Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale
Opera pubblicata da Croce nel 1902 per Sandron di Palermo, fu ristampata due anni dopo presso il medesimo editore. Ripubblicata nel 1908 presso Laterza di Bari, con notevoli modifiche, conobbe poi, vivente Croce, altre sette edizioni sempre per Laterza (l’ultima con correzioni dell’autore nel 1950). Seguirono altre due edizioni laterziane e, nel 1990, un’edizione presso Adelphi di Milano. Nel 2014 è stata approntata, per le cure di Felicita Audisio, l’edizione critica nel quadro della Edizione nazionale delle opere (presso Bibliopolis di Napoli). Tradotta in moltissime lingue, è una delle opere più note di Croce, anche all’estero, e ha avuto un ruolo determinante nella diffusione del suo pensiero nei primi anni del Novecento. Attraverso l’influsso esercitato sulla critica letteraria, artistica e musicale, l’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale (196511, d’ora in poi solo Estetica) ha contribuito forse più di ogni altra a plasmare la cultura italiana della prima metà del secolo scorso.
Croce manifestò molto presto interesse per l’estetica, come testimonia nelle Memorie della mia vita redatte nel 1902: «Fin dal 1885 […] avevo formato il proposito di studiare la scienza estetica, ed avevo acquistato perciò molti volumi tedeschi sull’argomento» (1966, pp. 15-16). Questi studi però furono presto soverchiati dalle ricerche erudite, salvo poi riprendere lena con la memoria del 1893 La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, che si apre proprio con un esame delle principali teorie estetiche e con un’adesione, in via provvisoria, alle vedute hegeliane in materia di estetica. L’anno seguente sarà la volta dell’opuscolo La critica letteraria: questioni teoriche, nel quale si toccavano in parecchi punti questioni di estetica, si segnalava che gli studi estetici giacevano in Italia «nel più completo abbandono», e si tracciava un programma di ricerca che sarebbe stato sviluppato più tardi. Non subito, però, perché nuovamente il lavoro sull’estetica cedette il passo ad altri interessi, quelli per la scienza economica, che Croce coltivò intensamente dal 1895 al 1898 (come testimoniato dai saggi successivamente raccolti in Materialismo storico ed economia marxistica del 1900). Finalmente, nell’autunno di quell’anno, Croce riprese il disegno di un lavoro sistematico sull’estetica, salvo poi doverlo nuovamente differire all’estate seguente per strascichi di precedenti lavori. E la gestazione non fu facile, anzi fu insolitamente tormentata, con continui ripensamenti, fino a quando, dopo vari mesi, Croce poté dare forma alle Tesi fondamentali di un’estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, una memoria «arida ed astrusa», ma che fece sentire Croce, per la prima volta, «affatto orientato sui problemi dello spirito» (B. Croce, Contributo alla critica di me stesso, 1918, a cura di G. Galasso, 1989, p. 38). La memoria fu letta all’Accademia pontaniana, in tre tornate, nella primavera del 1900, e stampata nello stesso anno (rist. anast. a cura di F. Audisio, 2002). Croce intendeva far seguire all’indagine teorica una storia dell’estetica, ma dovette assumere un incarico presso il Comune di Napoli, e così la parte storica fu completata solo nell’autunno del 1901. Croce a questo punto rifuse anche la parte teorica e il libro venne alla luce nell’aprile 1902. Stilisticamente, anche l’Estetica mantiene qualcosa della asciuttezza delle Tesi fondamentali: è estremamente apodittica, privilegia le affermazioni sulle dimostrazioni, dà poco spazio all’esemplificazione (e ancor meno a quella tratta da opere letterarie, poetiche o artistiche), ed è insomma molto lontana non solo dal tono nobilmente oratorio delle ultime grandi opere crociane (La poesia: introduzione alla critica e storia della poesia e della letteratura del 1936, o La storia come pensiero e come azione del 1938), ma anche dalla riuscita stilistica della Logica come scienza del concetto puro o della Filosofia della pratica. Economica ed etica, che la seguono di solo pochi anni (1909).
Il punto di avvio dell’Estetica è il riconoscimento nella Storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte del carattere conoscitivo dell’esperienza estetica. In quella memoria, infatti, intanto la storia veniva ritenuta assimilabile all’arte in quanto di quest’ultima si metteva in rilievo il carattere non di dilettazione o di fare pratico, ma di conoscenza. Nell’Estetica, l’arte è conoscenza, ma è la forma intuitiva del conoscere, nettamente distinta dalla conoscenza logica che è propria della filosofia e della scienza. Specifico della conoscenza intuitiva è il carattere individuale delle rappresentazioni che essa produce, laddove la conoscenza logica è conoscenza di universali: intuisco questo albero che è ora davanti ai miei occhi, questo paesaggio che rievoco nell’immaginazione, questo motivo musicale. La natura dell’intuizione viene precisata da Croce attraverso la sua distinzione da un lato rispetto alla sensazione, al mero stimolo esterno, dall’altro dalla percezione, che è l’intuizione accompagnata però dal giudizio di esistenza e appartiene quindi al gradino successivo della conoscenza logica.
Chiarendo la diversità rispetto alla mera sensazione Croce precisa il carattere costruttivo e formativo dell’intuizione: a differenza della sensazione, l’intuizione è elaborazione del dato esteriore: «Lo spirito non intuisce se non facendo, formando, esprimendo» (Estetica, cit., p. 11). L’intuizione e l’espressione coincidono, sono identiche: se ho veramente davanti ai miei occhi i tratti di un viso conosciuto, debbo essere in grado di sbozzarli su un foglio di carta; se non vi riesco, non è perché non so disegnare. È vero piuttosto il contrario, cioè non so disegnare perché credo soltanto di saper cogliere i tratti di un volto. D’altronde, non daremmo alcun credito a chi affermasse di possedere un motivo musicale se non sapesse almeno approssimativamente cantarlo o suonarlo. Ciò è verificabile anche nell’espressione verbale: credere di possedere chissà quali finezze di sentimento, ma non riuscire a esplicitarle, è un’illusione frequente, ma chi sente profondamente sa anche profondamente esprimersi. Agiva qui certamente anche un presupposto di natura morale, l’insofferenza di Croce per le velleità destinate a non realizzarsi e per le profondità solo asserite, per tutto ciò che rimane mera potenzialità e non viene tradotto in opera: non per nulla l’identità di intuizione ed espressione sembra anticipare quella di volizione e azione della Filosofia della pratica o gli ammonimenti dei Frammenti di etica (1922) sull’abisso che separa il desiderare dal volere.
L’insistenza sul carattere espressivo dell’attività estetica è probabilmente l’aspetto più noto dell’estetica crociana, perché è quello che più facilmente può essere messo in relazione con il generale orientamento dell’arte moderna, dal Romanticismo in poi, a concepirsi appunto come espressione di contro al concetto antico, ma imperante fino al Settecento, dell’arte come imitazione. Per usare una metafora diventata corrente, all’arte intesa come specchio del reale si sostituisce l’immagine dell’arte come lampada, come fonte autonoma di visibilità che si proietta sul mondo. Invece l’aspetto per cui l’estetica crociana è un’estetica dell’intuizione è già più difficile da intendere nella sua portata, dato che ‘intuizione’ è un termine tecnico della filosofia. Proprio perciò occorre sottolineare che attraverso il carattere intuitivo dell’esperienza estetica Croce si ricollegava, per così dire di colpo, alla grande tradizione settecentesca, ovvero da un lato all’inventore del termine estetica, Alexander Gottlieb Baumgarten, e dall’altro al suo massimo teorico, Immanuel Kant. Come l’intuizione kantiana, quella di Croce è completamente distinta dal concetto e non meramente diversa da esso solo perché più confusa; come quella di Baumgarten e della tradizione leibniziana in cui quest’ultimo si muoveva, però, l’intuizione crociana è in grado di fornire per sé conoscenza, senza bisogno di attendere che il concetto la trasformi e la elabori. A differenza dell’intuizione kantiana che necessita sempre dell’opera del concetto per produrre conoscenza, insomma, quella crociana è per sé conoscenza, viva e presente conoscenza:
Il primo punto che bisogna fissarsi in mente è che la conoscenza intuitiva non ha bisogno di padroni; non ha necessità di appoggiarsi ad alcuno; non deve chiedere in prestito gli occhi altrui perché ne ha in fronte di suoi propri, validissimi (Estetica, cit., p. 4).
Il secondo passo decisivo compiuto dall’Estetica consiste nel non ammettere una differenza qualitativa tra le intuizioni. Tutte le intuizioni sono arte, e i limiti tra le espressioni-intuizioni, che si considerano comunemente arte, e quelle che invece non sono tenute per tali, sono empirici: «un epigramma appartiene all’arte: perché no una semplice parola? Una novella appartiene all’arte: perché no una nota di cronaca giornalistica?» (p. 17). Qui si evidenziava una radicalità destinata in seguito a essere attenuata rispetto a un più marcato orientamento della riflessione crociana verso una ‘filosofia dell’arte’ in senso tradizionale; resta il fatto, in ogni caso notevole, che l’esperienza estetica così come configurata nel volume del 1902 possiede un ambito ben più vasto di quello dell’arte nel senso corrente del termine, e in nessun modo riducibile alla ‘grande arte’; non qualcosa di eccezionale e sporadico, insomma, ma piuttosto una funzione onnipresente nel nostro conoscere. «La mia estetica è sommamente liberista», ebbe a dire Croce, e ciò è indubbio se si sta alla lettera del testo. Il discrimine tra le espressioni che chiamiamo ‘arte’ in senso eminente e le espressioni ‘comuni’ non è relativo alla funzione che esse compiono nell’economia spirituale, non è tracciato sul piano delle condizioni trascendentali (che sono le medesime in tutti i casi), ma sul piano empirico.
L’avere staccato l’arte dalla comune vita spirituale, l’averne fatto non si sa qual circolo aristocratico o quale esercizio singolare, è stata fra le principali cagioni che hanno impedito all’estetica, scienza dell’arte, di attingere la vera natura, la vera radice di questa nell’animo umano (p. 17).
Tra la conoscenza intuitiva e quella logica Croce poneva un doppio grado di implicazione, nel senso che mentre l’estetica era pensata affatto indipendente dalla logica, la reciproca non era invece considerata vera: la logica non può stare senza l’estetica. La conoscenza logica si costruisce a partire dalle intuizioni, sussumendole ai concetti, e dunque delle intuizioni ha sempre bisogno. Estetica e logica esauriscono, nel loro insieme, la forma teoretica dello spirito, che viene fatta oggetto di trattazione nei primi tre capitoli dell’opera. A questi fanno seguito, secondo un modulo destinato a diventare tipico in Croce, due capitoli, il quarto e il quinto, nei quali si analizzano gli errori che nascono da una mancata o imperfetta distinzione dei due momenti della conoscenza teoretica (“Istorismo e intellettualimo nell’estetica”; “Errori analoghi nell’Istorica e nella Logica”). Dalla sfera teoretica è interamente distinta la sfera pratica, ovverosia l’insieme di ciò che è possibile mediante la volontà, che viene sbozzata nel capitolo sesto. E mentre la conoscenza, almeno in linea di principio, non implica necessariamente l’azione, l’inverso di nuovo non è vero, e perché vi sia azione pratica è necessario, a parere di Croce, supporre anche una qualche conoscenza.
Ancora più significativa, però, è l’analogia che Croce scorge nella struttura della sfera teoretica e in quella della sfera pratica (cap. 7). Se nella prima Croce separava l’estetica e la logica, qui egli distingue la ricerca dell’utile immediato, singolo, che è il campo dell’attività economica (che per Croce comprende non solo l’economia in senso stretto, ma anche la politica e il diritto) dalla ricerca del bene universale, l’etica. E, come l’estetica poteva stare senza la logica, ma non viceversa, così l’economica può stare senza l’etica, ma la reciproca non si dà (anche chi agisce moralmente deve comunque realizzare qualcosa di utile e non di insensato e dannoso). L’economica è come l’estetica della vita pratica, con i corollari, destinati a creare non poche difficoltà alla riflessione successiva di Croce, dell’autonomia dell’agire politico rispetto all’etica e della relativa legittimità di un agire svincolato da valutazioni etiche – gli esempi di agire economico che Croce sceglie nell’estetica non sono quelli dei creatori di benessere e di ricchezza, ma confinano in maniera pericolosa con la ribalderia e il delitto: Ser Ciappelletto di Giovanni Boccaccio, Iago nell’Othello di William Shakespeare, o, per passare alla storia, Cesare Borgia.
Compiuta la ricognizione delle quattro forme spirituali, estetica, logica, economica ed etica, approfondite nel decennio successivo mediante gli altri due volumi della Filosofia dello spirito, l’Estetica proseguiva negando (è l’argomento del cap. 8) che possano esistere altre forme spirituali, il che significa che le altre attività – per es. il fatto giuridico, o la religione, o la metafisica – possono essere riportate nei loro principi fondanti a una delle quattro categorie. Il loro principio esplicativo, sul piano della fondazione trascendentale, è identico a quello di una delle quattro attività individuate nei capitoli precedenti: il diritto è essenzialmente attività economica, la religione è un surrogato dell’attività conoscitiva, e altrettanto lo sono il mito o la metafisica.
Per sbozzare la sua teoria estetica Croce dovette dare le linee portanti del suo intero sistema filosofico, e descrivere, almeno a larghi tratti, non solo l’estetica ma anche gli altri tre grandi ambiti della sua filosofia (i ‘distinti’): estetica e logica, economica ed etica formano le grandi categorie, i grandi principi esplicativi ai quali è possibile ricondurre tutte le altre attività. In questo modo, la prima estetica di Croce riusciva ad affermare con grandissima energia il principio dell’autonomia dell’arte, radicandola nella stessa compagine delle condizioni di possibilità del nostro agire e conoscere. L’arte è indipendente dalla conoscenza logica e dalla morale: la sana convinzione che è sbagliato valutare l’arte sul metro di ciò che vi si impara o sulla edificazione morale che se ne può trarre veniva a ottenere una fondazione trascendentale. Questo è stato certamente uno dei punti di forza dell’estetica crociana, che costituisce una rivendicazione del ruolo insostituibile che l’attività estetica riveste nel quadro complessivo della nostra esperienza, e della impossibilità di ricondurre il valore estetico a valori etici o conoscitivi.
L’Estetica, insomma, anche nella sua materialità di libro, si presentava come l’abbozzo del sistema filosofico crociano: la sua prima, sinteticissima, formulazione. La circostanza è molto significativa, specie se la si pone in relazione con la ricezione cui l’opera andò incontro. Pur essendo saldamente inserita in una struttura sistematica, l’Estetica sperimentò un’ampia diffusione innanzi tutto come opera singola, e questo ha propiziato lo strano equivoco in forza del quale le è stata spesso rimproverata (soprattutto da Giovanni Gentile e i suoi allievi, ma non solo da loro) una scarsa filosoficità. Inoltre, che Croce entrasse a pieno titolo nella filosofia attraverso un’opera di estetica costituisce, se non un unicum (si potrebbe forse citare il caso di Friedrich Wilhelm Nietzsche, in cui però considerazioni sistematiche hanno ben poco significato), certo un fatto assai raro nella storia della filosofia, dove quasi tutte le opere di estetica sono state scritte dai grandi filosofi – da Kant a Georg Wilhelm Friedrich Hegel, da David Hume a John Dewey – dopo che essi avevano elaborato le linee portanti delle loro filosofie.
Quel che più conta, però, è notare come in Croce la delimitazione del campo estetico avveniva per mezzo di una serie di sottrazioni. L’arte è altra cosa rispetto all’attività pratica, al conoscere logico, alla mera sensazione passiva. Per giungere ad afferrare l’arte Croce procede per via negativa: egli deve percorrere l’intero arco delle attività spirituali perché la sua concezione dell’attività estetica nasce dalla separazione di essa dalle altre sfere dell’agire e del conoscere. Questo impianto si farà più trasparente nelle successive esposizioni che Croce darà della propria teoria, in particolare nel Breviario di estetica (1913) e nella Aesthetica in nuce (1929), dove mette in chiaro che la definizione dell’arte in termini di intuizione-espressione non si coglie nella sua vera portata se non la si collega a ciò che esclude e da cui distingue l’attività estetica.
Alla diffusione dell’estetica crociana e alla sua efficacia pratica ha contribuito però non solo il suo impianto propositivo o costruttivo, ma anche, e in misura non certo minore, il suo aspetto polemico e critico, diciamo pure eversivo. Tutti i capitoli dell’Estetica che seguono l’ottavo, se si esclude l’ultimo, cap. 18, dove si argomenta l’identità di linguistica ed estetica, sono rivolti a espellere dall’estetica problemi e teorie mal poste, hanno cioè un carattere marcato di confutazione. Dai capisaldi appena stabiliti, Croce tirava a fil di logica una serie di eliminazioni, che venivano a negare la legittimità a molti dei problemi posti dai trattati di estetica all’epoca correnti, soprattutto in Germania, marcando una diversità visibile anche, per così dire, quantitativamente: a fronte dei grossi tomi prodotti dai colleghi di oltralpe, la sola parte teorica dell’Estetica si chiudeva in poco più di centocinquanta pagine. Ne facevano le spese strumenti concettuali da lunghissimo tempo familiari alla critica letteraria e artistica: la teoria dei generi letterari e la stessa distinzione tradizionale delle arti in poesia, pittura, scultura, musica ecc.; le figure retoriche e tutto l’impianto della stilistica classica; le categorie estetiche in tutta la loro varietà, da quelle con una lunga storia alle spalle (sublime, tragico, comico ecc.) a quelle che si erano moltiplicate nei trattati di estetica di matrice psicologica (maestoso, solenne, grave, nobile, ma anche, doloroso, orrido, tremendo, mostruoso).
Il nerbo di questa prima trattazione – scriverà Croce nella prefazione alla 5a edizione del 1922 – consisteva nella critica, da una parte, dell’estetica fisiologica, psicologica e naturalistica in tutte le sue forme, e dall’altra dell’estetica metafisica, con la conseguente distruzione dei falsi concetti da esse foggiati o avvalorati, nella teoria e nella critica dell’arte, contro i quali faceva trionfare il semplice concetto che l’arte è espressione, espressione, beninteso, non già immediata e pratica, ma teoretica, ossia intuizione (Estetica, cit., p. VII).
Ognuna delle eliminazioni viene argomentata nel testo del 1902 e del 1904 in modo diverso. Per la distinzione delle arti, l’errore nasce dal ritenere che a essere portatori di valore estetico siano gli oggetti materiali in cui si incarnano le esperienze estetiche (quadri, statue, architetture), mentre per Croce quelle esperienze sono eventi spirituali che si compiono nella mente dell’artista o del fruitore, e le opere fisicamente intese sono solo dei sussidi pratici alla trasmissione e alla rievocazione dell’esperienza interna.
Le cosiddette arti non hanno limiti estetici, giacché, per averli, dovrebbero anche avere esistenza estetica nella loro particolarità; e noi abbiamo mostrato la genesi affatto empirica di quelle partizioni. [Le arti] non hanno limiti […] non sono determinabili esattamente, né quindi filosoficamente distinguibili (p. 126).
Croce sradicava una delle assunzioni più pacifiche non solo della teoria, ma anche della comune esperienza dell’arte, il fatto che le arti si distinguano in virtù della materia che impiegano per manifestarsi, i pigmenti colorati della pittura, la pietra o il legno della scultura, i materiali da costruzione dell’architettura.
Fissato il carattere teoretico dell’attività estetica, e distinta da essa ogni attività pratica, Croce dichiarava estraneo al nesso puramente interno di intuizione-espressione ogni processo di fissazione materiale, fisica delle espressioni. Una volta raggiunta l’espressione adeguata a una data intuizione, la registrazione o trasmissione di essa mediante segni o supporti diventava un’attività aggiuntiva, a rigore estranea all’estetica stessa e di pertinenza di un atto pratico, economico. L’opera d’arte è per Croce – altro punto che resterà fermo attraverso tutti gli sviluppi successivi – l’immagine interna prodotta dall’artista e riprodotta dal fruitore, mentre l’oggetto bello (la statua di marmo, la tavola o la tela sulla quale sono stati fissati i colori, gli inchiostri e la carta usati per stampare una poesia) è un semplice ausilio alla comunicazione.
Alla tecnica artistica veniva così negato ogni rilievo estetico. Essa attiene alla estrinsecazione, alla registrazione di stimoli esterni indirizzati a permettere la riproduzione dell’esperienza estetica. Si può essere un buon pittore e non padroneggiare la tecnica dell’affresco, come Leonardo da Vinci, o scegliere colori deperibili, come Joshua Reynolds, così come si può essere un ottimo modellatore senza possedere i segreti della fusione in bronzo. Croce, evidentemente, faceva slittare la situazione accertabile nel caso delle arti che si servono di una notazione, come la poesia o la musica, nelle quali la fissazione è già fatta in interiore homine, su quella che si verifica nelle arti che non dispongono di una notazione rigida, come la pittura o la scultura, ponendo un’eguaglianza troppo stretta fra la trascrizione di un’espressione del tutto compiuta e la fissazione di un’espressione la cui compiutezza non è a rigore accertabile indipendentemente dall’estrinsecazione.
Si tratta di uno degli aspetti più discussi dell’estetica crociana, e quello che fu più direttamente contestato dalle teorie estetiche la cui diffusione segnò, negli anni Cinquanta del Novecento, la presa di distanza da Croce. La rivalutazione della materia (delle materie) e della tecnica, e di conseguenza della distinzione tra le arti fu il leitmotiv che guidò le estetiche di impostazione fenomenologica o ermeneutica, e certo non senza ragione. Ma resta la natura liberatoria della negazione crociana dei limiti delle arti, che toglie terreno alle elucubrazioni sullo ‘specifico’ di questa o quella arte, che tanto aduggeranno le teorie delle singole arti nel secolo scorso, e che, alla luce della situazione odierna, segnata dalla più ampia proliferazione dei mezzi espressivi e l’eversione di ogni confine prestabilito tra le arti, riacquista forse una paradossale attualità, se è vero, come è stato osservato, che oggi è assai più facile dire se qualcosa è arte o no piuttosto che individuare di che arte si tratta.
Anche nel caso delle categorie estetiche quali tragico, comico, umoristico, ma anche grazioso, sublime, elegante, il verdetto crociano sembrò la liquidazione di un patrimonio che apparteneva alla tradizione più consolidata dell’estetica. La confutazione crociana dei tentativi di definire l’umorismo provocò, per es., una celebre polemica con Luigi Pirandello, che ebbe a paragonare l’Estetica a una formidabile barriera ferrea, atta a impedire ogni passaggio, dietro la quale però si nascondeva solo il vuoto. Secondo Croce l’umorismo, come tutti gli altri concetti che denomina, non a caso, «pseudoestetici», non appartiene all’estetica in quanto scienza rigorosa e filosofica, ma è solo un raggruppamento di rappresentazioni costruito a fini pratici. «Comico, sublime, tragico, umoristico sono processi psicologici» (così si esprimeva l’edizione del 1904, molto diversa dalle successive perché i capp. 10 e 12 verranno profondamente rimaneggiati a partire dalla 3a edizione), e la psicologia va considerata una scienza «descrittiva ed empirica» che «studia i reali o possibili aggruppamenti di fatti organici di varia intensità, e li definisce in modo approssimativo» (pp. 113-14). Per questa ragione, le definizioni approntate dalla psicologia contengono sempre un elemento di arbitrarietà e di convenzionalità in quanto distaccano con un taglio netto fenomeni che sono congiunti tra loro da un passaggio continuo di sfumature.
Infine nel caso dei generi letterari, si ravvisa alla base della classificazione delle opere in romanzi, odi, novelle, o pitture storiche, nature morte, ritratti, uno scambio tra ciò che pertiene all’estetica e ciò che pertiene alla logica (e perciò i generi sono considerati un esempio di ingerenza intellettualistica nell’ambito dell’intuizione). L’argomento di Croce nell’Estetica è che, per costituire un genere, l’opera d’arte deve trovarsi a fungere da soggetto di un giudizio (per es. l’Orlando Furioso è un poema cavalleresco), e quindi affermando l’appartenenza di un’opera a un genere letterario si esce dall’ambito dell’estetica per entrare in quello della logica. Ma già nell’opuscolo su La critica letteraria Croce aveva definito i generi «classificazioni grossolane ed empiriche» (p. 111), e l’Estetica riecheggia queste considerazioni osservando che la classificazione per genere è analoga a quella che si effettua per motivi di comodo nelle biblioteche, dunque una classificazione a mero scopo utilitario.
Alla base di tutte queste esclusioni c’è un modulo di pensiero costante, e un’esigenza sempre di nuovo avanzata. Lo si vede bene partendo dalla critica alle figure retoriche e alla stilistica, che si basa sulla forte affermazione del carattere individuale dei fatti espressivi, dell’impossibilità di creare delle classi di espressioni, perché in tal modo si verrebbe a tradire la singolarità irripetibile di ogni intuizione-espressione. Ebbene, questa stessa esigenza è alla base di tutte le ‘eliminazioni’ crociane, perché caratteristica dell’Estetica non è solo la volontà di fondare l’attività artistica sul piano trascendentale, riportandola alla universalità della categoria; c’è, altrettanto radicale, una rivendicazione dell’infinita varietà e diversità dei fatti espressivi. Quel che si colloca a mezza strada tra la universalità della categoria e l’infinita ricchezza del reale tradisce l’inesauribile diversità della vita artistica: per identificare un genere letterario debbo sacrificare quanto di innovativo e di non riconducibile a un modello preesistente è presente in ogni opera autenticamente riuscita, dimenticando che ogni opera valida modifica il nostro concetto del genere al quale presuntivamente apparterrebbe, mentre per classificare le figure retoriche debbo prescindere dalla infinita varietà dei nostri atti di parole, dove ogni espressione ha una sfumatura differente dalle altre.
Questa rivendicazione dell’individualità irriducibile di ogni atto espressivo anticipa e prepara, per altro, uno snodo decisivo della filosofia crociana, il nesso tra concetto e pseudoconcetto così come sarà teorizzato nella Logica, del 1909, nella quale Croce dirà che attraverso l’Estetica «intese la vera relazione tra filosofia e scienze, e insieme si venne liberando delle scorie di metodo intellettualistico e naturalistico» (Logica, 1958, pp. 210-11). Tutto ciò emerge ancor più chiaramente nel Contributo:
Ma fu nell’aspro travaglio che [...] mi costò l’Estetica che [...] superai la trascendenza naturalistica attraverso la critica che venni irresistibilmente compiendo dei generi letterari, della grammatica, delle arti particolari, delle forme retoriche, toccando quasi con mano come nello schietto mondo spirituale dell’arte si introduca la ‘natura’, costruzione dello spirito stesso dell’uomo; e negata realtà alla natura nell’arte, mi spianai la strada a negargliela dappertutto, scoprendola dappertutto, non come realtà ma come prodotto del pensiero astraente (Contributo alla critica di me stesso, cit., p. 55).
Il metodo che regge le eliminazioni crociane nel trattato del 1902, insomma, è già incamminato sulla strada che di lì a poco passerà per la distinzione tra concetto puro e pseudoconcetto: si afferma la categorialità del conoscere estetico, ossia lo si fonda in una funzione trascendentale, in una forma spirituale, e correlativamente si pone l’accento sull’infinita varietà dei fatti estetici, dichiarando tutte le teorizzazioni che procedono per astrazioni, che producono concetti di genere, concetti empirici, da un lato incapaci di attingere un piano di universale validità, dall’altro condannate a falsificare la singolarità irripetibile dei fatti. È per questo che a Croce riuscirà in seguito molto agevole la riformulazione delle critiche elaborate nell’Estetica nella nuova terminologia fissata negli scritti sulla logica.
Anche la ‘riconduzione’ o ‘riduzione’ della linguistica all’estetica, richiamata fin dal titolo dell’opera ma svolta soltanto nell’ultimo capitolo, va riportata a questo orizzonte di pensiero. La tesi dell’identità di linguaggio e arte, per la sua radicalità, ha sempre prodotto insieme interesse e sconcerto. La dimostrazione dell’identità è affidata a un ragionamento alquanto schematico: discende direttamente dalla presupposizione, data per evidente, che linguaggio e arte sono attività espressive; e siccome Croce ha sostenuto in precedenza che non esistono classi di espressioni, ne segue che è impossibile distinguere l’espressione linguistica dall’espressione tout-court. La portata dell’affermazione andava al di là della lettera dell’argomentazione presa nella sua secchezza, che tra l’altro poteva far pensare che Croce privilegiasse questioni di inquadramento disciplinare (formalmente, è la linguistica generale a essere ricompresa nell’estetica). Ma il vero elemento teoricamente rilevante è la sottolineatura del carattere di libera creazione, di produttività infinita del linguaggio stesso. Non si trattava tanto di proclamare l’‘artisticità’ del linguaggio inteso nella sua materialità, quanto di richiamare l’attenzione sulla creatività e innovatività come condizioni basilari della sua possibilità, come principi indispensabili al suo funzionamento: «il linguaggio in quanto espressione è il linguaggio nella sua essenza» (Estetica, cit., p. 162).
Rivendicando il carattere creativo di ogni atto linguistico Croce non solo riprendeva una tesi che era stata di Giambattista Vico e di Johann Georg Hamann, quella del carattere originariamente poetico del linguaggio, trasferendola dal passato remoto al funzionamento costante del linguaggio, ma riaffermava ancora una volta il primato della creazione linguistica, sulla sua codificazione, della parole sulla langue. Con l’accentuazione dell’elemento creativo e sempre rinnovantesi del linguaggio, d’altronde, Croce si inseriva tempestivamente nel clima di reazione alla considerazione positivistica del linguaggio, e dava voce a esigenze che in altri Paesi d’Europa erano invece incarnate da linguisti di professione, come Hugo Schuchardt o Jules-Louis Gilliéron. La lingua è perennemente viva e sempre in evoluzione, altrimenti diventa inspiegabile il mutamento linguistico, che però non si arresta mai: di qui l’opposizione, anche in questo caso liberatoria, di Croce da ogni pretesa normativa nel campo linguistico:
il linguaggio è perpetua creazione, ciò che viene espresso una volta con la parola non si ripete se non appunto come riproduzione del già prodotto; le sempre nuove impressioni danno luogo a mutamenti continui di suoni e di significati (Estetica, cit., p. 164).
Considerando la pars destruens dell’Estetica si coglie bene la portata innovativa di questo testo, che parve a molti addirittura rivoluzionario. La critica alle classificazioni psicologiche e alle categorie tradizionali dell’estetica veniva a rompere drasticamente con l’indirizzo dominante negli studi tedeschi di fine Ottocento, orientati dalle teorie dell’Einfühlung (oggi estetica dell’empatia e che Croce chiamava «estetica del simpatico»), verso una fondazione dell’estetica nella psicologia, e avvicina Croce a un processo di reazione contro il dissolvimento della filosofia nella psicologia che viene perseguito, negli stessi anni iniziali del secolo ma in altri campi della ricerca filosofica, da Edmund Husserl in Germania e da Henri-Louis Bergson in Francia. La rivendicazione di un intero campo del conoscere, quello dell’attività estetica e della storiografia, autonomo rispetto al conoscere logico ma dotato di una propria legalità e funzionalità, metteva Croce in relazione con quei teorici che, soprattutto in Germania, rivendicavano i diritti delle ‘scienze dello spirito’ accanto a quelle della natura, come Wilhelm Windelband e Heinrich Rickert; mentre alcuni elementi di netta derivazione kantiana dell’Estetica, come il carattere sintetico e formativo dell’intuizione-espressione, possono essere produttivamente messi in relazione con le dottrine elaborate a proposito delle arti figurative dai teorici della ‘pura visibilità’, quali Konrad Fiedler e Adolf von Hildebrand. D’altro canto, l’insistenza sull’individualità dei fatti estetici e linguistici mostra bene l’orientamento radicalmente antipositivistico della ricerca crociana, perché la classificazione e la ricerca delle uniformità erano proprio i cavalli di battaglia degli studi di impianto positivistico applicati alle discipline umanistiche. L’apprendistato erudito di Croce gli garantiva una solidità e una serietà di documentazione, negli studi storici e letterari, che metteva al riparo la sua protesta antipositivistica dai pericoli di superficialità insiti in un generico richiamo al valore estetico (come invece accadeva, negli stessi anni, all’estetismo italiano ben impersonato da una figura come Angelo Conti).
Questa ricchezza di documentazione era ben esibita nella parte storica dell’Estetica, assai più ampia di quella teorica, scritta in pochi mesi, ma basata su letture accumulate negli anni. Si tratta della prima storia generale dell’estetica scritta in lingua italiana, e ha il suo punto di forza in una larghissima conoscenza di prima mano dei testi fondamentali dell’estetica, tanto che ancora cinquant’anni dopo la sua stesura essa è potuta apparire a René Wellek, come scrisse nel suo A history of modern criticism, «la migliore esistente» (1° vol., 1955, p. 337). Croce vi affronta sistematicamente l’intera storia dell’estetica, secondo un modello di storia complessiva di una disciplina che presto abbandonerà (non si trova niente di analogo né nella Logica né nella Filosofia della pratica, che ospitano soltanto cenni storici di dottrine particolari, e neppure, a onta delle apparenze, in Teoria e storia della storiografia del 1917), e che lo porta ad aderire alla tesi, anch’essa ripudiata in seguito, del ‘problema unico’. I diversi autori sono cioè discussi come se le varie teorie succedutesi nel tempo potessero essere rapportate a un nesso problematico unitario, che poi, nel caso specifico, porta Croce a confrontare le teorie precedenti alle proprie e a individuare un ristretto numero di precursori e moltissime vedute teoriche erronee. I precursori sono trovati in Aristotele, Vico, Friedrich Daniel Ernst Schleiermacher e Karl Wilhelm von Humboldt, oltre che, naturalmente, in Francesco De Sanctis; Kant ha l’onore di un capitolo a sé, ma di tono piuttosto limitativo; l’estetica di Hegel e quella dell’idealismo tedesco, liquidate come ‘metafisica’, ne escono alquanto maltrattate. L’antichità e soprattutto il Medioevo sono considerati molto velocemente, e così pure i trattatisti del Cinquecento; originali sono invece le pagine dedicate alla trattatistica del Seicento, a Baumgarten, a Vico, e, nonostante la severità dei giudizi, agli autori del Sette e Ottocento.
Tornando alla parte teorica dell’Estetica, non tutte le dottrine esposte mostrano lo stesso grado di maturazione. Se dalla esclusione dei supporti fisici della comunicazione dall’ambito estetico vero e proprio, operante a proposito del rifiuto del sistema classico delle arti, Croce poteva già ricavare una posizione molto netta rispetto alla vecchia questione del bello naturale (che è ridotto a «semplice stimolo della riproduzione estetica, il quale presuppone l’avvenuta produzione», Estetica, cit., p. 125) ancora embrionali, e ampiamente modificate in seguito, sono le vedute di Croce in materia di giudizio estetico e di storiografia artistica e letteraria. Queste ultime, esposte nel cap. 17, risentono della generale incertezza in cui il pensiero crociano si muove, a questa altezza cronologica, relativamente al problema del nesso tra arte e storia. Le due attività erano state identificate, almeno in ultima istanza, nella memoria del 1893 su La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, mentre a partire dalla Logica (e, prima ancora, dai Lineamenti d’una logica come scienza del concetto puro del 1905) Croce ricondurrà la storia piuttosto alla filosofia, fino ad argomentare la risoluzione della filosofia nel momento metodologico della storia. Collocandosi a mezza strada tra queste differenti vedute, l’Estetica si dimostrava insolitamente oscillante nella soluzione del problema; e anche i rimaneggiamenti effettuati da Croce nella edizione del 1908, anziché dipanare il nesso tra arte e storia lo rendono ancor meno perspicuo.
Accostandosi al problema della possibilità di costruire una vera e propria storia della letteratura o dell’arte, poi, Croce riteneva necessario requisito per pensare la storia il criterio del progresso; e, avvedendosi della difficoltà di applicare questo criterio a tutta la serie degli eventi letterari o artistici (per l’evidente assurdità di dover asserire un progresso, mettiamo, tra Giotto di Bondone e Raffaello Sanzio, o tra Dante Alighieri e Ludovico Ariosto), ripiegava sull’idea che fosse possibile costruire delle serie storiche limitate nelle quali il criterio del progresso tornava a essere applicabile perché riferito a opere che vertono sulla medesima materia: per es., si potrebbe costituire un ciclo progressivo tra gli autori che trattano la medesima materia cavalleresca, da Luigi Pulci all’Ariosto, o tra i drammaturghi elisabettiani e Shakespeare.
Rispetto infine al giudizio estetico, manca nel testo del 1902 una vera e propria tematizzazione della natura e dei compiti della critica. Il cap. 16 si limita a identificare il giudizio sull’opera con la riproduzione dell’opera appoggiandosi alla tesi dell’identità tra attività produttiva (genio) e attività ricettiva (gusto) nel campo dell’arte. Questa tesi, di netta derivazione romantica – la si trova esplicitamente teorizzata in August Wilhelm von Schlegel –, in Croce assume, una volta ancora, il valore di un rifiuto di considerare l’esperienza estetica come terreno riservato a pochi individui eccezionalmente dotati. La differenza tra genio e gusto è solo quantitativa, non qualitativa: e del resto, si chiede l’Estetica, se tra i due ci fosse una diversità di natura o di essenza come mai potrebbero entrare in comunicazione? La valutazione coincide quindi, per il Croce dell’Estetica, con il gusto: giudicare un’opera significa per lui semplicemente riprodurla in sé, e la critica di un’opera d’arte è a sua volta una opera d’arte (storica) sopra un’altra opera d’arte.
Entrambe queste soluzioni saranno abbandonate nelle opere successive dedicate da Croce all’estetica. Riguardo alla storia letteraria e artistica, Croce ripudierà definitivamente l’idea che le opere possano costituire una serie ascendente, e insieme a essa anche la possibilità di costruire una storia complessiva della letteratura o di un’arte. Discostandosi dal modello desanctisiano, nel quale la storia letteraria si fonde con quella civile e politica, Croce propugnerà una storia composta esclusivamente da una serie di monografie sui singoli autori (o, addirittura, sulle singole opere), come l’unica in grado di evitare di disciogliersi nella sociologia dell’arte o nella storia tout-court (La riforma della storia artistica e letteraria del 1917). Per quanto riguarda la critica e il giudizio, la nuova posizione di Croce sarà esposta nel cap. 4 del Breviario di estetica, e consisterà nel pieno riconoscimento del carattere di giudizio proprio dell’attività critica. La critica è giudizio nel senso tecnico, filosofico del termine: è un giudizio, e dunque un’operazione logica, e in quanto tale congiunge il predicato di esteticità al soggetto, cioè all’intuizione (questa sì rievocata mediante il gusto). La critica, dunque, lungi dall’aggiungere una nuova opera d’arte a quella presa in esame, stabilisce la natura dell’oggetto che ha dinanzi, decide se è arte o no, e insomma il critico non è più, come avveniva nell’Estetica, artifex additus artifici, ma philosophus additus artifici. La critica artistica è filosofia, e poiché il giudizio critico non può non giudicare sulla base della collocazione dell’opera nella storia, cade anche la separazione tra critica e storia della letteratura, critica e storia dell’arte.
Non si tratta degli unici due casi in cui Croce abbia rivisto, approfondito o mutato le vedute esposte nell’Estetica. Si può dire anzi che per tutti i cinquant’anni successivi alla pubblicazione del volume Croce non abbia mai smesso di ripensare le questioni che aveva affrontato in quel testo. Così è stato per il ruolo del sentimento nella creazione artistica, oggetto della conferenza L’intuizione pura e il carattere lirico dell’arte (1908); così per il rapporto tra la sfera estetica e le altre attività spirituali (e qui si passa dallo schema per implicazioni successive alla teoria della circolarità delle forme spirituali), riesposto in modo del tutto diverso nel Breviario di estetica del 1913. Ancora molti anni dopo l’Estetica ci saranno novità rilevanti nel volume La poesia che introdurrà il concetto di letteratura, un termine che nel primo Croce ha una connotazione prevalentemente negativa e che passa invece a indicare una (positiva) congiunzione pratica di forma artistica e contenuti educativi, scientifici, di intrattenimento.
Tutte queste integrazioni e questi approfondimenti non si riflettono se non molto parzialmente sul testo dell’Estetica del 1902. È vero che Croce corresse personalmente, integrandole e variandole, tutte le successive edizioni del libro apparse mentre era in vita, ma, come si può immaginare, rinunciò quasi subito a modificarne l’assetto complessivo in modo che esso rispecchiasse le sue nuove convinzioni. Solo nell’edizione del 1908 Croce si sforzò di armonizzare, almeno in parte, il testo precedente con le posizioni raggiunte attraverso la stesura delle altre opere sistematiche. Successivamente, egli preferì dare notizia nelle varie prefazioni (in particolare quella alla ed. 1922 e in quella alla ed. 1942) degli scritti in cui aveva esposto le sue nuove convinzioni in materia di estetica. Questa circostanza rende impossibile distinguere l’influsso esclusivo del volume del 1902 sulla cultura successiva, perché alla diffusione dell’estetica crociana contribuirono ovviamente anche gli scritti successivi nel medesimo campo. Pur con questa avvertenza, occorre però dire che al volume del 1902 arrise una rapida fortuna, che in qualche modo stupì lo stesso autore. Alla diffusione in patria corrispose presto l’eco internazionale, con le traduzioni francese e tedesca quasi immediate e quella inglese uscita qualche anno dopo per problemi contingenti di traduzione.
Nuove edizioni e traduzioni, comunque, non esauriscono di per sé sole l’ampio capitolo della fortuna dell’Estetica. Quasi subito dopo l’uscita del volume, Croce intraprese infatti un’intensa attività di critico letterario sulle colonne della rivista «La Critica», da lui fondata nel 1903, e nella quale analizzò, nell’arco di una decina d’anni, gran parte della letteratura italiana contemporanea. Seguirono poi i grandi saggi su Johann Wolfgang von Goethe, su Ariosto, su Shakespeare e Dante. L’impatto della critica crociana sugli studi letterari della prima metà del secolo fu notevolissimo: molti critici si mossero, e questo per almeno tre generazioni, in una prospettiva crociana. Se ai primi studiosi influenzati dall’Estetica appartennero critici poi destinati a staccarsi dal grande albero crociano, come Giuseppe Antonio Borgese e Alfredo Gargiulo, successivamente si rifecero al magistero di Croce critici come Francesco Flora, Luigi Russo, Mario Fubini, e in seguito studiosi che subivano, in parallelo, l’influsso della critica marxista (Natalino Sapegno, Carlo Salinari, Carlo Muscetta) o che già si aprivano alle nuove metodologie (Gianfranco Contini). Meno prevedibilmente, il magistero crociano fu influente anche in ambiti artistici nei quali non si poteva ricondurlo a una pratica critica diretta, per es. nella storia dell’arte (con Roberto Longhi, Lionello Venturi, Carlo Ludovico Ragghianti), e anche nella critica musicale (Massimo Mila, Giorgio Graziosi) o nella linguistica (Giulio Bertoni, Antonio Pagliaro, Tullio De Mauro), ambiti dei quali Croce non aveva pratica diretta. Non tutto nella prassi critica crociana è riconducibile alla Estetica, come del resto è inevitabile che accada nel caso delle estetiche teoriche; e questo vale, a maggior ragione, per i critici letterari o artistici che si dissero crociani; ma, indubbiamente, il caso di un’estetica che abbia così profondamente inciso nel concreto esercizio della critica è quasi senza esempio nella storia.
Moltissimi critici trovarono nell’estetica crociana un retroterra al quale fare riferimento, e nel modo crociano di fare critica un esempio e un modello da seguire, talora discostandosene sulla base della propria sensibilità e delle proprie particolari esigenze, senza però giungere mai, o quasi mai, a mettere in discussione l’impianto filosofico che gli forniva alimento. Pochissimi furono invece gli autori che svilupparono, nell’orizzonte crociano, un proprio discorso teorico, e anche quei pochi furono piuttosto interpreti e divulgatori che continuatori, se continuare il pensiero di un filosofo significa discuterlo, e non semplicemente ripeterlo. L’estetica di Croce ebbe numerosissimi adepti e applicatori, e numerosi avversari; prosecutori, pochi o nessuno. Fu, in fondo, lo stesso Croce a scoraggiare sviluppi in tal senso, sia perché, con la sua continua attività di approfondimento e schiarimento, rendeva difficile e superfluo che qualcuno gli si affiancasse su quel terreno, sia perché fu sempre il primo a consigliare agli amici e agli studiosi più giovani a lui vicini di volgersi a concreti lavori di critica e di storiografia.
Per i primi trent’anni del secolo, l’Estetica di Croce fu l’estetica per antonomasia, in Italia, e i tentativi di opporle altre costruzioni teoriche furono velleità destinate a rapido naufragio. Con gli anni Trenta del Novecento le cose cominciarono a mutare, in parte per la formulazione dell’estetica gentiliana (La filosofia dell’arte è del 1931), in parte perché cominciarono a prendere forma estetiche filosofiche che avevano un retroterra molto diverso da quello idealistico (Il mondo sensibile di Adelchi Baratono è del 1934, Autonomia ed eteronomia dell’arte di Luciano Anceschi del 1936). Tuttavia, ancora nel secondo dopoguerra, l’estetica crociana restava un punto di riferimento imprescindibile anche per chi cercava strade nuove da percorrere. Tutte le estetiche degli anni Cinquanta, in Italia, hanno come termine di confronto l’estetica crociana, con la quale spesso polemizzano direttamente: da Luigi Pareyson a Cesare Brandi, da Antonio Banfi a Gillo Dorfles, tutti sentono ancora il bisogno di ‘fare i conti’ con Croce. La situazione si modifica rapidamente a partire dagli anni Sessanta, perché la diffusione dello strutturalismo, del formalismo, della linguistica saussuriana per quel che riguarda la critica letteraria, dell’iconologia per quel che riguarda la critica artistica, provocarono rapidamente il distacco dall’estetica crociana e una sua profonda rimozione. Il testo del 1902 ne fece le spese forse ancor più di altri testi successivi, proprio per la sua radicalità che, a torto o a ragione, poteva apparire attenuata in altre esposizioni della dottrina estetica. Da allora, l’interesse per l’Estetica è stato, nel nostro Paese, piuttosto limitato, laddove all’estero, come dimostrano le numerose traduzioni comparse anche negli ultimi decenni, e i frequenti riferimenti a Croce da parte degli studiosi anglosassoni, il volume che apre la Filosofia dello spirito continua a suscitare attenzione.
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