Etica nicomachea
(’Ηϑικὰ Νικομάκεια) Opera di Aristotele. Suddivisa in dieci libri, raccoglie la trattazione più compiuta dell’etica aristotelica. L’indagine deve chiarire quale sia il fine della vita dell’uomo e quali i mezzi mediante i quali ottenerlo. Essendo tale fine il bene, bisogna stabilire in quale modo sia possibile conseguirlo; la scienza che consente di raggiungere il bene e il giusto è la politica, la quale, rispetto alle altre scienze pratiche riguardanti la comunità sociale, ha un ruolo architettonico, ossia ne determina i fini in vista di un bene più perfetto, quello della città. Essendo i beni molteplici e legati ai diversi generi di vita, è necessario stabilire come raggiungere un equilibrio tra fini particolari e bene, e come conseguire la felicità (εὐδαιμονία); quest’ultima consiste, per Aristotele, nell’attività conforme alla virtù (lib. 1°). Le virtù sono di due tipi: etiche, ossia relative alla prassi e concernenti la parte appetitiva dell’anima, e dianoetiche, ossia relative all’intelletto, e nell’esercizio delle quali la natura dell’uomo si realizza pienamente. Il criterio che regola le virtù etiche è la medietà (μεσότης), il «giusto mezzo» fra eccesso e difetto, mentre le condizioni cui deve sottostare l’azione virtuosa sono: la sufficiente conoscenza della situazione concreta in cui si agisce; la scelta deliberata; la scelta del fine condotta in base a una disposizione stabile nei confronti della virtù (lib. 2°). Un’azione può essere valutata moralmente soltanto quando è frutto della scelta e della deliberazione riguardo ai mezzi per conseguirne il fine (lib. 3°). Le virtù etiche, in quanto non intellettuali, non sono insegnabili, ma devono essere apprese mediante la pratica, l’abitudine e seguendo l’esempio di uomini saggi. La più importante, fra le virtù etiche, è la giustizia (δικαιοσύνη), che si divide in distributiva, e segue la proporzione geometrica, o correttiva, e segue la proporzione aritmetica. La distributiva è impartita tenendo conto delle differenze e dei meriti; la correttiva interviene allorché si presentino squilibri nei rapporti fra gli uomini. L’equità (ἐπιείκεια) è invece la virtù che interviene a correggere la legge laddove essa presenta carenze, in quanto universale, nell’applicarsi a casi particolari (libb. 4°-5°). Le virtù dianoetiche, poiché realizzano il fine dell’uomo come intelligenza, attengono al piano teoretico e sono insegnabili. L’anima razionale si suddivide in base all’oggetto che le è proprio in quanto scientifica, ossia rivolta alle cose eterne e immutabili (necessarie); o in quanto opinativa, ossia rivolta a ciò che può essere o non essere (il contingente). Alla parte scientifica dell’anima afferiscono le virtù dell’intelligenza (νοῠς; la capacità di cogliere i principi di tutte le scienze intuitivamente), della scienza (ἐπιστήμη; la capacità di dedurre la verità dai principi), della sapienza (σοφία; che risolve in un’unica conoscenza ciò che si deduce mediante intelletto e scienza). Alla parte opinativa dell’anima attengono invece la ragionevolezza o saggezza (φρόνησις), ossia il saper deliberare e ben dirigere la propria vita, e l’arte (τέχνη), la capacità di produrre cose che non esistono in natura. La virtù più alta, in cui consiste la felicità, è la sapienza, «scienza con fondamento delle realtà più sublimi», superiore per questo alla saggezza, la quale è comunque condizione necessaria di tutte le virtù (lib. 6°). Dopo l’analisi della continenza e dell’incontinenza (lib. 7°), con la condanna del piacere in quanto tale, Aristotele passa (lib. 8°) a trattare dell’amicizia (φιλία), che «è una virtù o s’accompagna alla virtù» ed è «necessarissima per la vita» (1155 a); essa deve rispondere a tre requisiti: la mutua benevolenza, la volontà del bene, la manifestazione esteriore dei sentimenti. Amicizia perfetta è quella dei buoni, che si assomigliano per la virtù. L’uomo virtuoso (lib. 9°) intrattiene anche con sé stesso un rapporto di amicizia, ossia di «amore di sé» (φιλαυτία), una forma di egoismo non deteriore che gli deriva dall’essere consapevole della propria virtù e dall’amarla. «L’amicizia è comunanza» e con gli amici virtuosi si attua un completamento reciproco della virtù. A questo punto (lib. 10°) Aristotele può parlare della felicità considerandola come raggiungimento del fine proprio dell’anima razionale, il conoscere, al quale si accompagna un piacere che consiste nell’esercizio non ostacolato della facoltà. Essa è un’attività di contemplazione individuale e distaccata fine a sé stessa che rende quasi simili agli dei: «se […] in confronto alla natura dell’uomo l’intelletto è qualcosa di divino, anche la vita conforme a esso sarà divina in confronto a quella umana» (1177 b). Vi è, però, «al secondo posto», una felicità inerente alla vita attiva; essa è conforme all’esercizio delle virtù etiche e trova la sua espressione più completa nella politica.
Sono le altre due opere di Aristotele consacrate all’etica che ci sono pervenute. L’Etica eudemia ripercorre con stile più ricercato molti dei contenuti dell’Etica nicomachea, con la quale converge in taluni libri, mentre la Grande etica si presenta come un mosaico delle altre due opere.