RIFORME, Età delle
Come età delle riforme s'intende quel periodo della seconda metà del secolo XVIII, essenzialmente tra il 1750 e il 1790, durante il quale l'opera dei capi di stato fu rivolta ad apportare profonde modificazioni nella vita interna, amministrativa ed economica, dei singoli stati. Paesi classici delle riforme furono la Prussia con Federico il Grande, l'Austria con Maria Teresa e Giuseppe II, la Spagna con Carlo III e il Portogallo con il marchese di Pombal. In Italia l'attività dei principi riformatori si esplicò specialmente nella Toscana (dinastia lorenese), nel regno di Napoli (dinastia borbonica e ministro Tanucci), a Parma e Piacenza (dinastia borbonica e ministro G. Tillot), a Milano (periodo di Maria Teresa e di Giuseppe II).
Ultima reazione dell'assolutismo politico a tutte le sopravvivenze medievali nell'amministrazione e nel diritto, nel mondo economico e nella vita della Chiesa, nella scuola e nell'ordinamento del lavoro; grandioso complesso di atti governativi, sollecitati dalle guerre nonché dalle loro conseguenze finanziarie, promossi dai filosofi, voluti dai principi, sotto la spinta di necessità universali, prorompenti dal fondo di una società ancora immersa negli abusi, negli arbitrî, nei privilegi, le riforme sono il contraccolpo ufficiale di un moto di rinnovamento che si attua nelle scienze, nelle lettere, negli spiriti, con tendenza alla laicità del pensiero, alla filantropia delle classi sociali, all'uguaglianza dei doveri di tutti i cittadini. Questa nuova cultura (v. illuminismo) ha un carattere empirico, edonistico, umanitario come le riforme che da esso traggono il proprio alimento ideologico; abbandonati i problemi della metafisica, penetra nella vita, si propone di sciogliere le difficoltà del meccanismo sociale, di scoprire le leggi del benessere pubblico e privato; questa cultura piacevole e leggiera, che dà lo spunto alle conversazioni dei salotti come alle dispute delle accademie, pretende di guidare la politica, di essere la luce dei monarchi, di trasformare l'arte del governo in una scienza esatta, logicamente concatenata, come la dimostrazione di un teorema euclideo. Le riforme aspirano, nella loro giustificazione teorica, a questo rigore di esattezza e di razionalità; i monarchi riformatori considerano il bene in coincidenza con la perfezione razionale. Giuseppe II che, tra essi, occupa il posto più eminente, aveva questo canone: "ogni cosa che mi si proponga deve essere proposta con prove inconfutabili, desunte dalla ragione, se si vuole che essa mi induca a modificare una risoluzione presa". La mentalità dell'illuminismo dà il tono alle riforme. Si compie nel mondo sociale un processo critico-ricostruttivo che si era iniziato nel mondo fisico. Il naturalismo del Rinascimento italiano aveva staccato dalla Chiesa l'astronomia e la meccanica, aveva dato all'ordine cosmico un'interpretazione scientifica, non teologica; Cartesio, Locke, Leibniz completarono il distacco. Il moto involse le lettere, il diritto, le dottrine politiche. Tutto fu affidato all'esame dell'intelligenza e raffrontato con la natura. L'indagine critica, prima disinteressata, si concretò negli scopi e nei mezzi pratici per opera dei giureconsulti. Il principio dello stato di natura ebbe larghe applicazioni: creò una nuova coscienza giuridica che riformò il sistema penale: suggerì idee di libertà, che determinarono nell'economia un indirizzo avverso al vincolismo nella politica degli scambî e al monopolio della produzione; uniformò la visione del mondo civile e diede ai principi l'idea di un compito universale, di un'umanità dovunque uguale a sé stessa, suscettibile di una medesima legislazione; laicizzò la dottrina dello stato e diede regole di vita pubblica dedotte non più da interessi spirituali, ma dalla considerazione della realtà quotidiana e dei suoi bisogni per un fine di benessere terreno. Le riforme mossero a ritroso della storia, della tradizione, del costume: e questo spiega il procedere deciso, sicuro, tranquillo, dei principi riformatori, indifferenti al mormorio della parte colpita, nonostante la grande responsabilità di certe innovazioni di fronte a vecchi istituti o abitudini, circondate dall'affetto dei popoli. Di questi principi - Pietro il Grande, Federico II, Giuseppe II - si può dire come Plutarco disse di Pericle: simili al timoniere che in mezzo alla burrasca non si cura dei lamenti dei passeggeri assaliti dal mal di mare. Pietro il Grande definiva la propria durezza "una crudeltà ben usata". Infatti, a tutte le riforme presiede la concezione classica del potere politico: non una proprietà dinastica da cui discendano profitti personali, ma una severa magistratura, un ufficio pubblico eticamente idealizzato, una doverosa missione nell'interesse della comunità. Federico II si considerava il primo servitore del regno, "il primo domestico dei suoi sudditi". Lo stato è il limite e il fine dell'attività monarchica. L'ampiezza dei poteri del principe e la loro concentrazione nelle sue mani, sono intese come gaianzia di precisione del "mestiere" di re. Le riforme rappresentano una dittatura dominata dal sentimento del dovere, dal miraggio della felicità, dalla fiducia nell'infallibilità del fatto legislativo.
Sebbene irregolari e spesso contradditorie, poiché maturano nel proprio seno elementi eterogenei di rinnovamento sociale, e soggiacciono, di volta in volta, all'azione di opposte correnti dottrinali, le riforme contribuiscono a creare negli stati d'Europa una certa unità di vita interna, a foggiare una modernità europea più omogenea così in Oriente come in Occidente. A volte il collegamento è tale da far supporre un'intesa fra i varî governi sopra certi problemi fondamentali, come nella guerra ai gesuiti e al vaticanismo, negli stati cattolici del Settecento. Se non accordo vero e proprio, vi è però nei principi riformatori il proposito di studiare i paesi più progrediti per uniformarsi ad essi, e insieme emularli e affrancarsi dalla loro egemonia. E uno dei fattori notevoli delle riforme sono i viaggi fuori patria e le lunghe tappe a Parigi che è il richiamo più seducente e istruttivo. Pietro il Grande e Giuseppe II viaggiano sotto finto nome e impegnano l'opera degli stranieri più provetti per attuare i loro programmi in patria. Le riforme non solo avvicinano spiritualmente uomini e paesi diversi, ma preparano modificazioni profonde nei rapporti internazionali: la formula degli economisti fisiocratici, laissez faire laissez passer, suggerisce modificazioni di tariffe doganali, in contrasto con la politica del protezionismo. Su questo terreno la macchina statale si muove con lentezza e indecisione. Il mercantilismo vuole che ciascun popolo costituisca la propria autonomia economica e si arricchisca a spese dello straniero; esso impone la regolamentazione di tutta l'attività industriale e commerciale da parte dello stato; però i principi riformatori, pure dirigendo la vita economica del paese con disposizioni di legge che sbarrano le frontiere, non considerano l'economia nazionale fine a sé stessa, ma hanno una visuale che aspira ad aprire le vie del mondo con accordi commerciali. Dove la dottrina liberista ha un'applicazione più fortunata, è nell'ambito stesso della nazione: qui si tende a liberare il mercato dagl'impedimenti interni, a smuovere l'indurito particolarismo; a saldare le forme provinciali sorte nel Medioevo in un grande corpo statale ed economico che respinga alla periferia tutti i suoi vecchi cancelli di protezione. Nello stesso ordine rientrano la politica dei porti franchi, la ricerca e lo sviluppo di sbocchi sul mare, l'impulso veramente vigoroso alla navigazione fluviale, le opere di collegamento stradale e idrografico, considerati pur essi come un servizio pubblico. I maggiori canali dell'Europa risalgono a questo periodo del suo ringiovanimento. E pure trionfa la dottrina del nazionalismo economico nello slancio che i governi imprimono all'aumento della flotta, sia mercantile sia da guerra; nella costruzione di nuovi poderosi arsenali; nella fondadazione e tutela delle grandi compagnie di commercio transoceanico. I fisiocratici chiedevano che il principio della libertà riformasse l'ordinamento del lavoro. I governi intrapresero una revisione degli istituti corporativi per sopprimere la loro autonomia pericolosa: ma essi rimasero ancora il fondamento della costituzione industriale, sebbene minati dalle industrie privilegiate che godevano di una certa libertà perché protette dal governo centrale. L'editto del Turgot (1778) non fu che un esperimento infelice: le corporazioni da lui soppresse furono ristabilite. L'Austria le abolì in Lombardia nel 1787 per dare il passo alla grande industria di imprenditori tedeschi accasatisi in Milano. Comune a tutti i riformatori è la cura per il consolidamento militare e finanziario degli stati, donde la ricerca della ricchezza e dei mezzi d'acquisto. Le riforme vogliono creare condizioni favorevoli allo sviluppo di tutte le f0rze produttive di un paese, per accrescerne la capacità contributiva e procurare all'erario nuovi cespiti d'entrata. Da qui il principio della bilancia commerciale, il criterio d'equilibrio fra importazione ed esportazione, industria e commercio, produzione e attitudini locali meglio rispondenti ad ogni forma di esse, fra città e campagna, come l'idea dell'equilibrio politico prevale nella bilancia delle potenze per una preordinata armonia generale di mezzi e di fini; e da qui ancora, una più ordinata regolamentazione e ripartizione tributaria, appoggiata ai censimenti agricoli; l'idea di un'imposta unica sulle terre, garantita dai comuni; la fondazione di istituti di credito in ogni stato, ad imitazione dell'Olanda e dell'Inghilterra; lo sfruttamento delle miniere e la costruzione di officine metallurgiche; in breve, un impulso vigoroso allo sviluppo del capitalismo. Rientra in questo quadro l'azione concorde degli stati per richiamare entro l'orbita dell'economia nazionale e per costringere sotto la disciplina della legislazione civile, tutti i beni della Chiesa, tutta la sua attività temporalista. Qui i riformatori sono assistiti da un ampio movimento filosofico e teologico, che prende nomi diversi (giurisdizionalismo, febronianismo, giansenismo, ecc.), ma con una stessa meta: spiritualizzare (come essi affermavano) la vita del clero, sottoporre la Chiesa, come corpo economico e giudiziario, all'autorità dello Stato.
La tendenza generale è verso la costituzione di Chiese nazionali. Il principe fa derivare direttamente da Dio la sua autorità, per spezzare ogni vincolo di sudditanza dalla Chiesa. Numerosi i decreti contro gli ordini regolari; la chiusura di molti monasteri è seguita dalla confisca dei loro beni impiegati in opere di pubblica assistenza. Sono vietati i nuovi acquisti, soppressa la manomorta, soggette a tributo le terre del clero e buona parte posta sotto l'amministrazione statale. La tolleranza dei culti e la riduzione dei poteri del Sant'Uffizio furono altre concessioni al liberalismo imperante, mentre la dottrina dell'episcopalismo, accolta quasi dovunque, aiutava il principe a combattere la dipendenza da Roma; lo spirito laico e l'antigesuitico, dopo lo scioglimento della Compagnia di Gesù, presiedettero al riordinamento delle scuole, sottratte anche per l'educazione del clero alla direzione esclusiva della Chiesa, avvicinate alla corrente illuministica e arricchite di un istituto nuovo, la scuola popolare governativa. Anche Caterina II si piegò alle esigenze "non per i Russi, ma per l'Europa (scrisse) ove vogliamo serbare la nostra reputazione".
Ugualmente comune a tutti gli stati è la lotta contro i ceti nobili: l'accentramento burocratico toglie ad essi la preminenza nel governo; i principi che si spogliano previlegi economici e di autorità politica, se li conciliano tuttavia trasformandoli in funzionarî civili e militari: solo nella Svezia questo programma incontra gravi resistenze e provoca sanguinose sommosse. In connessione con le dottrine filantropiche del tempo, a cui non mancano spunti precursori del socialismo comunista, sono i provvedimenti intesi a raddolcire la durezza delle corvées e a mitigare i rapporti fra i proprietarî nobili e i contadini servi. La storia interna della Danimarca è dominata per tutto il secolo da questo problema, ma con scarsi risultati, nonostante le ordinanze di Federico IV, di Cristiano VI e di Federico V. Prematuro per la Russia, fu risolto solo nel 1781, a favore della libertà dei contadini; negli stati di Giuseppe II dopo le numerose sollevazioni della Boemia.
Quasi ovunque il preconcetto dell'uniformità, della fusione e saldatura tra le varie parti per costituire il blocco statale compatto e omogeneo, suggerisce anche l'unificazione legislativa, atta a compendiare i numerosi diritti locali in un diritto nazionale. Lavoro a cui si accompagna la revisione di tutto il complesso giuridico con criterî più umanitarî, chiaramente affermati nell'abolizione della tortura, nella quale la Prussia precedette gli altri stati.
Le riforme non hanno dovunque uno stesso ritmo né eguale complessità di contenuto. Lente e ponderate, sia in Francia sia in Inghilterra, ove ricevono l'impronta maggiore dal destarsi del capitalismo industriale e agricolo, tardive e impetuose nel Portogallo, ove la violenza si acuisce contro gli ordini privilegiati e la Compagnia di Gesù; saltuarie, pesanti e senza metodo nella Spagna, dovute a ministri più che a sovrani, prima di Carlo III, e turbate dal fallace sogno di un primato marittimo perduto per sempre; energiche ma caotiche negli stati tedeschi, ove tutto è rimutato e rifoggiato sulla copia dell'Occidente; le riforme poi hanno l'aspetto di una rivoluzione che s'inizia dall'alto nella Russia, ove lo sforzo di europeizzare la massa slava modifica solo la superficie dell'organismo sociale.
In Italia le riforme hanno varî punti di contatto con quelle straniere, specie nei problemi d'indole generale, come i rapporti fra Stato e Chiesa, e nelle terre soggette a Vienna; ma il moto riformatore è accompagnato da un processo affatto autonomo e nazionale di rinnovamento interiore, e rivela maturità di preparazione sia negli uomini sia nelle idee. L'Italia provvede non solo a sé stessa, ma agli altri: sia col mettere in circolazione i tesori del suo sapere, dal Machiavelli al Vico, dal Bruno a Galilei, dal Gravina al Beccaria; sia con l'inviare all'estero uomini di governo e tecnici sperimentati: ciò avvenne specialmente nella Spagna, colonia italiana del Settecento, che ebbe in Alberoni, Grimaldi, Squillace, ecc., gli artefici del suo nuovo imperialismo mediterraneo. L'Italia partecipa al pensiero europeo, ma ripensandolo a modo proprio, integrando l'indirizzo razionalista con quello storico-giuridico, seguendo la voce dei bisogni reali, non le lusinghe di un astrattismo utopista. Le riforme furono pensate e promosse da ministri e filosofi italiani secondando le felici inclinazioni dei sovrani. Esse sviluppano il compito dello stato moderno di assoggettare tutti i sudditi, laici e non laici, alla sovranità del principe in materia di tributi; di combattere i privilegi in nome della legge, di riformare la legge in nome dell'equità e della giustizia. Il principato riformatore anche in Italia centralizza, unifica, livella. Molto vi è di comune con altri paesi d'Europa; graduale abolizione della feudalità, restrizione delle prerogative giuridiche ed economiche della Chiesa, soppressione dei tribunali del Santo Uffizio, della tortura e della pena di morte, libertà di lavoro, di commercio interno, specie per i grani, bonifiche agrarie, codificazione unitaria, rendiconti finanziarî, catasti, uniformità di tassazione, rifiorimento della cultura universitaria, e a questa collegata l'istruzione seminaristica, ecc.: ma accanto a queste novità non esclusivamente italiane si viene elaborando un sistema tutto proprio di riforme, connesse con le necessità storiche della vita nazionale; e consiste nel voler risolvere il dualismo città campagna, sopprimendo l'egemonia della metropoli sul territorio con la vecchia politica annonaria fiscale e monopolista. Donde un nuovo impulso all'unificazione della Penisola, attraverso la concezione della tutela degli interessi generali, espressa da un regolamento amministrativo uniforme per tutto il territorio, non più suddiviso da privilegi o da oppressioni.
Ovunque in Europa, quando i torbidi di Parigi avvertirono dove poteva condurre l'ascensione delle classi e il deprezzamento della Chiesa, si arrestò sgomenta l'opera riformatrice; anzi cancellò molto di quanto aveva elargito. Ma buona parte cadde da sé, poiché le riforme non tennero conto dei tempi e delle tradizioni, non applicarono, per lo più, un criterio di relatività con riguardo all'indole delle nazioni, esagerarono la fiducia nel valore universale della filosofia e delle dottrine economiche, e nella possibilità attribuita all'uomo di trovare da sé il vero e l'utile senza ricorrere al passato.
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