ESERCIZIO ARBITRABIO delle proprie ragioni
La legge considera delitto il fatto di colui il quale, anziché rivolgersi all'autorità giudiziaria per ottenere il riconoscimento di un proprio opinato diritto, si fa giustizia da sé usando violenza sulle cose o sulle persone. Il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, altrimenti detto ragion fattasi, ha per oggetto la tutela dell'interesse dello stato d'impedire che la violenza individuale si sovrapponga alla pubblica autorità per conseguire una pretesa privata. Ciò perché in uno stato ben ordinato la giustizia non può essere rimessa all'arbitrio dei singoli, ma deve esclusivamente essere amministrata mediante gli organi ai quali è affidato il compito di dirimere le private controversie.
Il codice penale italiano 1930 prevede (art. 392) il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose, e (art. 393) lo stesso delitto con violenza alle persone. Si tratta di due distinti titoli di reato i quali, sebbene abbiano comuni taluni elementi, si differenziano per la diversa natura dell'estremo della violenza. Nel caso in cui vi sia violenza alle persone e sulle cose si ha un reato unico complesso (art. 393 capov. 1 in relazione all'art. 84).
Già nel diritto romano la lex Iulia de vi privata puniva gli atti di violenza, diretti a realizzare una propria pretesa, che nel diritto giustinianeo poterono esser compresi nel concetto del crimen vis privatae. Nei tempi di mezzo non si ha traccia di un vero e proprio reato di ragion fattasi, analogo all'attuale delitto di esercizio arbitrario. È solamente con il formarsi degli ordinamenti moderni che si andò affermando l'interesse statale del pieno rispetto della giustizia di stato. Tuttavia parecchie legislazioni moderne non prevedono un titolo specifico di delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, ma puniscono gli atti di violenza come tali, indipendentemente dal fatto che siano diretti ad esercitare o a far valere un proprio preteso diritto. I codici sardo-italiano e toscano, rispettivamente negli articoli 286 e 146, contemplavano il delitto di ragion fattasi: essi costituirono i precedenti da cui trasse la specifica incriminazione il codice del 1889 negli articoli 235 e 236.
Elementi comuni ai due delitti sono: 1. l'esercizio di un preteso diritto. È indifferente l'effettiva sussistenza del diritto, essendo sufficiente che l'agente ne abbia l'opinione e ritenga in buona fede di realizzare la pretesa che ne deriva. È pure indifferente la natura del diritto che s'intende far valere (reale, patrimoniale o di famiglia), e la titolarità del diritto. 2. il farsi ragione da sé mediante violenza in luogo di ricorrere al giudice. Mentre il codice 1889 si riferiva generalmente ai casi in cui il colpevole poteva ricorrere all'autorità (qualsiasi autorità), il codice 1930 circoscrive il delitto ai soli casi in cui il colpevole si sostituisce all'autorità giudiziaria (s'intende ordinaria o speciale). Il fine specifico di esercitare un preteso diritto con la coscienza di sostituirsi all'autorità giudiziaria alla quale si sarebbe potuto ricorrere costituisce l'elemento morale ed è fondamentale perché serve a distinguere questa ipotesi delittuosa da altre che hanno la stessa materialità.
Circostanza aggravante speciale per il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone è quella che la violenza o la minaccia sia commessa con armi. Il nuovo codice non riproduce la circostanza attenuante speciale che era contenuta nell'art. 236 di quello abrogato, per il caso in cui il colpevole provi la sussistenza del diritto. Il titolo di reato in esame non è applicabile se l'attività dell'agente sia legittima o perché necessitata (art. 52, 54, 638 u. p. cod. pen.), o perché gli è riconosciuta la facoltà di mantenersi nel possesso materiale e attuale di un bene o in una condizione giuridica contro gli atti che tendono a vietare o interrompete il pacifico godimento del bene o del diritto (qui continuat non attentat), o perché è autorizzato a reintegrarsi violentemente nel caso di spogliazione del possesso avvenuta in continenti, o perché infine risulta il consenso del soggetto passivo. Sostanzialmente il divieto al cittadino di farsi giustizia senza ricorrere all'autorità trova un limite nel fatto che si ammette che egli non debba tollerare senza difesa gli attentati contro il suo godimento in buona fede di un bene o di un diritto.
I delitti d'eserciziti arbitrario, pur essendo contro l'amministrazione della giustizia, onde il danneggiato è lo stato, sono punibili a querela della persona offesa e cioè del soggetto passivo immediato della violenza.
Bibl.: A. Stoppato, Esercizio arbitrario delle proprie ragioni, Verona 1896; G. Sarrocchi, Sul reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, Torino 1893; A. Pertile, Storia del diritto italiano, Padova 1873-87, 2ª ed., Torino 1891-99; F. Carrara, Programma di diritto criminale, Parte speciale, 10ª ed., Firenze 1925, V, par. 2853; V. Manzini, Tratt. di dir. penale italiano, V, Torino 1913, p. 559; R. Babboni, Delitti contro la amministrazione della giustizia, Milano, s. d.; C. Saltelli e E. Romano Di Falco, Commento teorico pratico del nuovo codice penale, Torino-Roma 1930, II, i, p. 433.