essere
L’uso del termine essere, come sostantivazione del verbo εἶναι (τὸ ὄν; τὸ εἶναι), è presente nel poema di Parmenide indicato come Sulla natura (περὶ φύσηως). Per quanto si possa sostenere che egli si riferisca piuttosto all’‘ente’ (τὸ ἐόν «ciò che è»), il processo che condusse Parmenide dalla sfera delle affermazioni-negazioni particolari, in cui ogni ‘è’ si accompagna a un ‘non è’, all’asserzione dell’unico ‘ente’, è quello stesso che più tardi, mediante l’astrazione da ogni contenuto determinato del pensiero, portò all’idea generalissima dell’essere. In Parmenide l’e. è definito in modo univoco come ‘e. vero’, assoluto, esplicandone gli attributi: ingenerato, imperituro, eterno, immutabile, immobile, unico, omogeneo, finito (framm. 8 Diels-Kranz); la finitezza comporta che esso sia concepito come sferiforme (lo ‘Sfero’). Melisso, discepolo di Parmenide, concepisce invece l’e. come ‘infinito’, ossia privo delle determinazioni proprie dei corpi, e dunque ingenerabile, incorruttibile, immutabile, unico, incorporeo. Alla luce di tali concezioni dell’e. diventa impossibile rendere ragione dei fenomeni e delle esperienze che implicano movimento e molteplicità, ossia il ‘non e.’, come evidenziano i ‘paradossi’ enunciati da un altro esponente dell’eleatismo, Zenone, a sostegno delle tesi parmenidee. Nonostante la confutazione di Zenone, l’opposizione fra e. e non e. è problematizzata da Platone nel Parmenide (➔) e risolta poi nel Sofista (➔) con il ‘parricidio’ nei confronti di Parmenide e dell’eleatismo (Sofista, 241 d-242 a). Secondo Platone il discorso sull’e. non può essere affrontato mediante la contrapposizione di e. e non e. (o anche di ‘uno’ e ‘molteplice’) come intesi dagli eleati; ciò implicherebbe infatti che non si dà il ‘diverso’. Tuttavia, rileva Platone, ogni idea ‘è’ sé stessa e ‘non è’ le altre, ma questo ‘non e.’ le altre non comporta che essa sia ‘non essere’. I ‘generi sommi’ delle idee sono dunque: l’identico, l’e. e il diverso; cui si aggiungono la quiete e il moto, in quanto la relazione che sussiste fra le idee (l’alterità) le fa ‘muovere’ l’una verso le altre. In tal senso Platone, per risolvere l’aporia fra e. e non e., definisce l’e. in senso più ampio e generale come «possibile» o «possibilità» (δύναμις): «tutto ciò che per sua natura possiede una possibilità qualsiasi sia di fare (ποιεῖν) una cosa qualunque sia di subire (πάσχειν) un’azione, anche la più piccola da parte dell’agente più irrilevante, anche se soltanto per una volta, tutto ciò è realmente. Stabilisco infatti questa definizione: gli enti non sono altro che possibilità» (Sofista, 247 d-e). Ai temi affrontati nel Sofista si riferisce Aristotele nella Metafisica (XIV, 2, 1089 a) quando parla di coloro che «con criteri arcaici» (1089 a 2) hanno confutato la tesi di Parmenide secondo la quale «mai si potrà provare che sia quel che non è» (1089 a 4-5). Essi sono stati condotti a trattare l’e. in contrapposizione al non e., e, per rendere conto del molteplice, hanno proceduto dall’e. «e da qualche altra cosa» (il diverso). Tale impostazione va rifiutata in quanto la molteplicità non è contrapposta, ma già inscritta nell’essere. L’e. infatti «possiede molti sensi» (cui corrispondono altrettanti sensi di non e.) in quanto sostanza, qualità, quantità, ossia in base alle ‘categorie’ secondo le quali può essere predicato (1089 a 7-14), come anche secondo la potenza e l’atto o secondo il falso, i quali, a loro volta, non possono essere ricondotti al non e. (1089 a 15-31): «dal momento che il termine ‘essere’ si usa secondo molte accezioni (in un senso, infatti, esso sta a indicare la sostanza, in un altro la qualità, in un altro la quantità, e così di seguito anche le altre categorie), quale potrà essere l’unità costituita da tutte le cose esistenti, se non si ammette l’esistenza del non essere?» (1089 a 7-14); «i termini ‘essere’ e ‘non essere’ sono usati sia in riferimento alle varie determinazioni delle categorie, sia in riferimento alla potenza e all’atto, o anche ai contrari di questi ultimi, sia in riferimento a ciò che è vero o falso nel senso più proprio di questi due termini» (IX, 1051 a 34-b 1). La molteplicità dell’e. deve però essere articolata all’interno della metafisica che, in quanto scienza dell’e., è in primo luogo scienza della sostanza (οὐσία). La categoria di sostanza comporta le ulteriori determinazioni categoriali, e non può ridursi a una di esse, in quanto tali categorie attengono (e ineriscono) appunto a quella. Posta dunque, rispetto all’e. e alle categorie, la priorità della sostanza, l’e. permane non di meno intrinsecamente ‘molteplice’. L’e. «si dice in molti modi» («πολλαχῶς λέγεται τὸ ὄν»; cfr. VI, 2, 1026 a 32-b 2; V, 7, 1017 a 9; XIV, 2, 1089 a 26-28) e, in tal senso, ‘è’ in molti modi; il problema eleatico della contrapposizione tra e. e tutto ciò che implica diversità inteso univocamente come non e. è in tal modo superato. Il tema della priorità della sostanza rispetto alle altre categorie, e dunque rispetto alla ‘molteplicità’ dell’e. comporta tuttavia considerazioni rispetto all’e. in quanto «essere per essenza» o «per sé» (καϑ᾿ αὑτό) e in quanto «essere per accidente» (V, 7, 1017 a 9): l’esser ‘musico’ o ‘bianco’ costituisce, in un uomo concreto, il suo e. accidentale, mentre nello stesso soggetto, l’esser ‘uomo’ costituisce l’ e. ‘per sé’. Nel libro VII della Metafisica (4, 1030 a 23-25), e. ‘per sé’ sono dette «tutte le accezioni che sono indicate dalle categorie (giacché il termine essere ha tante accezioni quante sono quelle delle categorie)»; tuttavia tale inerenza dell’ e. estesa a tutte le categorie viene ulteriormente precisata, alla luce di quanto è scritto poche righe prima, (1030 a 21-23), in base alla differenziazione fra e. primario ed e. secondario (o derivato), distinti allo stesso modo in cui lo sono le sostanze primarie (o prime), e le sostanze secondarie (o derivate): «come il termine è appartiene a tutte le cose, ma non nello stesso grado, bensì a una cosa in modo primario e alle altre in modo secondario, così anche l’essenza appartiene in senso assoluto alla sostanza e solo in certo modo anche alle altre cose». L’e. inerisce dunque primariamente alla sostanza (benché il concetto di sostanza non coincida con quello di per sé; 1029 b 16-18), la cui priorità è a sua volta data dal fatto che solo di essa vi sia definizione (➔) in senso vero e proprio, ossia essenza (➔): «significare la sostanza di una data cosa vale come dire che l’essenza di tale cosa è appunto quella e non altro» (1007 a 27).
Il contesto delle problematiche legate all’e., di cui si sono tracciate soltanto alcune linee, è centrale nella riflessione logica, metafisica e teologica della tarda antichità e del Medioevo. Basti riferirsi ai passi iniziali del paragrafo sulla sostanza che apre la trattazione delle categorie nel fondamentale testo dell’Organon, ove la cultura europea latina ha per secoli appreso a ‘pensare’ come l’e. si dicesse in molti modi: «‘Sostanza’ nel sen- so più proprio, in primo luogo e nella più grande misura, è quella che non si dice di un qualche sostrato, né è in qualche sostrato, ad esempio, un determinato uomo, o un determinato cavallo. D’altro canto, sostanze seconde si dicono le specie, cui sono immanenti le sostanze che si dicono prime, ed oltre alle specie, i generi di queste» (Categorie, 5, 2 a 12-15). Nelle concezioni stoiche il trattamento proposizionale ipotetico svincola la logica dal riferimento all’e. in termini di inerenza, e una trattazione metafisica del problema dell’e. nei termini fin qui analizzati è assente, poiché la realtà si risolve in una materia vivificata da uno pneuma che, come anima del mondo, ne regola i processi e l’esistere. Nello scetticismo di Pirrone, invece, la filosofia smette di occuparsi del problema dell’e. volgendosi a ciò che appare, all’apparenza (➔). È nella successiva ripresa del platonismo che il tema dell’e. torna a divenire centrale. Per Plotino l’e. costituisce la seconda delle ipostasi dell’Uno, il Nous, che coincide con il pensiero, e il cui digradare si realizza in livelli sempre più bassi di e. partecipato (ipostasi o sussistenze), modificando e potenziando il modello gerarchico dell’e. derivato. L’Uno è posto al di sopra dell’e. e non può essere attinto per via di pensiero, ma mediante procedimenti di superamento della ragione e di estasi. Una sistematizzazione dei processi di derivazione dell’e. a partire dall’Uno, sopraessenziale, mediante schemi triadici sarà realizzata nella Teologia platonica e negli Elementi di teologia di Proclo. Di grande rilievo per il pensiero cristiano è l’opera teologica di Filone di Alessandria in cui si compie l’identificazione fra l’e. e il Dio creatore del Genesi che in Esodo 3, 14 si rivela come essere. Tali temi sono presenti in Agostino e in Boezio, per il quale Dio è l’ipsum esse (l’e. stesso) radicalmente distinto dall’e. delle creature, che è partecipato: l’ente, id quod est, esiste in quanto partecipa dell’e., esse, divino. La riflessione logica sull’e. durante il Medioevo si articola fra opzioni in diverso grado realiste o nominaliste, come nella tesi occamista della suppositio, in cui, perduta ogni inerenza essenziale, il rapporto fra il significato e la cosa, ossia l’e. o l’essenza di questa, è un supponere pro, uno ‘stare per’ che rende possibile una teoria del significato e una logica scevra da implicazioni realiste (➔ essenza). Di diverso tenore sono le opzioni poste in campo nel dibattito propriamente metafisico, ove la cospicua riflessione sviluppata intorno all’e. trova una scansione fondamentale nell’opera di Tommaso d’Aquino. Il concetto dell’e. è riferito innanzitutto a Dio come ipsum esse o «totalità dell’e.»; e da Dio, e. semplicissimo come puro atto di esistere, sono distinte le creature, in cui v’è distinzione, e composizione, di essenza (e. come potenza) ed esistenza (e. come atto). Quindi per le creature si pone il duplice problema: dell’essenza, con la domanda «che cosa è?», e dell’esistenza, con la domanda «è, attualmente, o non è?», in riferimento al fatto contingente dell’essere la creatura realizzata a opera di un principio o causa trascendente; diversamente da Dio, che è ed esiste per autorealizzazione, coincidendo in lui essenza ed esistenza. In tal modo l’e. non ha lo stesso significato nel creatore e nelle creature: l’e. di queste è una partecipazione a quello divino, una tesi che Tommaso supera con la teoria dell’analogia dell’essere. L’ e. della creatura è ‘analogo’ all’e. divino in quanto né coincide univocamente con quello, né però né costituisce una digradazione partecipata. Nel De ente et essentia Tommaso distingue l’e. a partire dal fatto che «l’ente per sé si dice in due modi», uno relativo ai dieci generi (categorie) e che riguarda l’essenza, l’altro relativo alla costituzione delle proposizioni (ovvero come ‘predicato’, cfr. Summa theologiae, I, q. 3, a. 4); l’ente va inteso nel primo modo, ossia rispetto all’essenza (cap. 1). L’e. nelle creature è distinto dall’essenza; esso ne costituisce l’atto, l’essenza ne è invece la ‘potenza’ (cap. 4). E. ed essenza coincidono in Dio (cfr. Summa theologiae, I, q. 3, a. 4, concl., ove esse sono ‘indistinte’), in quanto l’essenza di Dio è l’essere puro. Diversamente dall’e. universale o comune, oggetto della metafisica, che per definizione può essere determinabile, l’e. puro non è determinato da nessuna forma e non è determinabile (De ente et essentia, cap. 5; cfr. Summa theologiae, loc. cit.).
Il Rinascimento potenzia, dopo la fase scolastica, il recupero di temi platonici legati alla speculazione sull’e. cercando di inserirli entro un ambito cristiano, mediante una sorta di spostamento del punto di messa a fuoco, ossia una ricalibrazione dei problemi alla luce delle esigenze e dei criteri di accettabilità posti dal canone religioso, come avviene nella sintesi attuata da Giovanni Pico della Mirandola nell’Heptaplus (1489) o nella Theologia platonica (➔) (1469-74) di Ficino, ove viene proposto uno schema gradualistico dell’e. nell’ordinamento di un cosmo in cui si rispecchia una ontologia che sintetizza moduli tomisti e neoplatonici (di stampo plotiniano, procliano e anche ermetico). Nel- la modernità la questione dell’e. viene rifiutata da indirizzi dichiaratamente antimetafisici (come l’empirismo di Bacone, Hobbes, Gassendi, Locke, Hume) o da un riavviamento delle prospettive metafisiche quale si ha nel pensiero cartesiano, ove il problema dell’e. non si pone più nel senso dell’ontologia tradizionale. Questo nonostante il corpus cartesiano attesti la permanenza di talune nozioni tradizionali, quali la distinzione fra esse formale (e. formale, o per così dire sostanziale, che si riferisce all’esistenza in sé di una cosa al di là del suo essere pensata da qualcuno) ed esse obiectivum (l’essere oggettivamente pensiero del soggetto cogitante). Tale distinzione è enunciata da Descartes rispondendo alle obiezioni circa la sua dottrina delle idee enunciata in relazione alla dimostrazione dell’esistenza di Dio. Se in età cartesiana il concetto di e. assume particolare rilievo nella filosofia di Spinoza, ove e. indica l’e. di Dio (e insieme delle cose) nella sua necessità, incline a un recupero di taluni aspetti della dottrina dell’e. precartesiana è Leibniz, il cui pensiero conosce un’ampia fortuna durante il sec. 18°, nella versione sistematizzata da Wolff, e, in merito alla questione dell’e., nella Metafisica (1719, versione tedesca; 1730 versione latina) e nella Philosophia prima sive ontologia (1730). Le tesi di Leibniz si trovano espresse con chiaro richiamo alle posizioni tradizionali nel Discorso di metafisica (composto nel 1686). La sostanza – individuale – vi è definita mediante le ‘azioni’ e «poiché le azioni e le passioni appartengono propriamente alle sostanze individuali (actiones sunt suppositorum) [cfr. Summa theologiae, II, 2, q. 58, art. 2 c.], sarebbe necessario spiegare che cos’è una tale sostanza». Nel definire appunto la sostanza, ciò che se ne predica deve, secondo Leibniz, avere fondamento nella ‘natura’ delle cose, ossia il predicato vi deve essere «compreso virtualmente». Per spiegare quel che intende dire, Leibniz espone una teoria dell’inerenza: «si tratta di quel che i filosofi chiamano in-esse, dicendo che il predicato è nel soggetto». In tale contesto la nozione, o definizione, si riconnette con l’essenza ‘reale’ e con l’e.: «la natura di una sostanza individuale o di un e. completo è di possedere una nozione così compiuta, che sia sufficiente a comprendere e a farne dedurre tutti i predicati del soggetto al quale tale nozione è attribuita» (Discorso di metafisica, 8). È in riferimento sia alle teorie wolffiane sia alla ripresa di temi propri dell’ontologia tradizionale che Kant nella Critica della ragion pura (➔) (1781; 2ª ed. 1787) rifiuta decisamente, e in un modo che sarà inaugurale per la logica e la filosofia successive, l’identificazione o la connessione fra e. ed esistenza. Il problema dell’e. non trova collocazione nell’Analitica trascendentale e nell’unità sintetica di appercezione trascendentale, mentre viene tematizzato nella Dialettica trascendentale (II, cap. 3, sez. 4), ove si stabilisce che l’esistere non può essere un ‘predicato reale’, essendo l’esistenza non predicato, ma posizione (Position). È questo il luogo della celebre confutazione kantiana dell’argomento di Anselmo, definito da Kant «ontologico». Dalla definizione di Dio non può derivare la sua esistenza, in quanto essa non è un predicato. Seppure si tenti di aggiungere alla definizione di Dio come ‘E.’ la predicazione di «realissimo», non se ne guadagna niente poiché la parola ‘realtà’, pur nella sua pretesa a valere come ‘esistenza’, non è comunque ‘posizione’ ma predicato, definizione. Il giudizio sull’esistenza deve essere sintetico, ma mediante la via della definizione si approda unicamente a tautologie: «Essere, manifestamente, non è un predicato reale, cioè un concetto di qualche cosa. Essere è semplicemente la posizione di una cosa o di certe determinazioni in sé stesse». Soltanto in senso empirico e. equivale a esistenza, ossia quando esso è attinto mediante i sensi. In Hegel il concetto di e. subisce una trasformazione profonda. Momento dialettico del pensiero ossia della realtà stessa, l’e. rappresenta con il ‘nulla’ la coppia antitetica fondamentale da cui trae il suo sviluppo il divenire. Il divenire è appunto sintesi dialettica a partire dall’e., ma questo è un concetto vuoto e indeterminato (in quanto ciò che noi conosciamo è sempre una realtà determinata), che si contrappone necessariamente alla sua negazione, che è il nulla. L’e. pensato nella sua intera astrattezza, ossia come concetto di estensione massima e comprensione minima, è, secondo la celebre definizione hegeliana, «il più vuoto e povero di tutti i concetti»; vale a dire che esso, nella sua astrazione, si connota come «l’assolutamente negativo», «il nulla» (Enciclopedia delle scienze filosofiche, 1817,I, § 87). L’e. è di per sé «immediatezza» (§ 83), ma tale immediatezza negando sé stessa si riferisce al tempo stesso a sé stessa mediandosi (§ 111) e in tal modo trapassa nell’essenza, lungo uno sviluppo dialettico che la conduce al concetto e al conoscere assoluto. Nelle Lezioni sulla filosofia della religione l’e. è definito come «nient’altro che l’ineffabile, il privo di concetto; non è il concreto, che è il concetto». Il ritorno dell’e. in Hegel si connota dunque come una sua svalutazione in favore del concetto che, solo, ne rappresenta il concretizzarsi, e che si sviluppa mediante il processo dialettico come ‘spirito’ e come pensiero speculativo.
Nell’ontologismo di Gioberti, la possibilità di una conoscenza diretta di Dio da parte dell’uomo, mediante un’intuizione ‘abbacinante’ di cui il linguaggio può costituire una trasposizione solo parziale, è tematizzata come un’intuizione dell’essere. E. che coincide con Dio stesso e che è il fondamento di ogni altra conoscenza. Per Rosmi- ni l’e. è invece presente nella mente dell’uomo al modo delle idee innate di Agostino. L’e. ideale, generale e astratto (ma in senso tradizionale, non hegeliano) costituisce il lume della ragione; è e. ‘possibile’ che diventa e. ‘abituale’, ossia è presente in ogni altra idea e si impone con evidenza allorché vi si presti attenzione. L’idea dell’e. è l’elemento formale della conoscenza che si unisce agli elementi materiali derivati dall’esperienza dei sensi (che è sempre individuale) originando una ‘sintesi a priori’. Dall’idea dell’e. proviene, secondo Rosmini, non soltanto l’esplicarsi dell’attività conoscitiva, ma anche la garanzia del realismo gnoseologico che si contrappone alle critiche scettiche nei confronti della metafisica. La priorità del problema dell’e. sul problema del conoscere è affermata anche da N. Hartmann, per il quale la metafisica, a differenza di quella classica, deve riconoscere l’irriducibile insolubilità e, insieme, l’inevitabilità dei problemi fondamentali. Mentre negli indirizzi posthegeliani e idealistici l’interesse per le questioni legate all’e. permane sostanzialmente nei termini in cui esse sono poste da Hegel stesso, la riflessione sull’e. perde d’importanza nella prevalente linea antimetafisica che si afferma nel positivismo, nella logica (si pensi a Mill), come anche in discipline più speciali- stiche quali la filosofia del linguaggio, la logica matematica (Frege) o anche la psicologia e la psicologia sociale. Negli ultimi due decenni del sec. 19° e nel sec. 20°, con l’affermazione parallela della neoscolastica e del neohegelismo, il concetto dell’e. torna al centro del dibattito filosofico, soprattutto in Italia, con Croce e Gentile, il quale riconduce il divenire dialettico al cogito cartesiano, a sua volta rielaborato come atto creatore dell’essere. Gli indirizzi neokantiani (Cassirer) e l’empirismo logico si caratterizzano per il rifiuto del problema dell’e. relegato alla preistoria del pensiero. È nella fenomenologia che il problema dell’e. torna a porsi, come problema dell’‘e. della coscienza’, riproponendo, entro tale orizzonte, anche la connessione, o inerenza, fra essenza ed esistenza, ma è con Heidegger, in Essere e tempo (➔) (1927), che il discorso sull’e. viene riproposto come progetto di una nuova ontologia. L’uomo è un «ente» il cui «modo di essere» è «l’esser-ci» (Da-sein), ossia la cui «peculiarità ontica […] sta nel suo esser-ontologico» (I, 4). L’uomo ponendo a sé stesso questioni, interroga l’e. conferendogli quel senso che si manifesta nell’esistenza: «L’essenza dell’esserci consiste nella sua esistenza» (I, 9). Il compito dell’analisi di tale esserci (‘l’analitica dell’esserci’) è allora quello di stabilire un’«ontologia fondamentale». Rispetto ai «modi di essere», l’esserci si determina come «essere-nel-mondo» (In-der Welt-sein), da cui conseguono le questioni relative al «mondo-ambiente» (inteso come insieme dei contesti pragmatici), all’ente (inteso come un «chi?»), all’«in-essere» o «inessenza», che è un «esser-presente in una cosa presente», un «essere situato» in senso esistenziale. Nella seconda fase della sua meditazione Heidegger ha modificato sensibilmente l’impianto concettuale di Essere e tempo: l’ «analitica dell’esistenza» ha lasciato emergere in primo piano il problema dell’Essere; l’uomo non è più la «sentinella del Nulla», ma il «pastore dell’essere»; la metafisica viene concepita come «oblio dell’essere», e come attenzione rivolta unicamente agli enti. Entro tale linea di sviluppo fenomenologico-esistenziale si situa la riflessione sull’e. elaborata da Sartre in L’essere e il nulla (➔) (1943), in cui si propone una «ontologia fenomenologica» che superi questioni rimaste aperte nella fenomenologia di Husserl, nell’ontologia di Heidegger e nella «concezione dialettica del nulla» di Hegel, che viene significativamente recuperata e modificata. La coscienza «è causa del proprio modo d’essere» ed è, al tempo stesso, «coscienza di essere» e coscienza di «non essere ciò di cui è coscienza». Vengono a porsi, in tal modo, due diversi «tipi» o «zone di essere»: l’‘essere-in-sé’ (être-en-soi), ossia l’e. dei fenomeni, che «non può mai essere altro che ciò che è»; l’‘essere-per-sé’ (être-pour-soi), ossia l’e. della coscienza, che si «crea» costantemente e «non può coincidere con sé». L’e. per sé, antitetico all’e. in sé, in quanto lo nega, delimitandolo e circoscrivendolo continuamente, si configura come non e. e ciò avvia la riflessione ontologica sul nulla; l’essere-per-sé della coscienza è infatti negazione (négatité) mediante la quale essa genera il «nulla» (néantisation) dentro e intorno a sé, e tale nulla ha consistenza ontologica. In tale prospettiva: «l’uomo si presenta […] come un essere che fa apparire il nulla nel mondo, in quanto si investe del non essere a questo scopo» (I, 5). Nella ricerca fenomenologica ed ermeneutica contemporanea il problema dell’e. è variamente tematizzato a partire dalle prospettive fenomenologiche ed ermeneutiche. Lévinas in Autrement qu’être (1974; trad. it. Altrimenti che essere), polemizzando con le tesi heideggeriane, incentra la propria riflessione verso un recupero delle prospettive della morale kantiana entro il contesto della riflessione sull’intersoggettività avviata dalle tesi di Husserl sulla ‘comunità intermonadica’. Secondo Lévinas l’ontologia prospettata in Essere e tempo deve essere subordinata a un’etica intesa come responsabilità nei confronti dell’altro. Nell’ermeneutica di Gadamer la centralità del rapporto fra e. e linguaggio ricalibra la riflessione ontologica (la cui matrice va identificata nel cosiddetto ultimo Heidegger) sui caratteri linguistici dell’essere. La celebre tesi contenuta in Verità e metodo (➔) (1960), «L’essere che può venir compreso è il linguaggio» determina un coincidere dell’e. con il linguaggio, inteso non come un dissolversi della filosofia dell’e. nella filosofia del linguaggio, ma come un emergere dell’e. attraverso il linguaggio, che è il suo coincidere con quello.