SPAZIO, Esplorazione dello
L'esplorazione dello s. ha avuto inizio nel 1957 con il lancio del satellite sovietico Sputnik (v. satellite artificiale, App. III, 11, p. 670). Da allora, attraverso un incessante progresso si è giunti a inviare strumenti fabbricati dall'uomo (e l'uomo stesso) sulla Luna, poi su alcuni pianeti (Marte, Venere), mentre per altri (Giove) l'esplorazione diretta è prevista per gli anni Ottanta; peraltro alcune sonde hanno già sorvolato il pianeta Giove ottenendo alcune precise informazioni. Ci limitiamo qui a descrivere i principali risultati ottenuti, e i programmi futuri in relazione all'esplorazione dei pianeti del sistema solare.
Spazio interplanetare. - L'esplorazione dello s. viene condotta per mezzo di sonde spaziali, dotate ovviamente di sistemi strutturali, propulsivi, di controllo, e di strumentazione scientifica (payload). Tale strumentazione è di solito divisa in due sottosistemi: uno per le misure relative al pianeta obiettivo, l'altro relativo allo s. che lo separa dalla Terra. Tale secondo gruppo d'informazione è quindi di carattere assai generale. Descriviamo qui di seguito alcuni dei principali esperimenti eseguiti a bordo delle sonde Pioneer 10 e Pioneer 11 lanciate verso Giove.
Campi magnetici. - I campi magnetici interplanetari regolano e controllano il flusso di plasma nascente dal Sole. Il problema scientifico più importante consiste nella determinazione dell'effettiva influenza del campo magnetico del Sole sul plasma al di fuori dell'orbita di Marte. I risultati del Pioneer 10 e 11 non hanno ancora fornito risposte soddisfacenti al quesito.
Per l'esperimento si usano magnetometri assai sensibili che coprono diverse gamme d'intensità di campo magnetico, da 10-7 a 1,4 oersted (ricordiamo che il campo magnetico terrestre alla superficie è di circa 0,5 oersted). È necessario assicurarsi che il campo magnetico proprio del veicolo spaziale sia praticamente nullo e, in ogni caso, il magnetometro sia a sufficiente distanza dal centro del veicolo.
Vento solare ed eliosfera. - Le particelle altamente ionizzate, elettricamente cariche, che vengono continuamente emesse dal Sole, dànno luogo al cosiddetto "vento solare" (v. spaziale, fisica, in questa App.), sconosciuto fino all'inizio dell'era spaziale. La conoscenza delle caratteristiche del vento solare è di grande importanza a causa dell'effetto che esso ha sulle comunicazioni elettriche sulla Terra; esso può inoltre dar luogo a cicli meteorologici a lungo termine. Le misure ricavate fino al 1975 si riferivano esclusivamente a distanze dal Sole non superiori all'orbita di Marte.
Lo strumento di misura è un analizzatore di plasma, che conta le particelle (ioni ed elettroni) entranti in un'apposita apertura, ne individua e ne registra l'energia (in eV) e la direzione. I risultati finora ottenuti hanno mostrato: a) che la velocità del vento solare dipende dalla temperatura della corona solare; b) che, a causa delle macchie solari, si producono correnti di vento a velocità diverse che, interferendo tra di loro, provocano superfici di discontinuità che impediscono ad altre particelle (raggi cosmici) di penetrare nel sistema solare (fig.1). Le misure del Pioneer Io hanno mostrato che l'intensità dei raggi cosmici a grande distanza dal Sole è circa cinque volte minore di quella prevista dalle teorie fino ad allora elaborate.
Composizioni delle particelle cariche. - Gli esperimenti tentano di rilevare gli elementi chimici H, He, Li, Be, B, C, N e separare H, deuterio, 3He e 4He, allo scopo di riconoscere le particelle provenienti dal Sole rispetto a quelle provenienti dalla Galassia. I risultati finora ottenuti hanno mostrato che, fino a circa 350 milioni di km dal Sole, l'intensità del campo magnetico interplanetario, il flusso di particelle ad alta energia provenienti dal Sole, la densità del vento solare decrescono circa come il quadrato della distanza dal Sole, come appunto ci si aspetta, vamentre l'intensità dei raggi cosmici, come si è già detto, non aumenta.
Meteroidi e asteroidi. - I primi risultati sulle sonde spaziali sovietiche e americane lanciate verso Marte avevano fatto ritenere che esistesse una concentrazione di asteroidi o una nube di polvere all'interno dell'orbita di Marte, che avrebbe potuto rappresentare un pericolo per le astronavi del futuro. I successivi risultati ottenuti con le sonde Pioneer hanno mostrato che questa preoccupazione è infondata. Anche la corona degli asteroidi (dell'ampiezza di circa 170 milioni di km), che è ben nota, tra Marte e Giove, non sembra rappresentare un vero pericolo, che deriverebbe, tra l'altro, più dalle particelle estremamente piccole, che da quelle grandi, a causa del loro numero assai elevato e della loro elevatissima velocità.
I seguenti dati si riferiscono al Pioneer 10: prima di entrare nella corona degli asteroidi, il rivelatore di particelle meteoriche del veicolo aveva registrato 41 impatti; all'uscita dalla corona degli asteroidi, solo altri 42 impatti furono registrati. Tali risultati furono poi confermati dal Pioneer 11. Quindi il pericolo suddetto sembra non sussistere.
Dove invece sembra che esista una concentrazione più elevata (fino a 100 volte maggiore) è nelle vicinanze di Giove, che con la sua enorme massa attira un gran numero di particelle dallo s. interplanetario, senza riuscire a formare anelli del tipo di quelli di Saturno. Tale concentrazione di particelle potrebbe essere un notevole pericolo per i veicoli spaziali destinati a orbitare intorno a Giove.
Il rivelatore per le particelle di materia interplanetaria è costituito da un certo numero di pannelli (13 sul Pioneer) ciascuno contenente, a sua volta, un certo numero di cellule (18 sul Pioneer) contenenti gas inerti (argo e azoto). Quando una cellula viene forata da una particella, perde gas (e, quindi, pressione) con una velocità dipendente dal diametro del foro.
Fotometro ultravioletto. - Dalla misura della dispersione della luce ultravioletta del Sole nello s. è possibile risalire alla quantità d'idrogeno neutro (cioè non ionizzato né carico) in cui il sistema solare sembra immerso. La presenza di tale idrogeno (già rilevata vicino alla Terra) potrebbe essere il risultato della neutralizzazione del vento solare "veloce" ai limiti dell'eliosfera, della conversione in atomi d'idrogeno, e della loro ridiffusione nell'eliosfera. Oppure l'idrogeno potrebbe provenire dalla Galassia stessa, penetrando nel sistema solare, a causa della velocità (73.000 km/h) del sistema stesso.
Finalmente gli esperimenti potrebbero risolvere il problema dell'origine dell'idrogeno neutro e stabilire i limiti dell'eliosfera. Dalle misure dell'elio interplanetario si può forse risalire alla percentuale di questo gas nello s. interstellare; e prevedibilmente in futuro confermare o distruggere la teoria del big bang per l'origine dell'Universo, che postula il 7% di He nel gas interstellare.
Esplorazione diretta dei pianeti. - La ricerca delle condizioni fisiche, chimiche e geologiche dei vari pianeti (v. in questa App.) può essere fatta solo mediante l'esplorazione diretta. A sua volta, tale esplorazione diretta può aversi circumnavigando il pianeta stesso (tecniche di flyby), o effettuando un ingresso nell'atmosfera planetaria e posando la sonda sulla superficie del pianeta. Infine, come già è stato fatto in varie occasioni precedenti, si possono combinare le due tecniche, suddividendo il veicolo spaziale in due parti: il lander (da land), terra, destinato a posarsi sulla superficie trasmettendo le registrazioni delle misure effettuate, e l'orbiter, modulo destinato a rimanere in orbita intorno al pianeta che si sta esplorando, con lo scopo di prendere fotografie dall'alto (tecniche di remote sensing, v. satellite artificiale, in questa App.), da combinare con i dati del lander.
Le principali informazioni scientifiche che è possibile ottenere mediante le suddette tecniche sono le seguenti.
a) Misurazione della densità atmosferica (quando sia presente) e della sua variazione con la quota. Per tale grandezza si è assunta una legge del tipo ρ = ρ0 exp (− z/H), dove ρ0 è la densità al suolo, z è la quota, e H la scala delle altezze. In generale anche la grandezza H varia con la quota e dalla sua variazione dH/dz è possibile dedurre informazioni circa la composizione dell'atmosfera del pianeta.
b) Misurazioni della magnetosfera e del campo magnetico del pianeta. Allo stato attuale delle conoscenze sembra che solo Giove, oltre alla Terra, possieda un campo magnetico proprio, peraltro di valore assai elevato.
c) Determinazione qualitativa delle caratteristiche della superficie planetaria mediante le suddette tecniche di remote sensing, già collaudate e messe a punto con sufficiente sicurezza nelle osservazioni terrestri. Ulteriori informazioni deducibili sono:
d) posizione e composizione chimica degli strati di nubi;
e) misura del flusso verticale di energia allo scopo di determinare il bilancio locale di energia di radiazione;
f) caratterizzazione dell'alta atmosfera;
g) rilevazione, dalle perturbazioni dell'orbita del satellite, d'informazioni sulla composizione interna del pianeta, che permettono di formulare modelli teorici della distribuzione delle masse; informazioni a loro volta da usare per lo studio della formazione cosmogonica del pianeta e dello stesso sistema solare.
Risultati ancora più diretti si possono ottenere da sonde che mediante funzionamento automatico prelevano campioni del terreno del pianeta, lo analizzano chimicamente e trasmettono a terra le informazioni relative. Questa è la tecnica già usata per Venere e Marte nei programmi Venera (URSS) e Viking (SUA). Per ciò che riguarda Giove, si sono avuti risultati preliminari con le sonde Pioneer 10 e 11, mediante le tecniche di flyby; è in programma il lancio del Mariner-Jupiter-Saturn e di una sonda di rientro (v. oltre).
Esplorazione di Venere. - Fu iniziata nel 1961 dall'Unione Sovietica (con la sonda Venera I) seguita poco dopo, nel 1962, dagli Stati Uniti (col Mariner 2, che passò però a circa 30.000 km di distanza). L'esplorazione è continuata con veicoli delle stesse serie e ha condotto alla conoscenza di alcune delle principali caratteristiche del pianeta, soprattutto per quanto riguarda l'atmosfera, che è caratterizzata da elevatissimo tenore in CO2, con temperature e pressioni al suolo molto elevate. Secondo gli scienziati sovietici, le quantità di calore immagazzinata nell'atmosfera densa e pesante sarebbe tale da non permettere una differenza apprezzabile di temperatura tra giorno e notte, per quanto ciascuno di essi duri circa due mesi terrestri. Naturalmente, i livelli di luce al suolo sono assai più bassi che sulla Terra.
Per lo studio più dettagliato dell'atmosfera di Venere è stato recentemente proposto dagli SUA e dal Giappone, ma con due progetti separati, l'impiego di una stazione aerostatica su Venere (Buoyant Venus Station, BVS), le cui caratteristiche tecnologiche dovrebbero essere le seguenti (fig. 2): a) la BVS è racchiusa in una capsula prima e durante la fase d'ingresso nell'atmosfera venusiana; b) quando la fase d'ingresso è terminata, la capsula viene abbandonata, e si apre un paracadute che riduce al massimo la velocità della BVS, che non è però ancora gonfiata; c) quando la pressione dinamica è ridotta a un valore abbastanza basso, il pallone comincia a gonfiarsi; d) finalmente la stazione "galleggia" a 58 km di quota.
L'energia è fornita da batterie Ag-Zn e da celle solari. Il peso della navicella sarà di circa 80 kg, compresi 26 kg di carico utile.
Esplorazione di Marte. - L'esplorazione di Marte è stata condotta fin dai primi degli anni Sessanta coi veicoli americani della serie Mariner e con quelli sovietici della serie Mars. L'impresa più recente e più importante sul piano tecnologico e scientifico è stata quella dei due veicoli Viking (1976).
Il Viking I, lanciato dal poligono di Cape Canaveral il 20 agosto 1975, raggiunse la superficie del pianeta il 20 luglio 1976; il Viking 2 ebbe i tempi di traiettoria spostati di circa un mese. Ciascuno dei due veicoli era composto da lander e da orbiter.
La tecnica di atterraggio dell'orbiter è abbastanza simile a quella già da tempo in uso per il ritorno dei satelliti artificiali terrestri: a) funzionamento dei retrorazzi per ridurre la velocità orbitale; b) riorientazione della capsula; c) ingresso nell'atmosfera; d) espulsione della carenatura; e) apertura del paracadute; f) azionamento dei retrorazzi finali con caduta della velocità a circa 2,4 m/sec.
La sequenza di questi eventi proviene da un programma inserito nella memoria del calcolatore di bordo. Occorre infatti tener conto che eventuali comandi dalla Terra richiederebbero circa 20 minuti (il tempo necessario alla luce per coprire la distanza media Terra-Marte).
L'orbiter effettua la sua inversione orbitale con perigeo di 4000 km e apogeo di 36.000 km, integrando, come si è detto, i dati ottenuti dal lander. Più esattamente, il lander esamina i campioni della superficie marziana e trasmette i dati all'orbiter a ogni suo passaggio sulla verticale. Tali dati vengono immagazzinati nella memoria di un calcolatore che li ritrasmette poi a terra per la durata di circa un'ora.
Il Viking 1 discese nella zona di Chryse Planitia, località diversa da quella inizialmente prevista, in quanto quest'ultima risultava, dalle osservazioni delle prime orbite (con lander e orbiter ancora uniti), troppo ricca di asperità: questo causò anche un ritardo nella data dell'atterraggio (inizialmente prevista per il 4 luglio, festa nazionale degli SUA). Il Viking 2 si posò invece nella zona di Utopia Planitia, più a nord del Viking 1.
Il programma Viking è stato realizzato dal Jet propulsion laboratory di Pasadena, con un costo di circa un miliardo di dollari.
Il principale esperimento del programma è quello relativo all'esistenza di forme di vita anche elementarissime sul pianeta. Tale esperimento si basa sul prelievo di campioni di terreno per mezzo di un braccio meccanico, e nell'analisi della loro emissione di CO2, ottenuta attraverso tre diversi processi. La questione non ha a tutt'oggi ricevuto una risposta definitiva, anche se quella negativa appare la più probabile. Più ricche invece le informazioni relative alla geofisica marziana, che sembrano confermare la presenza dell'azoto nell'atmosfera del pianeta. Sembra pure accertata la presenza di acqua nelle zone polari del pianeta. La temperatura al suolo, nella zona di Utopia Planitia, varia intorno a −35 °C, quella delle calotte polari intorno a −73 °C. È stata anche confermata l'estrema tenuità dell'atmosfera marziana (da 40 a 500 volte meno densa di quella terrestre), già accertata nelle precedenti missioni.
Esplorazione di Giove. - Giove, il più grande tra i pianeti del sistema solare, appare destinato a polarizzare l'attenzione dei ricercatori spaziali nel prossimo decennio.
Le caratteristiche del pianeta sono di massima note. La densità media è poco superiore a quella dell'acqua, il suo raggio è di circa 72.000 km, e la massa è più di 300 volte quella terrestre. La sua atmosfera appare in gran parte composta di elio e d'idrogeno, componenti classici del Sole e delle stelle; questa caratteristica potrebbe anche rivelare la presenza di composti organici, che è stata recentemente postulata. Il pianeta appare coperto da dense ed estese nubi, che potrebbero essere costituite in gran parte da ammoniaca. Nell'emisfero meridionale di Giove, esiste una lunga macchia ovale chiamata la "grande macchia rossa", la cui natura non è stata ancora chiaramente spiegata, neppure dai viaggi delle sonde Pioneer 10 e 11.
Per quanto si riferisce alla struttura interna, essa risulta assai diversa da quella terrestre e lunare (fig. 3). La temperatura media alla sommità dello strato di nubi è assai bassa (≈ − 100 °C), ma cresce assai rapidamente, e con continuità verso il centro del pianeta. Lo spessore dell'atmosfera di Giove ha avuto stime assai diverse, da 100 a 6000 km circa; l'incertezza è anche dovuta al fatto che non si può, probabilmente, parlare di una vera e propria superficie di Giove, essendo più appropriato pensare a una transizione graduale da idrogeno liquido a idrogeno gassoso. La pressione, in fondo a tale strato misto, raggiungerebbe valori milioni di volte superiori a quella dell'atmosfera terrestre al livello del suolo, causando la formazione di una speciale forma d'idrogeno solido, o "idrogeno metallico", buon conduttore dell' elettricità e del calore, al di sotto del quale esisterebbe infine un "cuore solido", la cui esistenza è assai dibattuta tra i planetologi.
Sotto molti aspetti, Giove fornisce un modello a scala ridotta dell'evoluzione dell'Universo, a causa anche della sua elevata frequenza di rotazione (i giro in 10 ore), della sua massa, e del suo elevato campo magnetico, che fa sì che il pianeta sia circondato da intense "fasce" magnetiche, del tipo di quelle di Van Allen. Infine i suoi quattro satelliti maggiori o "galileiani" (Giove ne possiederebbe un totale di quindici) costituiscono un vero e proprio sistema solare in miniatura, anche perché, come in quello più grande, la densità dei pianeti decresce con la distanza dal centro del sistema.
Il programma Pioneer Jupiter, iniziato nel 1967, ebbe la sua approvazione definitiva nel 1969. Poiché le "finestre" per il lancio su Giove a minima energia (v. navigazione spaziale, in questa App.) si hanno ogni 13 mesi, il lancio fu deciso per i giorni a cavallo tra la fine di febbraio e i primi di marzo 1972. A causa delle gravi incertezze sul futuro della sonda (impatto di meteroidi, campi magnetici che avrebbero potuto danneggiare le strumentazioni di bordo, perdita di controllo) fu necessario prevedere un secondo satellite, in tutto uguale al primo, da lanciare tredici mesi più tardi.
La traiettoria per Giove è stata realizzata senza orbita di parcheggio intorno alla Terra, ma con lancio diretto verso il pianeta alla velocità iniziale di 52.000 km/h. Nella scelta della durata del volo, e dalla data di arrivo su Giove, fu necessario tener conto della possibilità di usare, per le trasmissioni a terra e da terra, delle enormi antenne del Deep Space Network di 64 m. L'altezza di sorvolo sul pianeta fu tenuta, per ragioni di sicurezza, a valori sufficientemente elevati (non superiore a 2 raggi gioviani) per gli accennati motivi d'incertezza legati al campo magnetico e alle cinture di radiazione. Infine fu decisa una "occultazione" della sonda allo scopo di ottenere informazioni particolari sull'atmosfera planetaria. La gravità di Giove insieme col moto orbitale del pianeta avrebbe poi "fiondato" la sonda verso i pianeti esterni, secondo la tecnica detta di swingby.
La traiettoria della sonda è descritta schematicamente in fig. 4. Il lancio del Pioneer 10 avvenne la sera del 2 marzo 1972, per mezzo di un razzo Atlas-Centaur. Dopo le prime fasi di riorientazione della sonda (fatte allo scopo di puntare verso la Terra l'antenna di trasmissione e ricezione, e di fronteggiare alcuni problemi di riscaldamento), la sonda passava l'orbita lunare 11 ore dopo il lancio; dopo 97 giorni superava l'orbita di Marte non avendo ancora subìto inconvenienti degni di nota. Il 15 luglio 1972 il Pioneer 10 entrava nella zona degli asteroidi per emergerne il 1° febbraio 1973 (date, naturalmente, convenzionali), senza i gravi danneggiamenti alla struttura che, come accennato sopra, si temeva che i numerosi asteroidi avrebbero potuto provocare. Il passaggio sul punto più vicino (30.000 km) alla superficie del pianeta avvenne il 3 dicembre 1973. All'avvicinamento alcuni segnali spuri indicarono un effettivo danneggiamento della strumentazione per effetto delle fasce di radiazione del pianeta, assai più intense che sulla Terra; nonostante ciò fu possibile inviare a Terra un grandissimo numero di fotografie.
Il Pioneer 11 seguì, nelle vicinanze di Giove, una traiettoria assai diversa da quella del Pioneer 10. Lanciato nell'aprile 1973, raggiunse Giove nel periodo a cavallo tra il novembre e il dicembre 1974. Forti dell'esperienza fatta col Pioneer 10, i tecnici della NASA poterono far passare la sonda abbastanza vicina alla superficie (0,6 raggi gioviani invece dei precedenti 1,82). Inoltre il sorvolo di Giove fu fatto in direzione sud-nord, il che permise di ottenere un grande numero di fotografie vicino alle regioni polari.
Della massima importanza sono anche le fotografie dei quattro satelliti galileiani. Si conosce una sola immagine buona del satellite Io (ottenuta dal Pioneer 11), che sembra fortemente influenzato dalla cintura di radiazione di Giove, ed è l'unico a possedere una tenue atmosfera. Per gli altri tre (Europa, Ganimede, Callisto) i dati definitivi non sono ancora noti.
Di struttura esagonale, i Pioneer pesano 260 kg. L'antenna paraboloidica ad alto guadagno ha un diametro di 2,75 m; è costruita in materiale sandwich a nido d'ape d'alluminio: particolare cura va posta nel controllare ed evitare distorsioni termoelastiche che porterebbero a perdite sensibili di concentrazione del fascio d'irradiazione. Due dei tre booms radiali portano i generatori nucleari che forniscono l'energia elettrica necessaria; infatti, a causa della grande distanza dal Sole, l'impiego di pannelli solari non è possibile. Un terzo boom porta invece il magnetometro che, per i motivi detti, dev'esser tenuto quanto più lontano possibile dal centro del veicolo spaziale.
Il veicolo è stabilizzato a spin (v. satellite artificiale in questa App.), ed è controllato mediante getti d'idrazina; esiste anche un controllo della velocità di spin mediante getti ausiliari. Le comunicazioni sono assicurate da due diversi circuiti, per motivi di ridondanza.
Particolare interesse hanno i segnali di telemetria, accuratamente controllati a terra. Di fondamentale importanza anche i sistemi di controllo termico, che mantengono la temperatura tra −23 e 38 °C.
Sviluppi futuri. - Due sonde spaziali lanciate nell'agosto 1977, dopo aver sorvolato Giove nel gennaio 1979, dovrebbero proseguire per Saturno da dove le prime informazioni sarebbero ottenibili nel 1981. Si tratta delle sonde Mariner-Jupiter-Saturn.
Intanto si sta studiando la possibilità di una missione del tipo orbiter-probe su Giove (analoga cioè a quella Viking su Marte), che dovrebbe avere inizio nel gennaio 1982, in corrispondenza del minimo delle finestre di lancio (che avviene approssimativamente ogni sei anni). Il lancio sarà effettuato a partire da un'orbita di parcheggio realizzata da uno shuttle-orbiter (v. satellite artificiale in questa Appendice).
Storia delle esplorazioni lunari. - A partire dall'impegno assunto dagli SUA e dall'URSS nel 1965, all'interno del programma studiato nell'Anno geofisico internazionale, di esplorare lo spazio con sonde automatiche e con satelliti artificiali per poi puntare con astronavi pilotate alla Luna, oltre che ai pianeti, sino alla missione dell'Apollo 17 e al suo ammaraggio il 19 dicembre 1972 nell'Oceano Pacifico, sono intercorse una serie di missioni, culminate nell'allunaggio dell'Apollo II, il 20 luglio 1969, e nella discesa sul satellite dell'astronauta N. Armstrong, seguita da quella del suo collega E. Aldrin. Dopo i quattro tentativi falliti dagli SUA con le sonde Pioneer, il primo traguardo scientifico venne raggiunto dai sovietici, nel gennaio 1959, col passaggio della sonda Lunik 1 a 6500 km dalla Luna, e con l'allunaggio, sempre nel 1959, del Lunik 2, che, pur schiantandosi sulla superficie del satellite, vi deponeva una sfera con le insegne dell'URSS, e del Lunik 3 che fotografava per la prima volta (7 ottobre 1959) la faccia a noi invisibile della Luna. Dopo vari tentativi americani, il Ranger 7, lanciato il 28 luglio 1964, riusciva a circumnavigare il satellite, trasmettendo a terra ben 4000 fotografie, prima di schiantarsi a breve distanza dall'obbiettivo prefisso; effettuati ulteriori rilievi coi Ranger 8 e 9, le sonde Surveyor allunavano morbidamente (1966), inviando fotografie di eccellente qualità (risoluzione di qualche mm.) e trasmettendo importantissime misurazioni del campo gravitazionale, delle radiazioni, della densità di meteoriti nello spazio circumlunare, mentre nel contempo, e anzi con anticipo, l'URSS realizzava (3 febbraio 1966) il primo allunaggio morbido col Lunik 9 e la collocazione del primo satellite artificiale, il Lunik 10 (nello stesso 1966). Nel frattempo il governo americano stanziava enormi somme per porre in grado i propri laboratori scientifici di raggiungere e superare l'URSS (nel solo anno 1965 venivano erogati 5250 milioni di dollari); da questo sforzo scientifico e finanziario nascevano la creazione delle astronavi biposto Gemini e il lancio del progetto plurimo designato Apollo, con l'obbiettivo di realizzare anzitutto un volo di circumnavigazione della Luna da parte di un'astronave con tre uomini a bordo, e infine la discesa dell'uomo sul satellite. A tal fine si rendeva necessaria la costruzione di un razzo a più stadi, e la NASA riuscì nell'intento di portare a compimento l'impegno, avviato già dal 1962, di realizzare un razzo a tre stadi, il Saturno. Vennero a breve distanza sperimentate le varie tecniche, il veicolo di comando, una serie di lanci suborbitali e orbitali che consentirono il perfezionamento anche dei sistemi di bordo. Tra il novembre del 1967 e l'aprile del 1968 furono effettuati alcuni voli di prova per il progetto Apollo col Saturno 5 (9 novembre 1967), col Surveyor 6, che si è posato sulla Luna spostandosi lateralmente di circa tre metri, col Surveyor 7, che si è posato dolcemente sulla Luna (10 gennaio 1968), finché (11 ottobre 1968) entrava in orbita l'Apollo 7, che effettuò un volo circumterrestre di undici giorni con tre uomini a bordo, e (21 dicembre 1968) l'Apollo 8 che recò in orbita lunare tre cosmonauti (F. Borman, D.A. Lovell e W. A. Anders). Un nuovo convoglio spaziale veniva lanciato in orbita terrestre poco dopo (3 marzo 1969), l'Apollo 9, fornito di un modulo lunare che si distaccò dalla navicella di comando, sotto la guida di J. A. McDivitt, per poi effettuare il rendez-vous con la navicella; l'operazione fu ripetuta, questa volta in orbita lunare, con l'Apollo 10 (maggio 1969), con un modulo lunare pilotato, il quale discese a 15 km dalla superficie lunare. Si giunse infine alla memorabile data del 20 luglio 1969. La missione di N. Armstrong ed E. A. Aldrin nel Mare della Tranquillità fa in un certo senso storia a sé e i suoi particolari si perdono quasi nella moltitudine di emozioni che l'avvenimento suscitò in tutto il mondo, nelle 21 ore di science fiction, divenuta improvvisamente realtà. A terra, attraverso i collegamenti radiofonici e televisivi, giungevano le voci dei due astronauti che annunciavano al mondo che l'uomo non era più soltanto terrestre: da terra seguivamo attimo per attimo questa sconcertante avventura dell'uomo. "Chiunque ci stia ascoltando, ovunque egli sia, sosti per qualche attimo, mediti sugli avvenimenti delle ultime ore e compia un atto di ringraziamento nella maniera a lui preferita". Queste parole di N. A. Armstrong dalla Luna sono il messaggio di un uomo ad altri uomini nel momento in cui si apriva una nuova era.
Esattamente quattro mesi dopo, con Apollo 12, Ch. Conrad, A. B. Bean e F. Gordon Jr. davano vita al secondo capitolo dell'era lunare. Lo chiamarono "Luna bis", e seppure occupasse ancora le prime pagine dei giornali, e nonostante fosse ancora, e soltanto, la seconda avventura dell'uomo sulla Luna, aveva già perso gran parte del suo stupefacente fascino, anche se Conrad e Bean trascorsero ai bordi dell'oceano delle Tempeste più di 31 ore e installarono sulla Luna la prima stazione terrestre per i rilevamenti scientifici.
L'11 aprile 1970 Apollo 13 partiva per la terza spedizione lunare con J. A. Lovell Jr., F. W. Haise Jr., J. L. Swigart Jr. Un serbatoio di ossigeno esplose provocando un grosso squarcio nel modulo di servizio: la discesa sulla Luna fu annullata, onde si cercò solo di far tornare a terra i tre astronauti. L'odissea di Apollo 13 si concluse felicemente nelle acque dell'Oceano Pacifico.
L'Apollo 14 (31 gennaio-9 febbraio 1971) deluse. Ne furono protagonisti A. B. Shepard, E. D. Mitchell e S. A. Roosa. I primi due avevano il compito di esplorare con un carretto la regione di Fra Mauro. Tuttavia, sul piano scientifico, Apollo 14 fu quasi un fallimento.
Il 26 luglio 1971 partiva per la Luna l'Apollo 15, con D. R. Scott, J. B. Irwin e A. M. Worden. Scott e Irwin trascorsero oltre 66 ore fra i crepacci degli Appennini-Hadley e collaudarono con successo la prima automobile lunare. Con Apollo 15 la ricerca sistematica di nuove conoscenze scientifiche pose in ombra tutte le altre attività di volo. Gli esperimenti che i due astronauti portarono a termine sulla Luna rappresentarono l'unica giustificazione di questa missione e finirono per dominare i piani di volo e le noie tecniche da poco dopo il lancio a poco prima dell'ammaraggio.
Poi, dal 16 al 27 aprile 1972, J. W. Young, T. K. Mattingly e Ch. M. Duke Jr., a bordo di Apollo 16, furono impegnati nella quinta e penultima spedizione dell'uomo sulla Luna. Il "progetto Apollo", inizialmente programmato per 19 missioni, era stato successivamente ridimensionato dalla NASA per motivi di bilancio. Con la missione di Apollo 16, nell'accidentata regione di Cartesio-Cayley si è continuato a cercare ciò che si desiderava trovare sul satellite della Terra. Young e Duke percorsero sull'auto lunare circa 27 km, rimanendo sulla Luna poco più di 71 ore. Se sul piano emotivo la missione destò scarso interesse nell'opinione pubblica, tuttavia i risultati scientifici furono notevoli.
La spedizione dell'Apollo 17 (19 dicembre 1972) ebbe come equipaggio il comandante E. H. Cernan, il geologo H. H. Schmitt e R. E. Evans, il quale rimase in orbita lunare d'attesa
Poco prima che l'ultimo LEM (Lunar Excursion Module, denominato Challenger) si staccasse dalla regione di Taurus-Littrow, il comandante Cernan inviava a terra questo messaggio: "Ritengo che la storia ricorderà che il Challenger di oggi ha forgiato i destini dell'uomo di domani. E mentre noi abbandoniamo la Luna e Taurus-Littrow, noi partiamo così come siamo venuti e come, a Dio piacendo, torneremo con pace e speranza per tutto il genere umano". Dietro di loro, sul suolo lunare, rimanevano le tracce dell'uomo: l'ultimo LEM che si staccava dalla superficie lunare offrì un'immagine che può aver suscitato un certo senso di malinconia al pensiero che essa segnava la fine di un'epoca che potremmo definire esaltante, ma che forse è durata troppo poco.
Le imprese lunari non dovevano essere, e non sono state, fini a sé stesse. Esse dovevano aprire la strada a un'approfondita conoscenza della storia dei grandi eventi cosmici che sulla Luna hanno lasciato tracce mantenutesi inalterate per miliardi di anni a causa delle particolari condizioni ambientali.
Gli astronauti del "progetto Apollo" hanno esplorato da esperti, a piedi e in auto, luoghi di straordinario interesse scientifico: hanno prelevato frammenti di rocce, sassi e polvere nelle zone geologicamente più interessanti, là dove le montagne sono prossime ai "mari" e dove era più probabile trovare le tracce dei grandi fenomeni avvenuti sulla Luna miliardi di anni fa.
Mentre gli astronauti statunitensi dell'Apollo 11 si accingevano alla prima esplorazione, la sonda automatica sovietica Lunik 15 cercava di compiere lo stesso lavoro senza l'intervento diretto dell'uomo. L'attesa fu lunga, il 21 luglio 1969, e tanti furono gl'interrogativi sui reali intenti di Lunik 15.
L'impresa di Lunik 15 non ebbe esito positivo: un insuccesso che però fu riscattato un anno dopo dal Lunik 16, che riuscì a riportare a terra un prezioso carico di pietre lunari prelevate nella regione del Mare della Fertilità, e successivamente (agosto 1976) dalla stazione automatica Lunik 16. Subito dopo il Lunik 17 deponeva sulla Luna il primo veicolo lunare semovente teleguida, il Lunahod 1; già dall'aprile 1971 era stata lanciata una stazione orbitale, Saljut, alla quale progressivamente avevano attraccato tre astronavi Sojuz.
Di notevole rilievo scientifico fu infine la missione congiunta Apollo-Soyuz, il 15-24 luglio 1975 (l'aggancio delle due navicelle è avvenuto il 17 e il 18). È stata la prima volta, in quella occasione, che i servizi d'informazione sovietici hanno dato alle notizie sull'avvenimento una diffusione e un'estensione non inferiori, per qualità e dettagli, a quelli dei paesi occidentali. Ma anche gli entusiasmi per questo vertice della distensione hanno avuto una breve durata. Tuttavia, al di là di ogni suggestione retorica che l'avvenimento può aver determinato, la missione sovietica statunitense ha avuto un risvolto tecnico che non va sottovalutato e che è costituito dal positivo collaudo del "collare universale di aggancio" che ha consentito il congiungimento nello spazio di due macchine, e possiamo dire di due tecnologie, completamente diverse: premessa, così almeno si diceva, per più complesse imprese multinazionali, salvataggi cosmici, realizzazione di complicate stazioni scientifiche nello spazio.
La conclusione delle spedizioni lunari ribadita (10 ottobre 1978) dal presidente Carter, non vorrà significare anche termine delle ricerche scientifiche sul satellite, ma piuttosto intensificazione delle indagini su tutto il sistema solare, per la prosecuzione delle quali saranno posti in orbita molti altri satelliti (si calcola che attualmente ruotino attorno alla Terra circa 4500 oggetti orbitanti). Nel contempo l'URSS ha intensificato la sua presenza scientifica nel cosmo col lancio (primi di ottobre del 1978) della nave spaziale automatica Progress 4, la quale ha raggiunto il laboratorio spaziale Salyut 6, lanciato il 15 giugno sempre del 1978 e ridisceso il 2 novembre, a bordo del quale si trovavano i due astronauti Kovalenok e Ivanchenfov, e stabilito rapporti con i congegni radiotelemetrici di otto satelliti Cosmos che sono nello spazio dalla primavera 1978. Vedi tav. f. t.