errore
Ogni giudizio o valutazione che contravvenga al criterio ammesso come valido nel campo cui il giudizio si riferisce, o ai limiti di applicabilità del criterio stesso. A differenza della menzogna e del sofisma, l’e. rappresenta un fallimento inconsapevole del pensiero nel raggiungimento della verità, e può attuarsi sia nel campo logico-gnoseologico sia in quello morale. Nelle teorie classiche e fino a Kant, l’e. viene ricondotto o a un difetto nell’applicazione delle regole logiche (o comunque delle regole del conoscere), o a un ricorso a facoltà o funzioni conoscitive improprie, quali la volontà o la sensibilità. Tali opzioni risolvono peraltro il problema empirico della genesi dell’e. che rimarrebbe invece aperto in una prospettiva idealistica come quella di Gentile, in cui l’e. si dà in maniera ‘non attuale’, ossia è presente nella coscienza che già lo avverte come tale (Teoria dello spirito come atto puro, XVI, 7; Sistema di logica come teoria del conoscere).
Platone nel Sofista (➔) parte dalla revisione della tesi eleatica circa l’inesistenza di ciò che non è, ricalibrandone la radicalità che comporterebbe la non esistenza del non vero, dunque dell’e., in quanto non-essere. L’e. consiste in una combinazione di forme (generi e specie) effettuata in deroga alle leggi della dialettica (➔), ossia in modo non conforme alle oggettive possibilità di rapporto di tali forme. In tal senso l’e. consiste nel ‘dire’ o ‘pensare’ qualcosa di diverso da ciò che è (263). Come è scritto nel Teeteto «l’opinare il falso è qualcosa di diverso dall’opinare ciò che non è» (189 b). Aristotele riporta una tesi simile nella Metafisica (➔), trattando del principio del terzo escluso; il falso e.: «dire che il non essere è o che l’essere non è». L’e. si dà non quando si pensa qualcosa «secondo la sua essenza necessaria» (De anima, III, 6) ma allorché vengono combinati elementi diversi e l’intelletto, che effettua la sintesi, non opera rispettando la struttura sostanziale dell’essere. In tal modo l’e. viene ascritto alla sfera delle affermazioni accidentali, fuori dalla scienza.
Anche in Agostino è presente la tesi dell’e. come «assenso al falso» (Contro gli Accademici, I, 4, 11) o addirittura al «dubbio» (III, 14, 32), ma l’e. acquisisce principalmente la connotazione di allontanamento da Dio: è e. il giudicare «supremo» ciò che è «infimo», senza avere consapevolezza di essersi allontanati dall’ordine divino (La vera religione, 18-21). L’e. è conoscenza di una non conoscenza, il ritenere vero ciò che non esiste (Confessioni, VII, 15, 21). Per Tommaso il falso si ha allorché si afferma o si crede vero qualcosa che non è (Summa theologiae, I, q. 17, a. 4); il falso non esiste nelle cose, ma nell’intelletto. Esso non attiene alla conoscenza dell’essenza delle cose da parte dell’intelletto, né alla conoscenza immediata dei principi universali, ma all’applicazione di tali principi a particolari conclusioni (De veritate, q. 15, a. 3). L’accentuazione dell’elemento volontario nell’allontanamento dalla verità è presente in Occam, che attribuisce alla volontà la facoltà di assentire a proposizioni false, o anche di dissentire da proposizioni vere (In sententiarum, II, q. 25), ed è radicalizzata in Scoto (Ordinatio, I, d. 1, p. 1, q. 1, n. 16; Opus oxoniense II, d. 43, q. 2, n. 2; III, d. 36, q. un., n. 14). La tesi della dipendenza dell’e. dalla volontà è sostenuta da Descartes nelle Meditazioni metafisiche (➔) (IV): l’e. non è «qualcosa di reale», in tal caso sarebbe ascrivibile a Dio come autore, «ma è solamente un difetto». Laddove si giudica o si delibera riguardo a cose che non si conoscono in maniera chiara e distinta, l’e. diventa possibile perché è la volontà, facoltà più estesa dell’intelletto, a provocare l’assenso al falso: «Donde nascono i miei e.? Da ciò solo, che la volontà essendo molto più ampia e più estesa dell’intelletto, io non la contengo negli stessi limiti, ma l’estendo anche alle cose che non intendo, alle quali essendo per sé indifferente, essa si smarrisce assai facilmente e sceglie il male per il bene, o il falso per il vero» (cfr. anche Principi della filosofia, I, 35). Le tesi cartesiane vengono ampiamente diffuse nella Logica di Port-Royal (➔), ove però, nella quarta parte, si avvia anche una trattazione positiva della probabilità. Locke, nel Saggio sull’intelletto umano (➔), fonda la teoria del giudizio non più sul vero ma sul probabile (rivivificando posizioni scettico-probabilistiche) nel cap. 20 del libro IV: «l’e. non è un difetto della nostra conoscenza, ma un inganno del nostro giudizio che dà il proprio assenso a ciò che non è vero». Partendo dall’assunzione della probabilità, le cause dell’e. possono essere ricondotte a: «I, la mancanza di prove; II, la mancanza di capacità di usarle; III, la mancanza di volontà di vederle; IV, le errate misure delle probabilità». In Spinoza, invece, attenuandosi la distinzione fra volontà e ragione, e perdendo di senso l’opposizione fra libertà (della volontà) e necessità (della ragione), l’e. è ricondotto a «mancanza di conoscenza» (Etica, II, prop. 35, scolio; prop. 17, scolio), cioè all’ignoranza; la sua natura è accidentale, legata all’opinione, poiché la conoscenza è «conoscenza dell’essenza» (Trattato sull’emendazione dell’intelletto, 26-29). Kant, nella Logica (Introduzione, VII), riconduce l’e. all’azione, non avvertita, della sensibilità sull’intelletto; in maniera impropria, l’apparenza della verità (il verisimile), viene scambiata per la verità stessa. Il problema non è dunque l’‘essere’ dell’e. (che risiede soltanto nel giudizio), ma il sapere perché esso si produce nel soggetto conoscente, come tendenza spontanea: «noi abbiamo a che fare con una illusione naturale ed inevitabile, che si fonda essa stessa su principi, soggettivi, e li scambia per oggettivi» (Dialettica trascendentale, Introduzione, II).
Nelle filosofie idealistiche e romantiche l’e. non viene considerato come momento ‘negativo’, poiché la negazione stessa viene considerata come fase di un processo dialettico e quindi dello sviluppo del reale. Di e. parlano ancora Rosmini (Nuovo saggio sull’origine delle idee, §§ 1365-69) o Croce (Logica come scienza del concetto), ma la teoria dell’e. viene sostanzialmente trattata in ambiti specialistici, approfondendosi in precisi campi di applicazione quali l’epistemologia, la filosofia della scienza o le teorie dei sistemi formalizzati. Un’importanza centrale nella riflessione filosofica più generale rivestono le teorie legate al ‘fallibilismo’ di Peirce (in base al quale l’e. è possibile in ogni fase della ricerca), accolto da Dewey (Logica, cap. 2), e alla riflessione di Popper per il quale la scienza si fonda non sulla verità, sull’episteme, ma su congetture falsificabili (➔ falsificabilità), questo ridetermina il senso stesso dell’e., in quanto il progresso scientifico non è altro che superamento di e., mediante l’esame critico delle teorie precedenti. Anche Bachelard (Essai sur la connaissance approchée, 1928), Canguilhem o Foucault hanno sottolineato, secondo diverse prospettive, l’ineluttabilità e la proficuità dell’errore.