Etica e religione in Gentile
Sulla scia kantiana, Gentile evidenzia il legame che stringe indissolubilmente la dimensione etica e l’esistenza della libertà. Per questo verso, l’attualismo enfatizza il ruolo fondante dell’attività spontanea e autonoma dell’uomo in relazione al dominio della realtà soggetta al bene e al male. La libertà costituisce cioè il presupposto inderogabile dell’esperienza morale, collegata alle necessità della vita pratica. D’altra parte, non solo «non c’è uomo del nostro tempo che abbia il coraggio di chiedere una dimostrazione della libertà» (G. Gentile, Storia della filosofia (dalle origini a Platone), a cura di V.A. Bellezza, 1964, p. 28), ma «ogni tentativo di estirpare dal proprio animo questa fede, è una flagrante conferma di essa» (G. Gentile, La riforma dell’educazione. Discorsi ai maestri di Trieste, 1920, 19756, p. 40). Sennonché, a differenza di Immanuel Kant, Gentile invitava ad apprezzare la consistenza morale anche della vita teoretica, riconducibile, a suo avviso, al gesto attuale dell’Io. Il bene e la verità, insomma, dovevano entrambi riferirsi all’azione del soggetto, chiamata in causa non solo quando si trattava di suscitare la realtà oggetto del fare, ma anche nel momento in cui era l’oggetto del conoscere a imporsi. Volontà e intelletto, infatti, coincidevano nel pensiero in atto per cui non c’era nulla al mondo che non assumesse le sembianze del fatto perché voluto. O non era forse voluto il vero, allo stesso modo del buono; voluto, a scapito del falso, analogo del male da cui si era chiamati appunto a prendere le distanze? Non era cioè un valore la verità cui aspirava il conoscere, evitando di imbattersi nell’errore?
Si trattava allora di rendersi conto che la verità, quanto il bene, implicava una scelta, vale a dire una decisione, tradotta nel giudizio escludente (A non è non-A) di colui che se ne assumeva la responsabilità, in modo tale da impegnare tutto se stesso. In effetti, l’uomo sperimentava così il docile cedimento della realtà allo sprigionarsi attuale di una logica trasparente a se stessa nel farsi mondo di un mondo che non era mai se stesso, senza divenirlo. In questa prospettiva, insomma, il voluto non eccedeva l’atto del volere, ma lo esprimeva, soggetto al suo imperio, tolto il quale il bene e la verità precipitavano nell’indifferenza del fatto, che è quel che è: né buono né cattivo (o buono e cattivo), né vero né falso (o vero e falso), essendo, per dir così, buono e vero per alcuni, cattivo e falso per altri. Si trattava cioè di comprendere che non poteva esserci altra volontà del bene e della verità tranne quella chiamata a fare i conti esclusivamente con se stessa, artefice e testimone di un volere come volersi del soggetto. Volere il buono e il vero significava dunque volere se stessi volenti il buono e il vero che, evidentemente, scaturivano da sé, annullando in un solo colpo ogni presupposto, compreso il soggetto astrattamente chiamato a suscitarli.
Lungo questa via, allora, la verità e il bene stavano nello sguardo operoso dell’Io che se ne appropriava, appropriandosi di sé, senza che nulla anticipasse il suo avvento. In un testo pubblicato nel 1914, che Gentile avrebbe destinato a introdurre la terza edizione (datata 1937, ma il testo era già comparso in appendice alla seconda, del 1923) dei Fondamenti della filosofia del diritto (1916), si legge appunto che «la volontà, dunque, è sì creatrice della realtà morale, ma in quanto creatrice di se medesima come realtà morale» (19613, p. 9). Il padre dell’idealismo attuale suggeriva cioè come soltanto in astratto l’oggetto del conoscere anticipasse il soggetto da cui invece scaturiva l’esito della sua volontà. In concreto, il soggetto che andava incontro al vero, adeguandone le fattezze, non differiva da quello che votava se stesso al bene, facendolo trionfare. In entrambi i casi, infatti, il soggetto doveva apparire come il protagonista di un’impresa etico-gnoseologica, tale per cui nulla veniva alla luce, e si imponeva, che non fosse il risultato incessante di una deliberazione attuale, preda dell’Io. Di conseguenza, si sarebbe perciò anche potuto dire che il soggetto, incontrando il vero, adeguava se stesso, per quel tanto che il sé da adeguare coincideva con quello al quale esso, suscitando il bene, appariva indirizzato. Ora, se la realtà era quella che scaturiva in ragione del pensare, quando il pensare sprigionava la coscienza di sé, la conclusione non poteva che suonare come una perentoria riconduzione dell’essere alla consapevolezza del soggetto. «La realtà è l’esperienza nella sua immanente consapevolezza», scriveva allora Gentile (La riforma della dialettica hegeliana, 19232, 19754, p. 258), invitando a non separare astrattamente i due termini chiamati a stringere il nodo sintetico dell’attualità. Non un esser già, né dal lato del soggetto né da quello dell’oggetto, bensì un divenire soggetto del soggetto nell’oggetto che, provenendo dal niente di sé, scaturiva al modo del dover essere.
La consistenza «essenzialmente morale» (lettera del 18 luglio 1900, Lettere a Benedetto Croce (1896-1900), a cura di S. Giannantoni, 1972, p. 310) dell’orizzonte trascendentale inaugurato dall’Io penso doveva allora disfarsi non solo dell’oggetto astrattamente affidato allo scrupolo gnoseologico del soggetto, ma anche di quello suscitato invece dal suo astratto esercizio pragmatico. Che la volontà del soggetto volente, volendo qualcosa, volesse appunto se stesso, significava allora non solo che il presupposto (dell’Io) fosse un posto (dall’Io), ma anche e soprattutto che il posto equivalesse al porsi (dell’Io). Del resto – così doveva esprimersi Gentile – «non [sarebbe stato] possibile concepire mondo morale senza concepire lo spirito umano come attività creativa» (I fondamenti della filosofia del diritto, cit., p. 3). Ma si trattava appunto della creatività di un’autocreazione. Autoctisi, avrebbe detto Gentile, riprendendo la parola che già Bertrando Spaventa, al seguito di Vincenzo Gioberti, aveva adottato per indicare la libertà dell’uomo ricondotto alla sua consistenza spirituale. Assolutamente incondizionato, l’atto del pensare sprigionava cioè l’attività autocreativa dell’essere buono e vero che, soggetto al sovrano giudizio dell’uomo, all’uomo doveva sempre rispondere. In questo senso, evidentemente, creare il vero e il buono non significava affatto imporre all’uomo la misura del suo giudizio, bensì piuttosto suscitare l’imporsi dell’uomo come misura della verità e del bene. Si trattava allora di rendersi conto che la verità e il bene affidati alla volontà creatrice del soggetto (ma, in effetti, era a un vero bene o a una buona verità che occorreva ormai guardare) non potevano emanciparsi dalla signoria spirituale. In effetti,
quando [della volontà] si dice [che è] creatrice, non si deve intendere già quasi creatrice di un mondo che esca dal suo essere, e si ponga per sé, indipendentemente dal principio positivo donde emana (p. 62).
Occorreva cioè trattenere il punto di arrivo del processo spirituale nel punto di partenza, senza tuttavia abolire la loro differenza, tolta la quale la trasparenza della mediazione cedeva all’opacità dell’immediato. Facendo tesoro del metodo hegeliano, che pure doveva essere riformato (cfr. La riforma della dialettica hegeliana, cit.), appariva necessario insistere sulla circostanza per la quale lo «spirito», agendo, rimaneva ed era se stesso. In questo senso, osservava Gentile, esso «si muove da sé a sé, senza che il punto di partenza si possa distinguere realmente dal punto di arrivo» (I fondamenti della filosofia del diritto, cit., p. 63), per concludere che dunque «il fine non si stacca dal soggetto che lo persegue; è lo stesso soggetto che persegue se medesimo, e, perseguendosi, è, conformemente alla sua natura dinamica e dialettica» (p. 63). Lungo questa via, allora, la «moralità del conoscere» (Sommario di pedagogia come scienza filosofica, 1° vol., Pedagogia generale, 1913, 19345, p. 226), affidato ormai a un intelletto volente o a una volontà intelligente, doveva rinviare a una «gnoseologia dell’amore» (Teoria generale dello spirito come atto puro, 19244, 19385, p. 11) prodiga della conversione della logica nell’etica.
«La logica si converte nell’etica»: così suonano le ultime battute del gentiliano Sistema di logica come teoria del conoscere (2° vol., 1923, 19423, p. 331). La circostanza alludeva a quello che non sarebbe stato possibile finché la logica, astraendo dal «concreto», avesse guardato all’«astratto», confinando il «logo» (vale a dire «la verità nella sua intelligibilità o proporzionalità al pensiero») in una dimensione presupposta al pensiero (1° vol., 1917, 19403, pp. 15-19). Ma ricondotto il logo all’attualità dello spirito che non lo presuppone perché lo realizza, realizzando se stesso, lo sprigionarsi della dimensione etica si sarebbe dovuto imporre come il suo essenziale risvolto. Per Gentile, il punto in questione era risaltato nel passaggio dall’«etica della saviezza», pagana o precristiana, all’«etica dell’amore», che aveva condotto sul palcoscenico della storia «la vera etica, intuita e proclamata dal Cristianesimo», benché «il [suo] primo interprete schietto nella storia della filosofia [fosse stato] Emanuele Kant» (I fondamenti della filosofia del diritto, cit., p. 15). Dopo Kant, infatti, il bene non era più l’oggetto della volontà, che, promettendogli la felicità, traeva a sé l’uomo, anche se dell’uomo e della sua volontà esso non aveva alcun bisogno, bensì lo stesso soggetto della volontà nel suo volere. Non io, evidentemente, bensì l’Io che, con il tono imperioso di chi non ammetteva repliche, si rivolgeva a me, e non solo a me, facendo risuonare in me il dettato della legge, ossia l’universale dovere, che io, insieme a tutti, ero chiamato a onorare, per essere me stesso.
Kant tuttavia non era bastato e al dovere universale l’idealismo aveva infine riconosciuto l’immanente finalità di un gesto d’amore. La moralità del conoscere, emancipandosi dall’erotismo platonico – testimone di un desiderio sequestrato dal bene, che, realizzato, l’uomo non poteva realizzare – doveva cioè suggerire l’esistenza di un intendimento che non prendeva atto della realtà, ma, appunto, la suscitava, innamorandosene. Non, appunto, perché l’oggetto dell’amore preesistesse al desiderio che lo invocava, bensì perché, innamorandosene, l’amore lo poneva in essere, al modo del voluto. Animati da ciò che doveva essere e non era – e doveva essere perché pregiato, buono –, ognuno di noi si adoperava per suscitare
quell’intimità che è propria della realtà che vogliamo effettivamente realizzare, e però realizziamo: intimità all’animo nostro, al nostro cuore vibrante nel suo stesso slancio vitale verso il suo oggetto (Teoria generale dello spirito come atto puro, cit., p. 12).
Per questa via, insomma, l’uomo comprendeva meglio se stesso, avvertendo la stonatura («il difetto, il male, il brutto: ciò che non si amerà mai, perché, per definizione, è ciò che invece si odia», p. 13) del mondo al quale tuttavia egli non voleva rinunciare, perché ciò avrebbe significato rinunciare a se stesso. Rivolgendosi a Croce – che gli rimproverava di aprire le porte a una depressione dei valori, affidati così al capriccio del soggetto, sempre in vista del bene, quasi che il male non fosse – Gentile aveva scritto:
Il peccato, l’errore, il male, il dolore, io me lo sento nelle ossa, intimo a me più che io non sia a me medesimo; e intendo la vita come quella lotta nel mio me vivo, che si divincola in eterno da questo me morto, che gli è dentro, e che egli stesso quasi alimenta: quella lotta che non è il male, ma la negazione di esso, e quindi verità, bontà, gioia o come si voglia dire (Frammenti di filosofia, a cura di H.A. Cavallera, 1994, p. 58).
Agli occhi del filosofo siciliano, ogni altra prospettiva etica finiva con il compromettere l’esistenza del mondo morale, mortificando la volontà dell’uomo. Anzi, siccome fuori dell’orbita idealistica il bene non era bene perché (già) voluto, bensì era voluto perché (già) bene, in quel caso la volontà finiva con l’occultarlo, costringendo l’uomo nel male del quale egli non avrebbe mai potuto liberarsi. Paradossalmente, infatti, stando così le cose, non sarebbe stata la volontà dell’uomo a fare il bene, ma il bene a fare la volontà dell’uomo, riducendola perciò a un fatto che non appariva suscettibile di alcun giudizio morale. Per natura destinato al bene, che così prendeva l’iniziativa, accendendo in lui il desiderio della felicità, l’uomo non sceglieva e non decideva, ma era semmai scelto e deciso. Volere il bene avrebbe cioè significato non volerlo, ma tendere a esso come un corpo tendeva verso il centro della Terra, attirato (senza lode e senza infamia) dalla forza di gravità.
D’altra parte, Gentile doveva osservare come in un tale contesto a venir meno fosse proprio la libertà collegata all’elezione del bene, inscindibile dall’atto morale. Del resto, sarebbe stato facile rendersi conto di come la morale dei Greci, esortandoci a «osservare la legge di natura», consistesse nel «negare la nostra volontà e l’essere propriamente nostro nell’essere della natura» (Discorsi di religione, 1920, in La religione; Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia; Discorsi di religione, 1965, pp. 358-59). Se il «nostro» essere eccedeva il bene che avrebbe dovuto realizzarlo (il vero bene), il nostro essere si sarebbe realizzato solo sgombrando interamente il campo allo spettacolo ideale, così da non lasciare più nessuno in platea a goderselo. Il teoreticismo degli antichi andava incontro a questo esito fatale. E ancora: una volta fatta la legge morale trascendente quella che dettava all’uomo il proprio intendimento, il compito etico per ciascuno di noi sarebbe risultato necessariamente ineseguibile, come per un cieco vedere i colori del mondo. Ma chi davvero avrebbe potuto (anche potendone fare a meno) sgombrare il campo per il bene o, per restare nella metafora proposta, avrebbe dovuto (senza poterne fare a meno) rinunciare ai colori del mondo, se non l’Io che aveva già scorto il bene, cominciando a ospitarlo, e che si rassegnava al buio senza colori, rammentandone la luce?
Gentile invitava allora a considerare l’astrazione che affliggeva l’etica prekantiana o precristiana, gemella dell’astrazione chiamata a guidare il pensiero filosofico antico e medievale, ma anche moderno, nonostante l’avvento dello spiritualismo che avrebbe dovuto inverare l’intuizione cristiana del mondo. Al realismo filosofico, che aveva esortato l’uomo a mettere gli occhi sul mondo, evitando tuttavia che il suo sguardo facesse velo, doveva infatti sostituirsi l’idealismo di una filosofia che, con una radicalità senza precedenti, risolveva il mondo nello sguardo dell’uomo come svelarsi della realtà. «Non essere che si svela; ma essere che consiste appunto nello svelarsi» (Sistema di logica come teoria del conoscere, 2° vol., cit., p. 166). La Teoria generale dello spirito come atto puro, che, contrastando il dualismo naturalistico, metteva a frutto le indicazioni provenienti dalla Riforma della dialettica hegeliana, aveva cominciato a insistere sulla necessità di interpretare il nostro pensiero «non semplicemente come qualche cosa, solo un elemento, e quasi un’appendice della realtà, anzi piuttosto come totalità, o Realtà assoluta» (Teoria generale dello spirito come atto puro, cit., p. 6). Si trattava però di additare così l’attuarsi di un’«esperienza, che può dirsi totale, e che è la vera esperienza storica» (Sommario di pedagogia come scienza filosofica, 1° vol., Pedagogia generale, cit., p. 54), o anche di un’«esperienza pura», poiché «vive nel [e del] suo stesso processo» (La riforma della dialettica hegeliana, cit., p. 248). Per l’attualismo, con l’idealità del reale era cioè la totalità di un processo a imporsi, decretando la sovranità della mediazione attuale, sprigionata dal soggetto come «intima alterità: non essere, ma essere che […] si muove circolarmente tornando su se stesso, e però annientando se stesso come essere» (pp. 194-95). Ecco a cosa doveva riferirsi lo svelarsi dell’essere in quanto Io. Per questo verso, il tutto non era e doveva essere o, se si preferisce, era, dovendo essere, poiché svalutava se stesso come tutto, per valere: «questo svalutare come tutto e far rientrare come parte nel tutto» (p. 258) rinviava infatti alla consistenza morale di un assoluto stretto nelle mani dell’uomo che, rimuovendo gli ostacoli frapposti, accoglieva il bene come il se stesso che egli era chiamato a essere. Si trattava allora di comprendere che il bene era questo sgombrare il campo e alzare gli occhi al cielo: nulla che fosse già e nulla che apparisse sulla terra poteva essere il bene.
In tal senso, certo, l’Io era oppresso dall’essere e cieco di fronte al mondo, ma solo perché non c’era liberazione e vista che potesse bastare. Liberato, l’uomo avvertiva un’oppressione; avendo visto, non vedeva più. La realtà era cioè da instaurare alla luce del bene che doveva essere realizzato non perché esso fosse (da imitare o assecondare), ma proprio perché non era e si voleva che fosse. Posto dinanzi a noi, il bene era in noi, senza esserci, così come la legge morale, essendo nostra, diveniva monito universale al quale nessuno poteva voltare le spalle, senza perdersi. Che cosa dovesse essere (il bene) era l’Io a deciderlo, decidendo così di se stesso. Per questa via, l’uomo smetteva i panni dello spettatore disinteressato, alla finestra della vita, e, per così dire, scendeva in strada, scontento di sé, parte di parti indirizzate al bene che ci riguardava, essendo noi stessi. Il nostro bene, vale a dire il bene dell’Io. Assoluto e totale, infatti, il bene sortito dalla morale dell’attualismo non poteva alludere al bene per me o al mio bene. La questione, evidentemente, non riguardava l’io empirico, uno in mezzo agli altri, quasi cosa tra le cose, ma quello trascendentale che attualmente ne stabiliva le sorti, inaugurando l’orizzonte accogliente che doveva tuttavia sprigionarlo. Dunque, essa lo riguardava nel profondo, così come il futuro riguardava il presente che congedava il passato, transitando dentro di sé. Oltre il «tempo», superato dalla
storia, che pare passi e precipiti incessantemente nel gorgo del passato; ed è sempre lì, presente e operante alla coscienza dell’uomo, travaglio della sua intelligenza ricostruttiva di se stessa e passione inestinguibile (Memorie italiane e problemi della filosofia e della vita, 1936, p. 338).
Eterno (nel tempo). Mai un punto (di partenza o di arrivo), ma sempre un punto di partenza e un punto di arrivo coincidenti nel circolo dell’Io, chiuso nel momento stesso in cui si riapriva. Niente, per andare incontro all’essere, avrebbe scritto Gentile, ma anche, rovesciando l’ordine degli addendi, essere, che doveva annientarsi, per trovare se stesso come tutto.
Il bene era appunto il valore che l’uomo sprigionava svalutando se stesso: non c’era allora bene che non oltrepassasse l’uomo, che è in direzione di quello che non è. «Né tutto, né nulla: ma l’unità dei due: il dialettismo, in cui poi consiste il concreto tutto» (Sistema di logica come teoria del conoscere, 2° vol., cit., p. 332). Pertanto, realizzandosi, l’uomo idealizzava se stesso; idealizzandosi, si realizzava. Ciò tuttavia accadeva pensando e non c’era pensiero concreto che, per dirla con Kant, non fosse accompagnato dal monosillabo «Io», con la maiuscola, per alludere al soggetto in fieri di cui ciascuno di noi era soltanto una delle infinite manifestazioni. Per questo verso, il bene assoluto richiamava la fatica del pensare («Facile e comune parola: “pensare”. Ma enorme il suo significato, ed arduo lo sforzo che si richiede a tutto abbracciarne il contenuto», Memorie italiane e problemi della filosofia e della vita, cit., p. 337), perennemente alle prese con la necessità di ricomprendere, nella forma del concetto, il già compreso, e dunque di comprenderlo davvero, per la prima volta. Si trattava peraltro di comprendere se stessi come pensanti, volendo se stessi, decidendo liberamente del mondo che, mentre quello falso dileguava, doveva valere per noi come il vero mondo. Del resto, pensare, dovendo essere, avrebbe sempre significato dire la verità. E chi non la diceva a se stesso, continuamente dicendola?
Per questa via, senza dubbio, l’attualismo collocava l’uomo nel cuore del mondo o, più precisamente, «pianta[va] l’essere – cioè il Tutto, la Realtà, Dio stesso – nel cuore dell’uomo», irrobustendo «la fede nella sua missione creatrice» (p. 332). Volontà incondizionata dell’assoluto, sintesi di bene e male, verità ed errore – ma anche, e soprattutto, di essere e non essere, tutto e nulla, Io e non-Io –, l’atto del pensiero finiva dunque con l’occupare lo spazio infinito del dominio che annunciava l’instaurarsi di un’autentica temperie religiosa. E con la religione, al seguito di una legislazione universale, spuntava la trascendenza di Dio e l’indisponibilità della misura chiamata in molti modi a limitare la libertà del mondo e degli uomini che lo abitavano, additando una più alta necessità. Anzi, era la necessità dettata dal decreto di Dio a imporsi, imbrigliando la libertà dell’uomo. Gentile doveva riconoscerlo, senza riserve. Non forse da subito, certamente per gradi, insistendovi con accenti diversi, e non senza l’enfasi e la retorica dettate dalle circostanze, ma con nettezza. D’altra parte, era la dialettica attuale a esigerlo, non appena essa lasciava emergere i tratti inestinguibili del processo spirituale chiamato a non lasciare nulla fuori di sé che non fosse una propria astrazione.
Ribaltando il divenire sulla coscienza dell’essere, Gentile aveva dovuto enfatizzare il ruolo degli estremi destinati a tendere l’arco creativo del soggetto pensante. Essere e coscienza (dell’essere) stavano cioè nel soggetto come, hegelianamente, l’essere e il non-essere stavano nel divenire che doveva concretizzarne l’andamento. Identici, essi dovevano anche differire, così come il risultato di uno svolgimento doveva differire da ciò da cui esso risultava (pur essendo, appunto, ciò che si svolgeva a risultare). Tolta la differenza, lo svolgimento richiamato dal divenire sarebbe venuto meno e il pensare avrebbe smarrito la consistenza dell’azione che, scaturendo, non poteva non sortire degli effetti. Altrimenti pensare e non pensare sarebbe stato lo stesso. Certo, l’essere di cui la coscienza prendeva possesso era la stessa coscienza che prendeva possesso di sé – sì che l’essere appartenente alla coscienza era la coscienza che apparteneva a se stessa, in ragione del gesto attuale –, ma la circostanza non doveva impedire, anzi implicava lo sprigionarsi dei due come due. L’essere, privo della coscienza dell’essere, era la coscienza astratta priva di coscienza, così come la coscienza dell’essere, priva dell’essere, era l’essere astratto, privo dell’essere. Coscienza ed essere, che, in concreto, erano l’autocoscienza dell’essere, esibivano cioè i tratti irrinunciabili dell’astratto che la tradizione filosofica moderna aveva chiamato soggetto e oggetto. L’uno non essente l’altro. Ma era quello che gli antichi, seguiti dai medievali, dicevano pensiero ed essere, additando bensì – fin dai tempi di Parmenide – la loro identità, ma come presupposto o esito dell’indagine filosofica. Non la loro convivenza attuale, differente e insieme identica, bensì la loro mortificazione fattuale, identica senza differire. Realismo, appunto: tale – ma era solo l’inizio di una lunga vicenda filosofica – da indurre già Gorgia, contro l’Eleate, a trarne «il primo motivo della sua negazione della possibilità del conoscere» (Teoria generale dello spirito come atto puro, cit., p. 216). L’invito a conoscere il pensiero vero, identico all’essere, si era infatti tradotto nell’esortazione a imboccare la via a ritroso che conduceva nel luogo divino in cui c’era bensì la realtà autentica, ma senza che vi fosse più spazio per l’uomo che avrebbe dovuto goderne. Non solo nel senso che sarebbe stato impossibile conoscere quello che del conoscere faceva a meno, ma anche e soprattutto nel senso che, concessa all’essere la precedenza, la conoscenza sarebbe precipitata nel nulla. Non a caso, del resto, il realismo astratto della filosofia preattualista esortava l’uomo, nulla di fronte a Dio, ad annullarsi, per riempirsi tutto di Dio. Evidentemente, l’essere sottratto alla coscienza implicava il «misticismo» della «religione», esaltante l’oggetto come puro oggetto, nel quale si estingueva bensì il soggetto, ma anche la molteplicità degli oggetti (che in effetti era un modo della soggettività).
Per Gentile – che all’oggetto (coscienza dell’essere) doveva conferire il risalto che compete all’opposto del soggetto (essere), tolto il quale il soggetto autentico (autocoscienza dell’essere) veniva meno, rinunciando a sé e alla propria libertà –, si trattava allora di apprezzare l’astrattezza della religione, non per abolirla, bensì per esaltarla, facendone una delle tre «forme assolute dello spirito» celebrato dal suo idealismo. Arte, religione e filosofia dovevano cioè scandire i «momenti, solo logicamente distinguibili» della «sintesi originaria» chiamata a oggettivare (religione) il soggetto (arte) come oggetto di sé (filosofia). Kantianamente, si sarebbe anche potuto dire: «il soggetto è soggetto dell’oggetto, e non c’è soggetto vuoto; l’oggetto è oggetto del soggetto e non c’è oggetto cieco» (Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia, 1909, in La religione; Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia; Discorsi di religione, cit., p. 262). Anticipato nel 1909, questo tratto sistematico del tema gentiliano doveva essere più volte ripreso e approfondito, soprattutto nel Sommario di pedagogia, dove l’attualismo cerca una sua prima fisionomia sistematica, quindi, anche se in breve, nella più matura Teoria generale dello spirito come atto puro, poi ancora nel cuore del Sistema di logica come teoria del conoscere, l’opera maggiore del Gentile attualista. Se per l’Io, pensare significava pensare l’essere, acquistando così la coscienza di sé al modo dell’atto, non doveva allora sorprendere come l’attualismo sollevasse la religione al rango della necessità. L’uomo era cioè necessariamente religioso, appunto perché non c’era coscienza dell’essere che non andasse incontro all’essere come all’altro da sé che il soggetto, essendo, era chiamato a suscitare. Pensando – lo si è già ricordato –, l’uomo sgombrava il campo per il bene, svalutava se stesso e il proprio essere, avvertendo (e, insieme, suscitando) la propria nullità, testimonianza evidente del sentimento religioso che animava chi era al cospetto di Dio. Un chiudere gli occhi, perché fosse Dio, in noi, a guardare, instaurando il mondo vero, universale e necessario.
Pensare, evidentemente, non significava chiudersi nel proprio mondo, ma aprirsi al mondo di tutti, che non era mai il nostro senza oggettivarsi, divenendo misura e limite dell’arbitrio individuale. Legge, che rinviava al decreto divino sovrastante gli uomini: il porsi dell’Io come (astratto) imporsi di Dio, ma anche come (astratto) imporsi della volontà generale nella forma giuridica dello Stato. Se pensare significava rendere trasparente il mondo per lo sguardo dell’uomo, non c’era infatti trasparenza che non richiedesse la rimozione di un particolare punto di vista, vale a dire la rinuncia e il sacrificio di sé, in quanto soltanto sé. Dei fantasmi della mente l’uomo non poteva cioè accontentarsi, ma la circostanza, esortandolo a dissiparli, non avrebbe dovuto alludere al naufragio della mente, bensì all’abbandono delle fantasie che la affollavano. Il soggetto era appunto questo liberarsi dei fantasmi che confinavano l’uomo in un mondo onirico, per svegliare la realtà. Non quella che c’era, bensì quella che si trattava di porre in essere, innamorandosene, come ci si innamorava di quello che, mancando, doveva essere e non era, anche se, per altri versi, esso era qui dinanzi a noi, anzi era noi stessi, quali volevamo essere. Occorreva insomma non perdere di vista come non ci potesse essere nulla al mondo che non riflettesse la comprensione che noi ne avevamo (visibile anche dove, contestata al pensiero la capacità di governare tutto, qualcosa sfuggiva alla sua presa, pronta a lasciarselo sfuggire), ma anche come non ci fosse nulla di comprensibile che non equivalesse al dover essere del mondo. Degno dell’uomo, appunto. Amato. «Ama il Signore Dio tuo sopra ogni cosa; ama il prossimo tuo come te stesso» (Discorsi di religione, cit., p. 360): così doveva suonare l’imperativo cristiano, additando un compito, un’azione attesa dall’uomo chiamato a emanciparsi da sé. Questo altro dall’uomo al quale l’uomo andava incontro per essere se stesso (per Essere) era appunto Dio, l’oggetto assoluto intorno al quale egli raccoglieva i propri sforzi, sacrificandosi. La religione fotografava questo immancabile momento dello spirito, in cui – per dirla con le parole di Gesù – l’anima perdeva se stessa per ritrovarsi. Certo l’anima che si doveva trovare era la stessa che si perdeva, l’oggetto (a cui il soggetto sacrificava se stesso) doveva cioè essere il soggetto (che si sacrificava), ma il perdersi doveva apparire tale, senza resti.
Per questo verso, la religione enfatizzava correttamente il Tutto rispetto al quale l’uomo (come uomo e soltanto uomo) doveva sentirsi ed essere niente. In tal modo, «compenetrata dal senso del divino» – così recita uno dei Discorsi di religione, del 1920 –, l’esperienza dell’uomo doveva avvertire tutta la «serietà», la «solidità» e la «consistenza» di un gesto che sarebbe altrimenti apparso destituito di fondamento e di significato (Discorsi di religione, cit., p. 311). Nessuno, insomma, pensando, pensava quello che gli pareva, appunto perché pensare equivaleva a rispondere a un appello, chiarendo a se stessi le ragioni di un mondo che le esigeva, senza tuttavia possederle se non con il nostro concorso. Lungo questa via, allora, Gentile – che già aveva osservato come per nessuno di noi fosse possibile pensare e agire con coscienza, senza trovare in essa «infiniti occhi aperti a guardare anch’essi lì dentro, per giudicarci» (Teoria generale dello spirito come atto puro, cit., p. 38) – poteva scrivere che «pensare [era] presentarsi a Dio» e al suo sguardo indagatore (Politica e cultura, a cura di H.A. Cavallera, 1° vol., 1990, p. 332). In Dio, tuttavia, ammutoliva la coscienza e trionfava l’essere. Dio, per questo verso, rappresentava appunto l’imporsi dell’essere identico a sé, senza poterlo essere, a scapito di quello che invece si identificava, essendo. Gentile rinviava così a un A incapace di essere sé (A=A) senza il differire della coscienza (A=non-A). Un astratto, come astratta era la religione che costringeva l’uomo a posare in un Dio che costituiva invece soltanto la tappa di un percorso che doveva ricondurlo a sé. Non perché Dio dovesse servire l’uomo, così come uno specchio, di cui il suo sguardo non aveva alcun bisogno, poteva servirgli per guardarsi negli occhi. Se l’uomo non posava in Dio, e passava, ciò accadeva perché «posarvi sarebbe [stato] materializzare Dio stesso, e materializzarvisi», estinguendo la vita del pensiero (Discorsi di religione, cit., p. 389). Dio era il bene, la verità e il tutto che scaturiva dall’atto del pensare, e all’atto del pensare doveva essere ricondotto. Non perché l’oggetto dovesse semplicemente stare nelle mani del soggetto. Ciò infatti avrebbe significato ricondurre la religione all’arte, che amministrava in proprio il dominio soggettivo. Il superamento della religione, nello spirito della dialettica hegeliana, non dava cioè luogo a un rimpicciolimento di Dio, destinato a prendere posto tra i fantasmi della mente che si baloccava con se stessa, bensì enfatizzava l’ingrandimento dell’uomo, inverando il cristianesimo che Gentile vedeva correre sulla linea dell’idealismo contemporaneo. Così egli si esprime nel 1931:
Sono infatti convinto che il cristianesimo col suo domma centrale dell’Uomo-Dio abbia questo significato speculativo: che a fondamento della distinzione necessaria tra Dio e l’uomo si debba porre un’unità, la quale non può essere se non l’unità dello spirito; che sarà spirito umano in quanto spirito divino, e sarà spirito divino in quanto pure spirito umano (Concetti fondamentali dell’attualismo, in Introduzione alla filosofia, 1933, pp. 36-37).
Agostinianamente, l’uomo trascendeva se stesso nel momento in cui sprofondava nella propria coscienza, al cospetto della verità. Trascende temetipsum, aveva infatti esortato il vescovo di Ippona, suggerendo così che «la vera trascendenza invero [fosse] autotrascendersi nel vivo processo dell’autocoscienza» (Genesi e struttura della società. Saggio di filosofia pratica, 1946, 1987, p. 180). Si trattava insomma di rendersi conto di come la trascendenza di Dio fosse l’astratto che il trascendersi dell’uomo doveva restituire nella pienezza concreta del mondo morale, affidato alle cure dell’Io.
Stando a Gentile, l’oggetto che per la religione è tutto, per l’arte è niente, appagata com’è dallo sprigionarsi dell’esperienza estetica. L’artisticità della coscienza allude infatti al soggetto vuoto, pieno tuttavia di sé, chiuso al mondo esterno, ma avvinto a quello scaturito dalla fantasia creatrice, «che si fa suo estro, o Dio che lo agita riempiendolo di sé, senza lasciargli libertà o respiro» (Discorsi di religione, cit., p. 389). In preda al proprio oggetto, anche l’artista avvertiva la pressione di una misura indisponibile, e faceva esperienza religiosa. In tal senso, per l’attualismo, non c’era esperienza umana che non coltivasse in sé una qualche forma di religiosità. La vita dell’uomo, «intesa come dovere, missione», annunciava cioè il «sacrifizio» e l’«abnegazione» di chi negava bensì se stesso, ma per non rinunciare al proprio essere. «Sentire il proprio niente per ingrandir l’animo e vivere in ispirito», scrive Gentile (Memorie italiane e problemi della filosofia e della vita, cit., p. 331). La rinuncia riguardava infatti quella parte di sé che, in quanto parte, già annunciava il tutto destinato a investirla, oltrepassandone il limite. L’artista non avrebbe mai potuto chiudersi dentro la prigione dorata della sua creazione senza evaderne, uscendo a girare la chiave, per impedire al mondo di entrarvi e interferire; e così il credente non avrebbe mai potuto uscire all’aperto, correndo incontro al creatore di tutte le cose, genuflesso e annichilito, senza chiudersi nella propria coscienza, per allontanarlo da sé il più possibile. Dunque, né un Uomo senza Dio (che «pone sé, ma non pone l’altro»), né un Dio senza Uomo («tutto non-Io, senza Io»); né arte né religione, bensì un Uomo-Dio o un Dio-uomo, in cui era la filosofia a imporsi. Filosofia, certo,
poiché per filosofia s’è sempre intesa (dai filosofi, s’intende; ma chi parlerà della filosofia senza esser filosofo?) la forma più universale e perfetta dello spirito, che intende tutte le altre senza che reciprocamente le altre intendano lei (Sistema di logica come teoria del conoscere, 2° vol., cit., pp. 147-48).
La religione, enfatizzando a suo modo il divenire dell’Io, testimoniava allora l’immancabile consistenza del vero tradotto ormai integralmente nella libertà che, come autonomia, coniugava l’arbitrio dell’artista e l’obbedienza del credente. D’altra parte, vera libertà non era quella di chi non obbediva a niente e a nessuno, bensì quella di chi obbediva esclusivamente a se stesso, non essendo tuttavia a diposizione. L’idealismo gentiliano invitava così ad apprezzare «il momento religioso della vita morale: quel momento, attraverso il quale bisogna assolutamente passare per compiere un atto morale» (Discorsi di religione, cit., p. 387), essendo che la filosofia «segna una via, [e] non può rappresentare una mèta» (La filosofia della storia. Saggi e inediti, a cura di A. Schinaia, premessa di E. Garin, 1996, p. 100).
Per questo verso, la religione – che Gentile, discutendone con Croce in una fase cruciale per la definizione del tema, aveva ritenuto non si dovesse «cancellare affatto dalla carta dello spirito» (lettera del 28 genn. 1907, Lettere a Benedetto Croce (1907-1909), a cura di S. Giannantoni, 1976, p. 27) – doveva trovare nell’attualismo uno dei suoi più convinti custodi. Custodita, certo, la religione apparteneva alla filosofia, ma come, per dir così, il morire apparteneva al nascere. Del resto, le ultime battute dei Discorsi di religione (cit., p. 389) dovevano insistere bensì sulla religione come «morte immortale» del pensiero, ma evidenziando con forza come essa, a differenza di «quella in cui posa stanco l’animo Lucrezio», fosse il suo «vivere». «Il morire della religione è il vivere dello spirito che vive la religione superandola; e superandola, realizza il bene e adempie la sua missione eterna al di sopra di tutte le religioni», osserva Gentile. In tal senso, si sarebbe trattato di rendersi conto del fatto che il «concetto del bene» inaugurato dalla dottrina attualista «[era] insieme un concetto religioso e […] irreligioso». L’esito non avrebbe dovuto sorprendere, se solo si fosse tenuto conto della circostanza per la quale se pensare era «presentarsi a Dio», tanto più Dio avrebbe manifestato il proprio volto quanto più si fosse pensato. Infatti, il pensiero «più pensa, più sente la presenza di Dio», dal momento che se «pensare non è possibile senza Dio, […] neppure è possibile pensar Dio senza pensare» (Politica e cultura, 1° vol., cit., pp. 328-32).
Certo, considerato che la religione alludeva in primo luogo alla negazione del soggetto, più che all’affermazione dell’oggetto, la religione faceva a pugni con la morale. «Mors tua vita mea», si sarebbe detto. La morale richiedeva appunto l’«empietà» di «Prometeo, che ruba agli dei il fuoco del loro cielo», escogitata dai Greci, anticipatrice dell’antintellettualismo cristiano, frenato dalla persistente trascendenza del divino, estenuata dal conflitto tra la libertà e la grazia. Ma non appena ci si rendeva conto che tanto più l’oggetto appariva sequestrato dal soggetto quanto più questi si adoperava per custodirne l’alterità anche attribuendogli la «ragione», la «volontà» e la «personalità» proprie dell’Io, era appunto la trascendenza religiosa a entrare in crisi (Discorsi di religione, cit., pp. 383-85). Riflesso astrattamente nell’altro, il soggetto, che nell’altro doveva ritrovare se stesso, si insinuava nell’oggetto chiamato ad annientarlo, cominciando a vivere lì, dove egli moriva, una vita più vera. Si trattava infatti di comprendere come l’uomo misticamente ammutolito e accecato dinanzi a Dio «contraddic[esse] alla sua stessa asserzione mistica costruendo egli l’altare innanzi al quale [doveva] prosternarsi». «Impossibile» – così doveva esprimersi Gentile – che l’uomo non affermasse «tutto il vigore della sua personalità nel momento stesso che la dice[va] annientata» (Memorie italiane e problemi della filosofia e della vita, cit., p. 334). In questo senso, occorreva dire con Gioberti che l’uomo rendeva a Dio la pariglia, ricreando il proprio creatore. La sovranità della filosofia nei confronti della religione alludeva perciò a una convivenza per cui esse si distinguevano solo «idealmente», dato che «ogni religione [era] sempre una filosofia, e ogni filosofia, se degna del suo nome, [era] una religione» (p. 333). Per Gentile, si trattava cioè di apprezzare soltanto una differenza, «idealmente nettissima», di «accento» rispetto al divenire storico della coscienza attuale. La religione accentuava «il momento del niente», da cui il processo muoveva; la filosofia, invece «quello del tutto» al quale esso giungeva (p. 333). Ma entrambe non si accontentavano dell’uno senza l’altro. Del niente religioso aveva bisogno la filosofia, che rinviava la realtà all’atto morale di un Io chiamato a trascendere se stesso, così come al tutto filosofico doveva richiamarsi la religione, scontenta di un Dio che semplicemente chiudesse la bocca e gli occhi dell’uomo destinato a onorarlo. Quest’ultima circostanza, in effetti, sarebbe valsa a negare la religione stessa, se è vero – come Gentile scrive nella voce relativa dell’Enciclopedia Italiana – che «a fondamento di tutte le religioni […] è il concetto della relazione dell’uomo con Dio» (Memorie italiane, cit., p. 295).
Lungo questa via, allora, Gentile doveva convincersi che, concesso alla religione il rinvio alla pura oggettività di Dio, la religione perfetta fosse il cattolicesimo. Nel 1908, affrontando il tema modernista, il filosofo siciliano scriveva a chiare lettere: «Il cattolicismo è veramente la religione più perfetta» (Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia, cit., p. 44), per quel suo opporre e mettere intrinsecamente in relazione l’uomo e Dio, il finito e l’infinito, servendosi del formidabile contributo della filosofia platonica (ma anche neoplatonica) e aristotelica. «Dal domma della grazia a quello dell’infallibilità papale il cattolicismo è il sistema dell’opposizione, per cui Dio è […] fuori dello spirito, in quanto tale», anche se, tradotto in un fatto storico, esso contiene appunto nella forma del «domma fondamentale uomo-dio», il momento della relazione intrinseca tra i due (p. 45). Sennonché, quest’ultimo appariva come un motivo meno rilevante del precedente, nel quale esso stava come «lievito del fermento storico», prodigo dello «sviluppo dei suoi dommi», sprigionato da una «contraddizione» irrisolvibile. Il cattolicesimo, in quanto religione, non era in grado di risolversi e non doveva farlo. Risolto, infatti, il cattolicesimo avrebbe risolto, e annullato, anche la filosofia che della religione non poteva fare a meno (ciò, d’altra parte, spiegava la polemica di Gentile, al fianco del papa, nei confronti del modernismo). Per questo motivo, nel discorso del 9 febbraio 1943, intitolato La mia religione, Gentile – che riprendeva il filo del discorso lasciato in sospeso nel 1926, con gli Avvertimenti intorno all’attualismo per i non addetti ai lavori – poteva orgogliosamente rivendicare la propria fede cattolica, senza derogare all’attualismo.
Fo la mia aperta professione di fede […] piaccia o dispiaccia a chi mi sta a sentire: io sono cristiano. Sono cristiano perché credo nella religione dello spirito. Ma voglio subito aggiungere, a scanso di equivoci: io sono cattolico (in La religione; Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia; Discorsi di religione, cit., p. 406).
La filosofia superava bensì la religione, così come il concreto superava l’astratto, «ma questo concreto non [doveva] escludere, sì contenere l’astratto» (Discorsi di religione, cit., p. 351). Si poteva dunque essere idealisti, anzi attualisti, e insieme cattolici, senza contraddizione. Contraddittoria, semmai, sarebbe sembrata a Gentile una filosofia senza religione e una religione senza filosofia. Naturalmente, la circostanza non era priva di conseguenze, e il mondo cattolico doveva sottolinearlo con forza. Il cattolicesimo gentiliano non era il cattolicesimo della Chiesa cattolica. Era il suo cattolicesimo. Al seguito di Gioberti, egli riformulava allora la tesi della «poligonia del cattolicismo», giudicata illuminante. Esistono tanti cattolicesimi quanti sono gli spiriti umani appartenenti a una sola Chiesa. Perché – si chiedeva Gentile – stupirsi del fatto che il mio cattolicesimo differisce da quello del papa o dei vescovi? Se fossi d’accordo con loro – concludeva – non avrei ragione, ma torto. La mossa, in apparenza sofistica, protagorea, intendeva escludere invece perentoriamente il relativismo scettico: la «poligonia del vero», annunciata dalla provocazione giobertiana, «non è un solo lato del poligono: è verità, che sta al di sopra di ogni verità particolare, e così di ogni cattolicismo e ne garantisce il valore assoluto» (La mia religione, cit., p. 409). Come nessuno poteva contestare a Gentile il suo essere un idealista, dato che l’idealismo in questione era il suo, quasi si fosse potuto identificare una volta per tutte l’idealismo («quello classico di Platone» non sprigionava forse un’«infinita poligonia» (p. 410) di letture e interpretazioni?), così nessuno doveva scandalizzarsi di un cattolicesimo che, sebbene codificato in un «sistema di istituti e di dommi», non era qualcosa di «obbiettivamente esistent[e] e operant[e] fuori della mente e dell’animo del credente» (p. 410) chiamato a mobilitarne i contenuti. E allo stesso modo – aggiungiamo noi – non ci si sarebbe dovuti meravigliare del fatto che lo Stato fascista, in quanto era «quello che si [era] attuato e sta[va]», fosse a sua volta «momento astratto della vita etica» sprigionata dall’Io (Genesi e struttura della società. Saggio di filosofia pratica, cit., pp. 58-59). Il divenire universale delle cose, affidate ormai alla storicità dell’esperienza umana, non invitava affatto ad abbandonare Dio, il punto fermo chiamato a reggere e sostenere le sorti del mondo, ma esso non poteva più essere una cosa fatta oggetto della ricerca filosofica, bensì la ricerca stessa innestata nell’atto del pensiero eterno e immutabile. Vivo, morendo. Morto, vivendo.
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