PETROLINI, Ettore
PETROLINI, Ettore (Pasquale, Antonio). – Nacque a Roma il 12 gennaio del 1884 al n. 6 di vico del Grancio, in una palazzina all’angolo con via Giulia, da Luigi e Anna Maria Antonelli.
Quarto di sei figli ebbe rapporti difficili con il padre, un ruvido e severo fabbro piuttosto moralista: si narra che, anche quando Ettore conquistò ricchezza e fama, vedendo dei manifesti con il suo cognome a lettere cubitali mormorò: «A me una famiglia così proprio non ci voleva» (Petrolini nei ricordi del figlio Oreste, in Il Tempo, 18-24 ottobre 1959). Un forte affetto lo legava invece alla madre, che lo protesse dalle severità paterne, sopportando amorevolmente la sua infanzia turbolenta e sostenendolo, anche economicamente, quando decise di intraprendere la difficile carriera di attore di varietà.
Nel 1890 la famiglia Petrolini traslocò in via Baccina 32, nel Rione Monti, che divenne ben presto teatro dell’irrequieta fanciullezza di Ettore. Soprannominato dagli abitanti del luogo ‘er roscietto de li Monti’, non prese mai la licenza elementare né volle imparare un mestiere, pur avendo il padre fabbro e il nonno materno falegname. All’età di 13 anni per un incidente, probabilmente involontario, ferì uno dei suoi compagni e con il consenso del padre che sperava così di fargli mettere giudizio, fu rinchiuso nel riformatorio di Bosco Marengo nei pressi di Alessandria dove – per domare la sua caparbietà – gli furono imposte addirittura la camicia di forza e la cella di rigore a pane e acqua: una terribile esperienza destinata a lasciar traccia nell’uomo che, ancora pochi mesi prima di morire, la rievocò nel libro-testamento Un po’ per celia, un po’ per non morir… (Roma 1936), siglandola con un esergo dantesco: «veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo» (p. 216).
Lo sguardo penetrante e beffardo del riformando, l’insofferenza per il conformismo idiota e gretto, il piacere del gioco e dell’esibizione furono tratti del carattere che passarono dalla vita all’arte. Il teatro gli permise di conservarli e di coltivarli. E quando alla fine della sua carriera lottava per essere accreditato come ‘un artista teatrale’, volle riconoscere nella sua infanzia scapestrata e beffarda una cifra poetica. Si raccontò come un bambino che amava intrufolarsi con l’aria innocente e sconsolata di un figlio del peccato, nei funerali di perfetti sconosciuti e scoppiare in lacrime; voleva dimostrare che, per chi aveva fatto della strada la sua scuola, la commedia e la tragedia erano naturalmente intrecciate.
Petrolini ha tramandato in Modestia a parte… (Bologna 1931) un gustoso racconto picaresco, ma cronologicamente sconnesso, dei suoi inizi che lo videro provarsi nei varietà d’infimo ordine, nelle compagnie di operette e arte varia, nel teatro popolare ‘di prosa’, nel circo equestre dei fratelli Belley come clown e inserviente e persino come sirena in un baraccone delle meraviglie nella popolarissima e ormai scomparsa piazza Guglielmo Pepe di Roma. Scrisse: «Fu una vita selvaggia, allegra e guitta, e un’educazione a tutti i trucchi e a tutti i funambolismi, davanti al pubblico che magnava fusaje (lupini) e poi tirava i cocci sur parcoscenico […]» (ibid., p. 199), ma nascose gli sforzi che dovette fare per rimediare alla sua condizione di ‘uomo senza lettere’ che a stento poteva leggere, scrivere e far di conto. Una difficoltà non inconsueta per artisti del varietà e anche di prosa (Angelo Musco, Raffaele Viviani, Ermete Novelli).
La prima notizia documentata dell’attività di Petrolini si rinviene nel Messaggero di Roma del 10 giugno 1900, in cui si legge che recitava con il nome d’arte Ettore Loris presso il popolare teatro Cossa di Trastevere. Nei primi tre anni del secolo Petrolini riuscì ad avanzare velocemente nella sua carriera: abbandonato il nome d’arte con evidenza documentaria nel 1902 (ma con ogni probabilità un anno prima), fu scritturato in Liguria (Roma, Biblioteca del Burcardo, locandina 28-001). Nel 1903 abbandonò le compagnie di arte varia e operette concentrando la sua attività nel circuito dei caffè concerto e agì come macchiettista, prestandosi anche a formare occasionali duetti con le ‘sciantose’ incrociate nelle diverse piazze. Alla fine dell’anno al Gambrinus di Roma incontrò Ines Colapietro, con cui strinse un sodalizio artistico e di vita. La canzonettista adottò l’antico nome d’arte del compagno e nacque la coppia Loris-Petrolini ‘duettisti napoletani’ (ibid., locandina 28-010) che ebbe una certa notorietà nel mondo del varietà. Dopo appena dieci mesi dal debutto nacque il primo figlio Oreste (12 settembre 1904) seguito due anni dopo da Renato (3 agosto 1906). Entrato stabilmente nel giro dei caffè concerto, il repertorio di Petrolini (cfr. i quaderni conservati al Burcardo, Copioni, C.270) non si distingueva troppo dalla grande massa dei buffi napoletani, che recitavano alla maniera di Peppino Villani e Nicola Maldacea. L’attore era ben consapevole che un comico del varietà per affermarsi doveva avere «una figura a sé, un genere a sé, un repertorio a sé; e più riusciva nuovo, più sorprendeva, più il suo successo era clamoroso» (R. Viviani, Dalla vita alle scene, Bologna 1928, p. 76).
Furono due tournées in Sud America, nel 1907 e nel 1909, a offrire l’occasione a Petrolini per mettere a fuoco un proprio stile. Costretto dalla lingua, assunse come dato di partenza non la funzione del personaggio, ma la relazione con il pubblico in nome della quale i materiali drammaturgici venivano manipolati sino al grottesco per essere sempre inattesi e sorprendenti, mentre la recitazione piana dei tipi delle macchiette si deformò dalla satira al nonsense.
Conquistò anche una dimensione autoriale e al ritorno in Italia creò nel 1908 da una traduzione dell’Andouille marche di Dranem (pseud. di Armand Ménard) donatagli da Primo Cuttica, I salamini. Da allora accompagnò questa predilezione per le ‘cretinerie’ – che culminò nel 1914 nella creazione di Fortunello – con il genere delle parodie come Il Faust o Margherita non sei più tu (nata Oltreoceano), Otello, Cyrano, Il paggio Fernando (da La partita a scacchi di Giuseppe Giacosa), Amleto (su dei versi di Libero Bovio scritti appositamente per lui), Il Sor Capanna, Ma l’amor mio non muore ecc., cui aggiunse anche vere e proprie macchiette come l’Antico Romano, Giggi er bullo, Il prestigiatore Napoleone, Il conte di Acquafresca, Il turco, Divorzio al parmiggiano, Quando l’amore è de… cesso (divenuta in seguito La canzone delle cose morte), e dei pezzi più liberi come gli Stornelli malthusiani e gli Stornelli omeopatici.
Con ‘un repertorio a sé’, trionfò anche a Napoli, divenendo stella di prima grandezza, tanto da far sentenziare al Giornale di Sicilia: «Petrolini non ha nulla in comune col Villani e col Maldacea» (19 ottobre 1910). Da allora i suoi cachet passarono da 50 a 300 lire a serata (Calcagni, 2011, p. 107). L’attore colse al balzo l’occasione e nel 1911 si lanciò nel capocomicato. Nello stesso anno si sciolse in modo traumatico il suo sodalizio con Ines Colapietro che, stanca delle continue infedeltà del compagno, si legò all’attore Gustavo De Marco. Petrolini continuò a duettare, spesso non solo sul palcoscenico, con le più grandi dive del varietà: Ersilia Samperi, Olimpya D’Avigny, Eugenie Fougère, Ivonne de Fleuriel, e altre ancora tra cui la giovanissima Anna Fougez, che si innamorò di lui, e Maria Campi, l’inventrice della ‘mossa’ con cui fece compagnia nel 1914 e cui dedicò uno stornello malthusiano da serata nera: «Maria Campi è quella cosa /che innamora il giovinetto; / se ci vai una volta a letto / stai sicur non campi più!…» (cfr. Petrolini, Ti ha piaciato?, 1915, p. 74).
Con il successo iniziarono a fioccare gli imitatori. Nel 1915 raccolse in Ti ha piaciato? tutto il suo repertorio di macchiettista, in una forma assai simile a uno zibaldone dei comici dell’arte. Fu una sfida alla mediocrità dei suoi imitatori, ma fu soprattutto una vera e propria dichiarazione di poetica. Petrolini infatti non abbandonò le sue creazioni riproponendole nei programmi della sua compagnia e creandone anche di nuove come Gastone (1921), ma il capocomico guardava più lontano.
Tra il 1913 e il 1915 si creò un nuovo repertorio in bilico tra varietà, farsa e commedia (Venite a sentire, scritto in collaborazione con G. Carini; Senza sugo (acqua salata) di T. Masini; 47 morto che parla, in collaborazione con C. Granozio e Silvano D’Arborio ecc.). Contemporaneamente, per attirare su di sé l’interesse della critica colta, si servì dell’ammirazione che i rissosi futuristi avevano per lui inscenando nel 1914 e nel 1917 alcune serate futuriste al Politeama di Mantova e di Napoli.
Inserì anche nel suo repertorio le riviste Zero meno zero (1915), scritta in collaborazione con Luciano Folgore (Esopino), Giallo+rosso+violetto+arancione (1916) di Bruno Corra e di Emilio Settimelli, e soprattutto creò Radioscopia con Francesco Cangiullo, già mentore di Viviani, che ebbe un grande successo e da cui Mario Bonnard trasse il film Mentre il pubblico ride (1919), interpretato dallo stesso Petrolini. L’attore tuttavia non fu un futurista di provata fede se poté dire in privato, come riferì Silvio D’Amico, rimarcando quanto affermato da Gabriele d’Annunzio, che Filippo Tommaso Marinetti era «uno scemo che ogni tanto ha un lampo di imbecillità» (A. Calò, Ettore Petrolini, 1989, p. 31). Del resto nel suo repertorio, accanto alle sintesi futuriste e al farsesco Nerone convivevano degli atti unici di saporosa ispirazione vernacolare, frutto della sua penna che poco avevano a che vedere con le avanguardie: Romani de Roma, Amori de notte, Ottobrata (ricavato da un copione romanesco del gobbo Taccone). Questi testi costituirono il nucleo poetico che gli permise di passare dal varietà al teatro comico. A essi si aggiunsero la patetica storia del Cortile di Fausto Maria Martini che aggiunse un nuovo registro drammatico alla sua recitazione e diventò uno dei suoi cavalli di battaglia.
Per una singolare simmetria anche questa volta due lunghe tournées in Sud America, nel 1919-20 e nel 1921 (da cui fece ritorno con la sua nuova compagna, la diciassettenne ballerina ispano-ungherese Elma Criner Fernandez), servirono a preparare la conquista dei circuiti dei teatri di prosa di tutta la penisola e le lodi sperticate della critica italiana. Al suo repertorio si aggiunsero Cento di ’sti giorni (scritto con Checco Durante entrato a far parte della sua compagnia), È arrivato l’accordatore di Paola Riccora, Pipino re di Colombino e De Maria, e Un garofano rosso di Ugo Ojetti che gli procurò la benevolenza del Corriere della sera. In Sud America rielaborò un testo di Rafael J. de Rosa e Armando Discepolo, Mustafà, che divenne un altro cavallo di battaglia e con il quale raggiunse «le vette dell’arte comica» (S. d’Amico, in L’Idea nazionale, 8 giugno 1923). Nel 1922 lasciò il varietà alle sue spalle e il libro Abbasso Petrolini (Siena 1922) suggellò questo cambiamento.
Nel volume raccolse ciò che avevano detto su di lui critici e letterati come Ojetti, D’Amico, Marinetti, Civinini, Bontempelli, Levi, D’Ambra, Vergani, Paolieri, Ramperti e Gordon Craig, non dimenticando quelli dell’America Latina che per primi avevano compreso il suo genio. Ai critici che tentavano di inquadrarlo come un discendente dei comici dell’arte, che allora significava sottintendere una sostanziale indisciplina nel rapporto con il testo, replicò proponendosi come ‘fenomeno’ che, con la sua sensibilità per ‘l’ambiente’ in cui palcoscenico e vita erano tutt’uno, trovava le più efficaci risorse comiche.
Ancora una volta cercò di promuovere l’originalità del suo lavoro teatrale, ma non riuscì mai a diventare un drammaturgo come Viviani ed Eduardo o un perfetto concertatore di attori, né tanto meno un regista. Cercò nuovi orizzonti perché, come scrisse in una nota che non pubblicò in vita, «L’applauso e l’ammirazione costante stanca, annoia; allora si cerca l’impossibile» (in Al mio pubblico. Scritti postumi, Milano 1937, p. 134). Petrolini decise quindi di esplorare i registri di una recitazione drammatica per obbligare la critica a riconoscere la dimensione artistica del suo lavoro, anche se considerava un pregiudizio che l’attore fosse considerato artista solo «quando si produce nei lavori cosiddetti seri» (Abbasso Petrolini, cit., p. 139). Nel 1923 guadagnò la partita interpretando Agro de limone (adattamento ad ambiente romano di Lumie di Sicilia di Luigi Pirandello), e ravvivando un vecchio classico come Il medico per forza di Molière, avvalendosi della sua antica perizia di farceur memore forse di quel Pulcinella dottore spropositato recitato con una scalcinata compagnia di guitti (cfr. Petrolini [catal.], a cura dell’Associazione culturale Witz, Roma 1982, ill. n. 66). D’Amico scrisse ammirato: «Quello a cui Copeau e i critici francesi sono giunti per riflessione, Petrolini l’ha imbroccato naturalmente, senza sforzo», e concluse l’articolo esortando «Date commedie a Petrolini» (L’Idea nazionale, 3 giugno 1923). L’attore non amava questo genere di lodi che diminuivano la sua intelligenza d’interprete, perché, diceva, «l’istinto è una cosa da cani» (Modestia a parte…, cit., p. 205), ma cercò nuovi testi. Il suo repertorio si giovò così della collaborazione di molti autori italiani ben lieti di affidargli i propri copioni, anche se venivano sistematicamente riadattati e in gran parte voltati in romanesco, per le laute rimesse dei diritti d’autore che i successi dell’attore assicuravano.
Foltissimo dunque il repertorio della Compagnia Petrolini. I testi più rappresentati negli anni Venti furono Peppe er pollo e Coraggio di Agusto Novelli, Ma non lo nominare di Arnaldo Fraccaroli, La trovata di Paolino di Renzo Martinelli, Ghetanaccio di Augusto Jandolo, Mezzo mijone di Alfredo Testoni, Bartolomeo Pinelli di Ettore Veo, Er Castigamatti di Giulio Svetoni, Il maresciallo e Scarfarotto di Gino Rocca, Le esperienze di Giovanni Arce filosofo di Rosso di San Secondo. A questi si aggiunsero le creazioni dello stesso Petrolini: Gastone, Il padiglione delle meraviglie (che non ebbe troppa fortuna) nel 1924, Pulcinella guardiano di donne (1926) e Benedetto tra le donne (1927).
L’accortezza del capocomico fece e accrebbe il successo dell’attore. Fascista della prima ora, fu amico di Giuseppe Bottai già dal 1922. Mise in scena Fonno d’oro, atto unico di Galeazzo Ciano (quando non era che il critico teatrale dell’Impero) e seppe abilmente manovrare per ottenere nel 1923 la nomina a ufficiale della Corona d’Italia salvo poi dichiarare: «me ne fregio» (A. Calò, Ettore Petrolini, 1989, p. 133). Nello stesso anno si ‘fregiò’ assai di più dell’udienza concessagli dal presidente del Consiglio Benito Mussolini. Nel 1925 su proposta del ministro della Pubblica Istruzione Pietro Fedele gli fu conferita la nomina a commendatore dell’ordine della Corona d’Italia e Bottai cinque anni più tardi lo fece promuovere grand’ufficiale. Tale familiarità con le alte gerarchie del Partito nazionale fascista (PNF), ma anche con i principi di casa Savoia, gli fu molto utile quando, conquistate solidamente fama e agiatezza, volle compiere un ulteriore passo nella sua carriera artistica cercando di scrollarsi di dosso l’etichetta di attore vernacolare. Ancora una volta un libro e delle tournées all’estero segnarono il cambiamento.
Con Modestia a parte... Petrolini riaffermò e approfondì la regola aurea degli attori di varietà, di essere cioè «una figura a sé» (p. 207), raccontò le origini della sua vocazione e tracciò il profilo di una poetica della recitazione centrata su «Vita, sensibilità e naturalezza! Anche nelle mie caricature, – scrisse – anche nella girandola dei miei paradossi scemi o seri c’è la vita. Questo per me è il teatro. Io porto in scena tutto quello che nella vita ho osservato e… rubato. Perché io rubo sempre, ovunque e a tutti» (ibid., p. 203). E poi affermò paradossalmente: «Non ho mai pensato di fare del teatro romanesco; se il teatro romanesco fa Petrolini pazienza!…».
Nonostante le condizioni di salute sempre più precarie (una seria flebite nell’estate del 1928, un infarto a Torino nel dicembre del 1929 con una grave ricaduta a Milano a gennaio del 1930) la sua attività fu frenetica e tutta mirata a dimostrare vero il suo paradosso. Nel 1930 girò per la Cines di Stefano Pittaluga alcuni film sonori. Con Nerone, coadiuvato da Alessandro Blasetti, affidò alla pellicola la memoria del suo teatro svolgendo il film come se si trattasse di una sua serata teatrale, mentre con Il cortile, diretto da Carlo Campogalliani, cercò di fissare una delle sue più riuscite interpretazioni drammatiche (purtroppo il cortometraggio è andato perduto) e con Il medico per forza, sempre diretto da Campogalliani, la sua più prestigiosa interpretazione comica. Accrebbe il repertorio della sua compagnia scrivendo Checchignola (1931), e fece parecchie riduzioni da Labiche e Dufrenois, Molnár, Guitry, Ettore Romagnoli, suo grande estimatore sin dai tempi del varietà, rinnovò i successi di pubblico con Tocca la frusta di Luigi Chiarelli, Zeffirino di Giancapo (Giovanni Capodivacca), Il giullare di G. Bevilacqua, Il Cantastorie di Alberto Simeoni e Ferrante De Torres, Il Barone di Corbò di Luigi Antonelli, Gioacchino Belli di Jandolo, Tutto s’accomoda di Enrico Serretta, e via enumerando.
Deciso a diventare l’ambasciatore del teatro italiano all’estero, si servì molto abilmente della benevolenza del duce e della protezione di Bottai e Ciano e non fu un caso che la sua tournée a Parigi ebbe luogo proprio nella primavera del 1933. Pierre Brisson nelle sue Croniques théâtrales, in Temps (19 giugno 1933) scrisse: «Per festeggiare la firma del patto a quattro, e a testimonianza di soddisfazione, l’Italia ha delegato uno dei suoi più noti attori, Ettore Petrolini il cui nome sino a oggi era del tutto sconosciuto al pubblico francese». Dal piccolo teatro della Potinière situato a poca distanza dall’Opera, Petrolini conquistò Parigi, per la sua bravura, certamente, ma anche grazie alle relazioni che la diplomazia fascista gli procurò: un banchetto in suo onore celebrato all’Association professionnelle des théâtres et spectacles in cui «Si acclamò Petrolini e con lui la buona intesa franco-italiana» (La Rampe, 15 luglio 1933, p. 34); e soprattutto l’invito alla serata d’addio alla Comédie française della ‘grande coquette’ Cecile Sorel (moglie del conte di Segour alto funzionario del ministero degli Esteri e attore dilettante) in cui il comico italiano, accanto a vedettes come Šaljapin, Mary Garden, Dranem, Serge Lifar, Madeleine Renaud, Edwige Feullière Max Dearly, Richard Tauberg e Marlene Dietrich, ebbe l’audacia di recitare una scena del suo Medico per forza.
Le cose però non andarono proprio per il meglio, alcuni spettatori «manifestarono rumorosamente il loro scontento» e addirittura un signore con la barba «si comportò grottescamente» tanto che il conte Armand de la Rochefoucault «gli diede una giusta lezione di cortesia» (Saint-Florent, Salon des médisance, in Cyrano, X (1933), n. 472, 30 giugno). L’attore però seppe trarre il massimo vantaggio dall’essere stato accolto nella casa di Molière e, in patria, la notizia fece sensazione tanto che ancora oggi la storiografia parla con la voce della propaganda fascista.
Il regime aveva adottato Petrolini, gli fece ottenere la legione d’onore per meriti artistici e, benché l’attore rischiasse in proprio, lo investì del ruolo di portavoce dell’‘italianità’ all’estero (Pedullà, 1994, p. 273). Dal 1933 al 1935 fece più di 220 recite toccando Francia, Inghilterra, Egitto, Libia, Tunisia, Germania, Svizzera e Austria. Infervorato dalla sua battaglia scrisse a d’Amico: «vedi quello che sto facendo per dimostrare a tutto il mondo che io sono un artista teatrale. E così se tu scriverai ancora di me e dirai che non sono l’artista da essere confuso con i dialettali mi renderai giustizia» (cit. in A. d’Amico, 2002, p. 305). Aveva proposto al critico di scrivergli un dramma su san Filippo Neri e si era dichiarato disposto a insegnare nella futura Accademia d’arte drammatica che stava per essere creata, ma tutti questi progetti, parte della sua caparbia campagna per diventare il più grande attore ‘italiano’, furono bruscamente stroncati. Il 3 luglio 1935, mentre recitava al teatro Quirino di Roma, un attacco di angina pectoris molto più grave dei precedenti lo costrinse al riposo assoluto. Sposò allora Elma Criner che gli era stata accanto sin dal 1921. Costretto a un’inattività forzata nella villa che si era fatto costruire a Castel Gandolfo (con tanto di teatro all’aperto), scrisse la commedia Il metropolitano, che rimase inedita, e il suo ultimo libro Un po’ per celia e un po’ per non morir… in cui tirò le somme della sua opera interrotta. Il 21 aprile in segno di ammirazione e riconoscenza compose per il duce la canzone Roma e gliela offrì. Tre mesi prima di morire acquistò a Roma un appartamento in un modernissimo palazzo in via Maria Adelaide 4 a due passi da piazza del Popolo «per non morire in una casa d’affitto» (abitava in via del Tritone). L’arredò con cura, vi sistemò la sua biblioteca, le sue collezioni e i suoi quadri. Il 19 giugno 1936 fu insignito, per motu proprio del re, della commenda dell’Ordine mauriziano. Fu l’ultimo riconoscimento.
Petrolini morì il 29 giugno 1936 alle ore 2,24 dopo una lotta con la morte durata due giorni.
Una delle sue ultime frasi fu «Quanto mi piacerebbe di rifare un’altra volta Mustafà!» (M.C. Corsi, Vita di Petrolini, Milano 1944, p. 240): da dieci mesi mancava dalle scene, mai da quando aveva abbracciato il teatro era stato tanto tempo senza recitare.
Fonti e Bibl.: L’archivio di P. è conservato a Roma, nella Biblioteca e museo teatrale del Burcardo SIAE. Per una bibliografia completa di e su Petrolini, curata da Maria Teresa Jovinelli, si rimanda a: www.burcardo.org/mostre/petrolini/ index.asp. Si vedano inoltre: G. Pedullà, Il teatro italiano nel tempo del fascismo, Bologna 1994, pp. 262 ss.; A. d’Amico, “Vado bene?” ovvero un’amicizia difficile, in Granteatro: omaggio a Franca Angelini, a cura di B. Alfonsetti - D. Quarta - M. Saulini, Roma 2002, pp. 289-309; D. Orecchia, P., in Archivio multimediale degli attori italiani (2011), http://memoria-attori.amati.fupress.net; nonché il documentatissimo A. Calcagni, Enciclopedia dei Loris-P.: tempi, luoghi e personaggi di una coppia di caffè concerto, Roma 2011, cui si deve fare riferimento anche per una discografia aggiornata dell’attore. Le pagine delle citazioni tratte dalle opere di Petrolini si riferiscono all’edizione Facezie, autobiografie e memorie, a cura di G. Antonucci, Roma 1993.