Gilson, Étienne
Filosofo (n. a Parigi nel 1884), professore alla Sorbona, poi al Collegio di Francia, accademico di Francia. Ha dedicato a D. i seguenti studi: Dante et la philosophie, Parigi 1939, 1953; Les Métamorphoses de la Cité de Dieu, ibid. 1952, cap. IV: " L'Empire Universel ", 110-153; Poésie et théologie dans la Divine Comédie, in " Atti del Congresso Internazionale di Studi Danteschi ", Firenze 1965, 197-223; A la Recherche de l'Empirée, in " Revue des études italiennes " XII (1965) 147-161; Réflexions sur la situation historique de Dante, in " Dante e la Cultura Veneta ", Firenze 1966, 3-11; Trois études dantesques pour le VII.ème centenaire de la naissance de Dante, in " Archives d'hist. doctrinale et littéraire du Moyen Age " XL (1965) 71-126; La ‛ Mirabile Visione ' di Dante, in " Quaderni dell'Istituto Italiano di cultura di Parigi " (in collaboraz. con " Il Veltro, rivista della civiltà italiana "), Parigi 1966, 3-16.
Subordinare l'esigenza di classificare a quella di comprendere, è il criterio che ha guidato il G. nei suoi studi danteschi: sicché egli cerca in D. il tratto che gli è singolare e unico, alla luce del quale tutte le tesi subordinate possano venire intese nella loro coerenza. Non isola il pensiero di D. dalle correnti del suo tempo; bensì ne intende i rapporti, dopo aver fissato quel tratto unico e fondamentale che, a suo giudizio, è l'armonia (di cui il riflesso pratico è la pace) tra l'ordine politico, filosofico e teologico, raggiungibile soltanto attraverso il riconoscimento della totale autonomia, pur nella gerarchia di dignità, dei tre ordini. Essa è la forma autentica di rispetto dell'ordine stabilito da Dio. Il G. critica i tentativi di ricondurre la posizione di D. alla tomista o all'averroista. Per s. Tommaso ogni gerarchia di dignità è al tempo stesso una gerarchia di giurisdizione, mentre per D. - tranne che per Dio - una gerarchia di dignità non è mai fondamento di una gerarchia di giurisdizione, e ciò corrisponde al problema filosofico specifico di D., che non è tanto quello di definire l'essenza della filosofia, quanto di determinare delle funzioni e delle giurisdizioni. Il principio a cui ubbidisce questa determinazione non è assolutamente conciliabile col tomismo. S. Tommaso non conosce che un solo fine ultimo: la beatitudine eterna, che non si può attingere se non attraverso la Chiesa; inoltre la spiritualità del fine ultimo importa che tra il potere temporale e lo spirituale vi sia la subordinazione gerarchica del mezzo al fine. Per D., invece, l'uomo può ottenere, attraverso l'esercizio delle virtù politiche, una felicità umana completamente distinta dalla beatitudine celeste, anche se questa rappresenta un fine più alto. La tesi dei " duo ultima " legittima la completa distinzione dell'ordine politico dall'ordine religioso, ugualmente universale a quello della Chiesa, ma autonomo e perseguente un fine di felicità terrena. Così si delinea in D. la prima forma dell'idea di umanità.
Quanto all'averroismo, il G., considerato che l'essenza dell'averroismo autentico è la completa subordinazione della religione alla filosofia, ritiene che l'abisso tra esso e D. sia incolmabile. Per D. esiste un ordine soprannaturale distinto, valido in sé, e i cui mezzi propri, diretti verso il suo fine proprio, s'impongono ugualmente a tutti gli uomini, compresi i filosofi. Per D. l'imperatore deriva il suo potere direttamente e immediatamente dal Dio trascendente, e senza trascendenza divina l'intera costruzione politica dantesca crollerebbe. Mancano completamente in D. - secondo G. - premesse metafisiche di tipo averroistico come le dottrine dell'intelletto unico, dell'eternità del mondo, della mortalità dell'anima; anzi su questi punti professa tesi esattamente opposte. Come pure il G. esclude che D. sia stato influenzato dall'averroismo latino secondo cui esisteva un disaccordo di fatto tra certe conclusioni della filosofia e certi insegnamenti della rivelazione cristiana: infatti né nella Monarchia né nel Convivio è accolta una sola conclusione filosofica che sia in disaccordo col dogma cristiano. L'interpretazione tomista e averroista rischiano perciò di spezzare il pensiero dantesco in due tronconi. Il pensiero dantesco prende dunque posto nella storia dell'aristotelismo medievale come posizione autonoma, e il significato del momento aristotelico può essere colto nel sottolineare la presenza continua in D. dell'Etica nicomachea. Perciò il G. giunge a definire l'atteggiamento di D. " come uno sforzo per fondare il suo separatismo politico sulla morale di Aristotele ". Questa singolare forma di aristotelismo cristiano porta D. a un'inconciliabilità completa col pensiero agostiniano: l'elevazione della felicità politica temporale al grado di fine ultimo sancisce una rottura radicale con esso.
Ciò permette al G. di definire i caratteri distintivi della sua interpretazione nei riguardi del Nardi e del Barbi. Del Nardi condivide la tesi che l'affermazione dell'indipendenza dello stato dalla Chiesa importa quella dell'autonomia della ragione dalla teologia. Però separa nettamente le ricerche dantesche del Nardi in quanto analisi lucide e rigorosissime, dalla ricomprensione che egli ne fa in una visione della storia del pensiero che sarebbe di tipo gentiliano. Né accetta la tesi secondo cui D. avrebbe recepito elementi averroisti. Del Barbi discute la tesi di un laicismo cristiano di D., per cui il fine terrestre non è mai separabile dal fine celeste e che quindi l'azione dei capi della Chiesa e dell'Impero non può essere stata concepita da D. come separazione netta, ma piuttosto come continua cooperazione. Ma per il G. termini quali " distinzione e congiunzione " e " continua cooperazione " rischiano di sminuire l'autonomia dantesca che ha la funzione di affermare la perfetta sufficienza della ragione naturale a conferire all'uomo la felicità terrestre nell'ordine dell'azione. Il punto centrale della filosofia dantesca sarebbe l'avvertimento della connessione tra autonomia del temporale dallo spirituale e della filosofia dalla teologia. L'assunto gilsoniano di cercare la singolarità della filosofia di D. lo porta a criticare le interpretazioni allegoriche o forme interpretative che riducano i personaggi di D. alla loro funzione simbolica. Mai la critica dell'interpretazione allegorica era stata portata tanto a fondo. Per questa via egli arriva a un'originale considerazione del simbolismo dantesco: il colpo di genio di D. sta nell'aver rovesciato il tipo dell'allegorismo tradizionale: per lui i personaggi non sono astrazioni personificate ma persone viventi, significative di realtà spirituali che le oltrepassano. Personaggi-idee che non cessano di essere viventi per essere portatori di un significato spirituale. Da tale considerazione del simbolismo derivano due regole interpretative: a) un personaggio della Commedia non conserva della sua realtà storica che quel che esige la funzione rappresentativa che D. gli assegna; b) la realtà storica dei personaggi non ha diritto d'intervenire nella loro interpretazione che per quel che è richiesto dalla funzione rappresentativa che D. assegna loro e per cui li ha scelti. È inutile sottolineare l'importanza di questa tesi per quel che riguarda l'intendimento stesso della poesia di D., in quanto si pone come alternativa alla consueta interpretazione allegoristica o a quella che negando il valore della struttura della Commedia vede in essa una serie di liriche. Questa tesi mostra come l'approfondimento della filosofia di D. interessi lo studio della stessa sua poesia.
Nella Monarchia possiamo cogliere un D. filosoficamente creatore; un moralista, piuttosto che un me metafisico o un teologo. S'intende perciò quel ‛ primato della morale ' da lui asserito nel Convivio. La riforma morale dantesca è fondata sulle idee di autorità, ordine, obbedienza, intese nel significato più forte e nel loro fondamento metafisico. A pochi altri pensieri come al dantesco converrebbe l'appellativo di filosofia dell'umiltà. Infatti nell'ordine filosofico maestro e duca de la ragione umana è Aristotele, perciò dignissimo di fede e d'obedieza (Cv IV VI 6). La sua autorità non significa soltanto che è il maggiore dei filosofi antichi, ma che Dio ha sottomesso a lui la morale. Di più, nessuna delle autorità umane è creatricè. Aristotele è stato umile rispetto alla verità oggettiva, l'imperatore è umile rispetto all'ordine morale, il servo de' servi conserva umilmente il deposito della Rivelazione. Essi sono tali in quanto rispettano l'ordine stabilito da Dio, che non può venire inteso come volontà arbitraria. La giustizia appare anzitutto come fedeltà alle autorità rese sacre dall'origine divina. In dipendenza da questa morale del rispetto dell'ordine s'intende come la giustizia sia il tema conduttore dell'opera dantesca, e come nella cupiditas, cioè nella volontà di usurpazione, sia visto il suo opposto. Questa filosofia dell'umiltà, per la generale disposizione oggettivistica e in quanto definisce la virtù come accettazione incondizionata dell'ordine, porta il G. a criticare la tesi dell'‛ umanesimo ' di D.: lo ‛ spirito di scoperta ' come antitesi della sottomissione al mistero e volontà di conseguire la ‛ scienza del bene e del male ' è condannato in Ulisse.