma indiretta dalle molte pubblicazioni indirizzate agli studenti e in genere ai giovani. Pubblicò insieme con F. Vivona Nuova fiorita di prose e poesie italiane per le classi secondarie inferiori (Palermo 1906); nella collana della biblioteca dell'università popolare milanese e della Federazione italiana delle biblioteche popolari (Milano 1916): Iprincipali scrittori italiani dal 1400al 1550, I principali scrittori italiani dal 1550 al 1700, L'Iliade e l'Odissea (riduzione e introduz.), L'Eneide e gli altri più bei poemi latini (ibid.; La Divina commedia (riduzione e commenti). Del 19,9 è una sorta di complemento didattico alla monografia su Foscolo: L'opera di Ugo Foscolo esposta ai giovani (Napoli); e per ultimo la Breve storia della letteratura italiana (Milano 1923), che ha avuto molte ristampe fino all'edizione del 1936 riveduta e accresciuta da F. Flora e G. Villaroel. L'interesse del D. per l'isfituzione scolastica risulta, su un altro versante. dalla relazione che tenne il 29 marzo 1907 al Congresso interregionale dei professori a Palermo e che fu poi stampata (Palermo 1907) con il titolo Di una riforma radicale nell'ordinamento delle scuole medie, dove in una prospettiva di modificazione istituzionale sono esposti i cardini del suo metodo di insegnamento concentrato sulla lettura dei testi letterari, sulla capacità di trasmissione ai giovani dei valori etici e culturali propri delle grandi opere del passato e quindi sulla funzione intrinsecamente educativa delle lettere come strumento di formazione della personalità culturale e civile.
Parallelamente all'attività didattica e critica, il D. si dedicò a molti lavori di traduzione, sulla base di spinte materiali a volte, ma sempre motivato da scelte non casuali di autori e di opene. Si tratta di La guerra gotica di Claudio Claudiano (Palermo 1896); di G. P. Eckermann Colloqui col Goethe, I-II (Bari 1912-14); di F. Hebbel INibelunghi (Milano 1916). Tenne inoltre la rubrica Rassegna di romanzi e di novelle sulla Nuova Antologia (1920-21), collaborò con recensioni e interventi a Il Convegno, Rivista d'Italia, Lavoro, L'Azione, La Sera.
La quantità e la qualità degli interessi del D. sono un indice alquanto significativo dei caratteri preminenti della sua fisionomia intellettuale e culturale. Una figura sostanzialmente estranea rispetto alle dominanti della sua epoca, sul terreno critico e accademico; l'impianto decisamente singolare della sua metodologia e della sua prospettiva lo tenevano altrettanto lontano dagli ambienti positivisti organizzati in scuole, sulla scia della scuola storica di fine Ottocento, come anche dagli ambienti a quelli contrapposti, che facevano riferimento a Croce e al neoidealismo, nonostante i riconoscimenti e le attestazioni di stima reciproche. In una lettera a E. Perito (15 maggio 1913) scriveva di se: "io sono e saro sempre un dilettante inconcludente, così nell'arte come nella critica". Eliminata la severa limitazione implicita nell'aggettivo e raccolto il termine dilettantismo nell'accezione non riduttiva che è propria di molte figure significative della cultura europea degli ultimi due secoli, si può considerare questa autodefinizioné come la più illuminante sulle ragioni dell'attività donadoniana e sui caratteri delle sue manifestazioni pratiche in un quadro come quello italiano del primo ventennio del secolo in cui il dilettantismo ha giocato un ruolo almeno complementare, per peso e valore, a quello del professionismo.
Fonti e Bibl.: Lettere ined. di A. Graf, G. Pascoli, E. Donadoni, a cura di E. Gennarini, Napoli 1951; B. Croce, Foscolo di E. D., in La Critica, IX (1911), pp. 151-153; A. Momigliano, Necrologio, in Giornale storico della lett. ital., LXXXIV (1924), pp. 239 s.; F. Biondolillo, E. D., in Italia che scrive, agosto 1924, p. 1; G. Donati Petteni, E. D., in Colloqui e profili, Bologna 1925, pp. 201-208; A. Omodeo, E. D., in Leonardo, 20 maggio 1926, pp. 124-127; G. Funaioli, In memoria di E. D., in Convivium, V (1933), pp. 500-504; A. Momigliano, D. elegiaco, in Studi di poesia, Bari 1938, pp. 256-261; E. De Michelis, Nota sul critico D., in Termini, giugno 1937, p. 162; G. Marzot, D. o la critica come umanità, in La Nuova Italia, XI (1940), II, pp. 289-297; L. Russo, La critica letteraria contempor., Bari 1942-43, pp. 87 s., 197, 513, 520 ss, 543, 644; W. Binni, E. D., in Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento, Firenze 1949, pp. 161-178; B. T. Sozzi, Ricordo di E. D., in Studi tassiani, I (1951), I, pp. 86 ss., S. Spinelli, E. D. maestro, in Belfagor, XII (1957), pp. 432-438; A. M. Mutterle, E. D., in Letteratura, n. s., XXXI (1967), I, pp. 135-148; B. T. Sozzi, E. D., in Letter. italiana. I critici, III, a cura di G. Grana, Milano 1969, pp. 2055-2089; L. Martinelli, in Encicl. dantesca, II, Roma 1970, p. 554.