ESTETICA
Non si può dire che il pensiero antico abbia prodotto un'e. sistematica nello stesso senso in cui, p.es., ha gettato le basi di una sistematica teoria poetica. Tale constatazione si connette intrinsecamente col fatto che la cultura antica non possiede un termine specifico per quel che noi chiamiamo arte: la parola tèchne (cui corrisponde il latino ars) può designare pittura, scultura, architettura come ogni tipo di attività pratica che richieda la conoscenza di una serie di regole interne e una determinata abilità esecutiva. D'altronde i problemi posti dalla poesia (primo fra tutti quello del suo valore morale-educativo, determinante nell'analisi del rapporto forma-contenuto) hanno contribuito fin da Platone a chiamare in causa le presumibili analogie col settore delle arti figurative (in particolare con la pittura, come l'attività artistica che mediante il colore, la prospettiva e altri abili espedienti ottici, ottiene i più forti effetti emozionali). Di qui una ricchezza di riferimenti la cui occasionalità diminuisce progressivamente da Platone ad Aristotele a Plotino, e che permette comunque di ricostruire alcune ben definite linee concettuali. Il pensiero estetico antico può tuttavia apparirci - se non assente - «elusivo» a causa della tendenza costante a distinguere due ordini di questioni che noi siamo soliti intrecciare: da un lato quelle connesse con la bellezza sensibile, vista come riflesso del bello ideale e valutata secondo parametri di verità etica e metafisica, refrattari alla considerazione degli aspetti più accidentali e individuali; dall'altro il legarsi dall'opera d'arte a fatti di competenza tecnica e utilità pratica, esposti a svalutazione in termini di peso teorico. È vero che già dopo Platone la rigidità del quadro si attenua proprio grazie all'emergere, parallelamente alla crescita del ruolo sociale dell'artista, di un apprezzamento via via maggiore del valore conoscitivo della sua opera.
Ha quasi sapore di paradosso il fatto che nessuna filosofia abbia esercitato sul pensiero artistico un impatto paragonabile a quello esercitato dalla filosofia platonica, impostata secondo una gerarchia del reale che al livello più basso colloca precisamente le creazioni dell'arte (d'altronde, non senza che affiori un senso del loro potere simbolico e fascinatore da cui lo stesso Aristotele, che al fiorire di teorie sull'arte offrirà terreno più organico e favorevole, si mostra immune). È noto che Platone sviluppa il concetto di mimesi artistica, soprattutto nella Repubblica e poi nelle Leggi, nel contesto della preoccupazione per gli effetti della poesia sull'educazione del cittadino. Nel X libro della Repubblica è disegnato il famoso profilo del pittore come imitatore di una realtà sensibile che è apparenza, perché imitazione a sua volta della realtà ideale: la sua 'arte è dunque da rigettare come pericolosa e corruttrice, dal momento che può venir presentata «ai fanciulli e agli uomini stolti» - con consapevole inganno - come veicolo di verità (597b ss.; cfr. 602a ss. e Soph., 234b ss.). Nello stesso dialogo, d'altronde, si leggono affermazioni che vanno in direzioni diverse da questa: là dove p.es. Platone precisa che «un esperto di geometria» non si lascerà ingannare - pur ammirandoli - dai disegni di Dedalo o di altro artista, così come il vero astronomo non assumerà come replica dei veri moti astrali, che si colgono con l'intelletto e non con la vista, un disegno anche molto accurato (529d-e); e si mostra più disposto a concedere che gli artisti siano in grado di «guardare alla suprema verità» (484c; cfr. 500e) e dipingere un'immagine di bellezza esemplare (420d). Mentre nel passato si tendeva a spiegare tale oscillazione come diversità di giudizio rispetto a periodi diversi dell'arte greca (apprezzata quella più arcaica e simbolica, condannata quella più recente e realistica), prevale ultimamente una diversa soluzione interpretativa: in base a un criterio morale assolutamente coerente, determinato dal commisurarsi dell'opera all'idea, Platone distingue le due possibilità di un'arte «buona» e un'arte «cattiva». La prima può darsi (e può venire anzi progettata, cercando gli uomini adatti) qualora gli artisti sappiano «nobilmente inseguire le tracce della natura del bello e dell'armonioso» (401b-c), senza peraltro pretendere - o fingere - di offrirne una vera e propria copia. A Platone non manca, del resto, la consapevolezza che l'immagine «non deve riprodurre tutte le qualità di ciò che raffigura (eikàzet), se ha da essere un'immagine (eikòn)» (la duplicazione perfetta è possibile solo con un atto di creazione divina): il suo status di correttezza va valutato secondo criteri del tutto specifici (Cra., 432b ss.).
Entro la linea interpretativa che tende a ridurre la valenza della censura platonica, si sottolinea anche che il termine mìmesis non ha tanto il significato di «imitazione» (cui facilmente si sovrappongono elementi di «simulazione» e inganno) quanto di «rappresentazione», che riproduce il modello senza volervisi sostituire: da giudicare, quasi, come un' interpretazione della realtà. In realtà, la parola appare carica di un'ambivalenza intrinseca che in Platone non trova chiaro scioglimento e si trasmette del resto alla tradizione successiva, divisa anche a livello aneddotico fra una nozione dell'arte (soprattutto della pittura) come artificio illusorio, mirato a dare l'impressione «fotografica» della realtà (celeberrimi in tal senso gli episodi dell'uva di Zeusi, Plin., Nat. hist., XXXV, 65 s.; o del cavallo di Alessandro dipinto da Apelle, Ael., Var. hist., II, 3); e d'altro canto l'ammissione che essa possa elevarsi al bello ideale, per via di selezione e ricomposizione dei suoi molteplici riflessi visibili (si pensi alla storia di Zeusi che per l'immagine di Elena toglie quanto c'è di più bello dalle più belle fanciulle crotoniati: Dion. Hal., Vet. cens., I; Cic., Inv., II, 1,1 ss., in part. 3; Plin., Nat. hist., XXXV, 64; lo stesso motivo in versione eclettico-classicistica è alla base delle Imagines di Luciano, che per il ritratto di Pantea richiama i tratti più belli delle più belle opere esistenti).
Alla linea «dell'illusione» si riconduce fra l'altro il topos della vita impressa dall'arte nella materia inanimata: dove il tono oscilla fra l'ammirazione per la potenza dell'arte (a partire da Xenoph., Mem., III, 10,6, con innumerevoli variazioni sul tema degli spirantia signa - per dirla con Verg., Georg., III, 34 - in età ellenistico-romana) e la rivendicazione dell'insopprimibile superiorità della natura (Plat., Phaedr., 275d, riecheggiato da Alcid., Soph., 27 s.; Plot., VI, 7,22 fin.). Storia più sotterranea, ma con ciò non meno significativa, ha invece l'altra linea, quella che attribuisce all'artista, se non la visione diretta dell'ideale, almeno la capacità di attingerlo guardando attraverso e oltre il livello del sensibile. E vi si dispongono, secondo una scala di esplicitezza crescente, l'elogio platonico del pittore capace di dipingere l'«esemplare» - pure privo di riscontro reale - «di come potrebbe essere l'uomo più bello» (Plat., Respubl., 472d); l'affermazione del Socrate di Senofonte (Mem., III, 10,2) sulla necessità per gli artisti di mettere insieme ciò che c'è di più bello in più individui, poiché un uomo che perfettamente impersoni la bellezza assoluta non esiste; l'accenno di Aristotele, prezioso benché incidentale, a una superiorità che la tèchne pittorica raggiunge, nel momento in cui riesce a portare a unità elementi che nella realtà si trovano sparsi (Aristot., Polit., 1281b, 12).
È comunque Aristotele che, nella Poetica, opera uno spostamento netto verso il senso di «rappresentazione» (chiarita in termini di riproduzione di quel che vi è di universale nel modello, 1451b, 6), e ne fa il momento unificante di un sistema che comprende arti figurative, poesia e musica, danza (1447a, 16); mentre elabora d'altro canto, là dove riflette sulla natura del processo tecnico, la nozione di un principio formale «interno all'anima» dell'artigiano (Aristot., Metaph., 1032b, 23, 1034a, 23; cfr. De anim., 429a, 27 sull'anima «luogo delle forme»). Qui si innesterà l'analogia stoica fra l'azione demiurgica dell'arte e quella della physis (Sex. Emp., Adv. mathem., IX, 75; Orig., Princ., III, p. 108; Diog. Laert., VII, 148 = SVF, II, 311, 988, 1132; cfr. Phil. Alex., Ebr., 90): e dalla fusione fra elementi platonici aristotelici e stoici prenderà forma coerente, e otterrà gradualmente il sopravvento, l'idea che l'artista attinga non tanto a modelli sensibili quanto proprio a una sua visione mentale della bellezza (valore esemplare assume in tal senso Fidia, scultore di dèi: Cic., Orat., II, 8 s.; cfr. Quint., Inst., I, 12, 18 ma specialmente XII, 10, 9; Sen., Ep., LVIII, 20 s.; LXV, 7; Dio Chrys., XII, 71; Max. Tyr., XXVI, 5).
In realtà l'atteggiamento degli stoici nei confronti delle arti figurative non è interamente chiaro: le fonti attestano ora un netto pregiudizio negativo, puntato sulla contraddizione fra piacere estetico e ideale etico dell'impassibilità (Sen., Ep., CXV, 8 s. = SVF, I, 372), ora un interesse positivo per il contenuto di conoscenza dell'opera d'arte, leggibile secondo il metodo allegorico sperimentato sui testi letterari (Cleante: Cic., Fin., II, 69 = SVF, I, 553; cfr. Philodem., Mus., XXVIII, 1 = SVF, I, 486; Crisippo: Clem. Rom., Homil., V, 18 e Orig., Cels., IV, 48 = SVF, II, 1072 e 1074, cfr. Philodem., Piet., XI = SVF, 11, 1076 e il titolo Προς τάς άναζωγραφέσεις attestato da Diog. Laert., VII, 201). Rilevante, inoltre, deve essere stato il loro contributo all'evolversi della nozione psicologica di phantasìa dal senso di apparenza o rappresentazione sensibile a quello di immaginazione, non immediatamente o necessariamente legata a un atto percettivo (cfr. in part. Diog. Laert., VII, 51 ss. = SVF, II, 61). Ma questo particolare slittamento concettuale, che troverà compimento nel pensiero estetico tardoantico, non può essere pienamente comprensibile se non si richiamano le coordinate extrateoriche della variabile valutazione sociale dell'artista nell'antichità. A partire da un autorevole studio di Schweitzer (1925), sottoposto a lettura più rigida di quanto non fosse nelle intenzioni dell'autore, si è lungamente imposta la tesi che il giudizio degli antichi nei confronti dell'artista, coinvolto nel generale discredito delle attività tecnico-manuali, fosse generalmente negativo se non sprezzante: come coordinate emblematiche, da un capo all'altro dell'età antica, valevano i versi in cui Solone nettamente oppone il poeta, gratificato dalle Muse del dono della sophìa, all'artista costretto a guadagnarsi la vita con le mani (Sol., frg. 13 Edmonds = I Diehl., 49 ss.), e l'affermazione plutarchea che l'ammirazione per l'opera va disgiunta dalla stima per il suo autore (Plut., Per., II, 2; cfr. Lue., Somn., 9 e 13, ma su una linea diversa, di venerazione classicistica per grandi maestri come Fidia, Policleto, ecc.: ibid., 8). L'uniformità di questo quadro è stata incrinata negli ultimi decenni da una serie di studi che hanno messo in evidenza come fin dall'età arcaica si faccia strada, parallelamente a un'autocoscienza degli artisti (manifesta nel sorgere di una letteratura specialistica a opera di architetti, e di uno scultore come Policleto, nonché nel diffondersi dell'uso della firma), un riconoscimento crescente sul versante del pubblico. Pure all'artista viene concesso abbastanza presto, e da Aristotele, il titolo di una sophìa che non è solo competenza tecnica, ma anche coscienza chiara dei principi e dei fini dell'opera (Eth. nicom., 1141a, 9; cfr. Xenoph., Mem., I, 4,3). Quanto al dibattito sulla posizione delle arti figurative rispetto al sistema dell'educazione liberale, accanto alle voci contrarie (Sen., Ep., LXXXVIII, 18, cfr. 21 ss.) andranno ricordate quelle dubitative (Gal., Protr., XIV, p. 22 Kaibel), o addirittura nettamente favorevoli: già Aristotele spezza una lancia per l'introduzione del disegno come materia di insegnamento (Polit., 1337b, 25, cfr. Plin., Nat. hist., XXXV, 76 s., 135), e si sa come la posizione peculiare dell'architettura, costituzionalmente più vicina alla strumentazione di una scienza, sfoci nei toni celebrativi del proemio di Vitruvio (v. già Plat., Phileb., 55b-c; inoltre Cic., Off., I, 42, 151). È dunque non c'è soluzione di continuità, ma graduale e più sicuro spostamento d'accento, fra alcuni spunti già presenti nell'età di Aristotele e il Filostrato che, nel III sec. d.C., apre le Immagini nel senso dell'equiparazione fra pittura e poesia, dotate di uguale sophìa (cfr. anche Proem., 4 fin., e Philostr. iun., Im. Proem., p. 391 Kayser), o altrove colloca pittura e scultura fra le tèchnai hypòsophoi, a metà strada fra le sophài e le bànausoi (Vit. Apoll., VIII, 7; cfr. Gymn., I, p. 261 Kayser e Gal., Protr., V, p. 4 Kaibel).
È per l'appunto in connessione con questi sviluppi che si stabilizza sul piano estetico la nozione di phantasìa, precisatasi intanto in sede di critica letteraria e teoria retorica in un senso sovrapponibile a quello della nostra «fantasia»: capacità di visualizzazione interiore, stimolata da una forte spinta emozionale, da trasmettersi visivamente all'uditorio (Quint., Inst., VI, 2, 29 s. e X, 7, 15; Subi., XV, 1 ss.). Luciano additava intanto i limiti del concetto classico di imitazione (tendenzialmente legata alla facoltà sensibile), asserendo che la mimesi umana non può raggiungere le «vere immagini degli dèi» (Pro imag., 23). E gli faceva eco Filostrato, nel momento in cui rifletteva sulla possibilità di allargare il campo di mìmesis a oggetti non visibili quali il carro del sole (Vit. Apoll., II, 22). Ma è phantasìa che Filostrato fa intervenire altrove, quale termine che media il vecchio concetto di mimesi con quello di creazione a partire da un modello mentale, mettendo in bocca ad Apollonio di Tiana la convinzione che a essa siano ricorsi per le loro statue di dèi i Fidia e i Prassitele. La phantasìa, «artista più sapiente dell'imitazione» (φαντασία [...] σοφωτέρα μιμήσεως δημιουργός), è infatti capace di presentare anche ciò che la vista sensibile non attinge: per tal via Fidia ha potuto dare forma interiore all'immagine-idea (èidos) di Zeus col cielo e le stagioni e gli astri, e imprimerla nella celebrata statua di Olimpia (Philostr., Vit. Apoll., VI, 19; cfr. Subi, XV, 4 su Euripide capace di descrivere il carro di Fetonte, quasi la sua anima fosse salita in cielo).
Il caso paradigmatico dello Zeus di Olimpia aveva del resto già trovato ampio sviluppo nell’Olimpico di Dione Crisostomo, celebrazione del potere dello scultore - pari a un poeta per divina sophìa - di trasmettere l'immagine del divino presente nella propria anima (XII, in part. 25, 44 ss., 52 ss., 63, 69 ss.). Anche dove non ricorre il termine-chiave phantasìa, ha ormai preso piede, nei primi secoli dell'era volgare, l'idea che la creazione artistica sia un'impresa «divina» (Paus., II, 4,5), consentita da un'ispirazione anAloga a quella da sempre concessa alla poesia. Definitivamente agli antipodi della concezione espressa nel citato frammento di Solone, Callistrato «sofista» potrà dichiarare che non solo sulle lingue dei poeti ma sulle stesse mani dell'artista spira il soffio divino dell'enthousiasmés e della manìa (Callistr., Stat., 2 in., 3 in.).
In un quadro attraversato da tali fitti - ma coerenti - intrecci non stupirà scoprire che anche la considerazione del piacere estetico subisce variazioni spiegabili nel segno del progressivo riconoscimento di autonomia del fatto artistico. Si sa che Platone assume un punto di vista recisamente negativo, opponendosi a visioni edonistiche che dovevano essere piuttosto diffuse nella cultura del suo tempo (Democr., fr. 194; Gorg., fr. II,18 Diels-Kranz). Poiché generalmente l'autore della mimesi non ha una conoscenza razionale dell'oggetto, essa «è un gioco e non una cosa seria» (Plat., Respubl., 602b, cfr. Polit., 288c; Soph., 234b; Epin., 975d): nel Filebo (51c ss.) il «vero» piacere, esplicitamente contrapposto a quello dato dalle creature sensibili o dagli artefatti, è dato dalla contemplazione della bellezza assoluta degli enti geometrici, e dai colori e suoni puri. È vero che il programma educativo platonico prevede la possibilità di tramutare il gioco da elemento sovvertitore a strumento di coesione dello Stato, purché se ne riconosca lo status di inferiorità/allusione alla realtà assoluta (Respubl., 424d ss.; Leg., 667e, 796b ss.). Ma è Aristotele, fedele a una scelta descrittiva più che prescrittiva e dogmatica, che pienamente riabilita il piacere procurato dall'imitazione connettendolo con l'attività conoscitiva (e insieme lo dichiara non riservato ai pochi filosofi, ma connaturato a tutti gli uomini): davanti a un'immagine (anche di cose spiacevoli, che nella realtà ci destano disgusto) si prova piacere perché, nel riconoscimento dell'oggetto imitato, si apprende, anche, qualcosa (Poet., 1448b, 9; cfr. Rhet., 1371b, 4; Part, anim., 645a, 8; Polit., 1340a, 25). Lo spunto aristotelico è destinato a lunghissima fortuna, tant'è vero che secoli dopo lo ritroveremo sviluppato in Plutarco (Mor., 17F ss., 673D ss.) e in Filostrato dilatato nell'idea di ima duplice facoltà mimetica: l'una - dono della natura a tutti gli uomini - consistente nella capacità di elaborare immagini mentali e di apprezzare di conseguenza un'immagine dipinta in quanto simile a un'immagine interiore nota; l'altra, prerogativa dell'artista, data dal combinarsi della prima con la capacità tecnica di proiettarla in forma visibile (Vit. Apoll., II, 22). Là dove Platone risentiva dell'identificazione arcaica fra ordine esteriore e comunicazione persuasiva (e di qui la preoccupazione che sotto una bella forma si annidasse un contenuto moralmente pernicioso), la soluzione aristotelica aveva aperto la strada a un apprezzamento del valore intellettuale autonomo del medium formale, e a un progressivo individuarsi della sfera estetica rispetto a problematiche ontologiche. Di fatto, attraverso lettura diretta o indiretta della Poetica e della Retorica si diffonde e accentua nella cultura ellenistica quell'interesse per l'aspetto formale del prodotto artistico che abbiamo visto emergere, per altro verso, esaminando la storia della nozione di phantasìa: ed è Filostrato che abbiamo visto distinguersi, in ogni caso, quale interprete consapevole e originale.
È Plotino, d'altronde, che in età tardoantica dedica al problema estetico la riflessione più attenta e compiuta: la funzione della bellezza sensibile nell'ascesa dell'anima alla verità è tema frequentissimamente toccato nelle Enneadi e centrale nei due trattati Sul Bello (I, 6; secondo Porfirio il primo a essere stato scritto) e Sul Bello Intelligibile (V, 8). Il bello infatti è tale in quanto partecipa dell'èzdos (nella sua forma assoluta coincide anzi col Bene, che ne è «fonte e principio»: I, 6, 6, 24 ss.; I, 6, 9, 37 ss.), e nel momento in cui l'anima lo ravvisa nelle forme sensibili si rammemora (anamimnèsketai) della propria natura essenziale, anteriore alla caduta nella veste corporea (I, 6, 2). La percezione della bellezza di immagini e suoni sensibili segna la prima tappa di un processo dialettico (la seconda essendo l'amore, la terza la filosofia) lungo il quale, per via di astrazione dall'elemento materiale, colui che si è incarnato come mousikòs potrà elevarsi alla bellezza e all'armonia intelligibili (I, 3, 1, dove è da notare la citazione da Plat., Phaedr., 248d). È evidente che, entro i contorni di una metafisica di stampo platonico, Plotino sottopone il sensibile a una rivalutazione inaudita: e tale rivalutazione estende anche all'arte accogliendo e sviluppando (particolarmente nel primo capitolo dello scritto Sul Bello Intelligibile, ma cfr. anche I, 6, 3) la nozione di una «forma interna» alla mente dell'artigiano (che la proietta poi su una materia che è di per sé base bruta). Esplicito e definitivo è il distacco dal disprezzo portato da Platone alla mimesi (e a ogni tèchne) in quanto attività di secondo grado rispetto alla natura: perché appunto la mimesi non ha necessariamente un oggetto visibile, ma può elevarsi direttamente alle idee o ragioni (lògoi) da cui la natura stessa deriva (V, 8, I, 32 ss.; V, 8, 5 fin.). E come prova viene citata la capacità immaginativa dell'artista, col classico esempio di Fidia che per l'immagine di Zeus non è ricorso ad alcun modello sensibile, ma è pur riuscito a coglierlo «quale apparirebbe, se volesse manifestarsi (phanenai) ai nostri occhi» (V, 8, 1, fin.).
In una teoria della ricezione estetica come contemplazione immediata dell'intelligibile, non dispersa nel sensibile, si inserisce la nota critica alla definizione della bellezza come giusta proporzione (symmetrìa), cara a tanta parte del pensiero greco e in particolare valorizzata dagli stoici (Diog. Laert., VII, 100; Cic., Tusc., IV, 13,31; Gal., Hipp. Plat, plac., V, 3 = SVF, III, 83, 279, 472). Per Plotino l'armonia esteriore delle parti può al massimo dare un riflesso della bellezza, che, lungi dal ridursi a una formula materiale e meccanica, è nella sua purezza fatto semplice e unitario, da cogliersi per balenìi intuitivi (I, 6, I, 21 ss.; VI, 7, 22, 24 ss.). La percezione della bellezza ideale produce inoltre nell'anima una piacevole eccitazione (I, 6, 4, 15 ss.) che prelude a una purificazione (kàtharsis) dal corporeo e a un contatto diretto col divino intelligibile (I, 6, 6, 13 ss.): e dunque anche il piacere estetico trova una piena riabilitazione in termini conoscitivi, di segno più aristotelico (come indica l'accenno alla kàtharsis) che platonico.
È vero che l'attività artistica rimane legata al sensibile quale necessario medium espressivo (situandosi dunque su un piano inferiore rispetto alla conoscenza filosofica): e anzi, poiché l'anima è più vicina al principio creatore, un corpo vivente rimane più attraente, anche se brutto, di un bell'artefatto (VI, 7, 22, fin.). Né sembra esservi spazio in questo quadro per un senso di piena individualità creativa: il valore dell'arte continua a essere dato da un modello obiettivo trascendente più che da fattori soggettivi, e la bellezza più alta rimane sostanzialmente quella dell'Idea sottratta alla caduta nel mondo della materia. L'arte certo non imprigiona più l'uomo nei limiti del sensibile, ma trova comunque il suo senso in una tensione fra nascondimento e rivelazione dell'ideale. Plotino prolunga e amalgama elementi già affiorati in un lungo e accidentato percorso di revisione del concetto di mimesi, che d'altronde non usciva dai binari dell'impostazione ontologica platonica: anche per questo motivo il suo pensiero estetico si presenta, più che come l'apologia di una determinata corrente artistica contemporanea, o addirittura un'anticipazione della sensibilità medievale, come la summa di una tradizione dalla lunga storia, con tutti i suoi antichi problemi.
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(M. M. Sassi)