ERODA (‛Ηρώδας, Herüdas; in Ateneo ‛Ηρώνδας)
Poeta greco; noto appena per insignificanti frammenti, fino al 1891, acquistò fin troppa celebrità dopo che otto suoi Mimiambi tratti da un papiro del sec. II d. C. furono per la prima volta pubblicati da F. G. Kenyon. Sono componimenti in coliambi (trimetri giambici "zoppi", cioè con la lunga nella penultima sillaba); hanno forma drammatica (tranne l'VIII, narrativo), e rappresentano scenette di vita borghese e provinciale: una vecchia amica di casa tenta la virtù di una giovane sposa durante una lunga assenza del marito (I); un giovine mercante ha commesso violenze in una casa di piacere, e il lenone ora lo accusa davanti ai giudici di Cos (II); un ragazzo discolo è consegnato dalla madre al maestro, che lo fa frustare a sangue (III); portatrici di doni votivi e offerte sacrificali al tempio di Asclepio in Cos, s'incantano alla vista delle opere d'arte raccolte nel santuario (IV); una padrona gelosa punisce senza pietà lo schiavo suo amante infedele (V); due amiche a quattr'occhi si fanno confidenze di natura intima (VI); un calzolaio nel servire delle giovani donne mescola galanteria all'abilità di decantare la sua merce (VII). La forma del verso risale a Ipponatte come inventore, e ciò forse spiega anche l'uso del dialetto ionico, venato qua e là di forme attiche e non privo di qualche affettazione o caricatura. Ma quel metro, creato per la poesia plebea e scortese, s'ingentilisce tra le mani degli Alessandrini; e viene usato per narrazioni, sermoni morali, dispute letterarie (v. Apollonio Rodio, Callimaco, Fenice di Colofone). Aver adattato il coliambo al mimo pare sia la trovata di E., che se ne vanta nell'ultimo mimiambo (VIII, Il sogno, frammentario e oscuro), dove si accenna a competitori invidiosi. Egli stesso deve aver inventato il titolo Mimiambi, e forse sul suo esempio coniò Babrio quello di Mythiambi per le sue favole esopiche versificate. Imitatori di E. furono i poeti latini Cn. Mattio e Vergilio Romano. I mimiambi di E. non mancano di vivacità e naturalezza, doti tanto più apprezzabili in quanto contrastanti con l'artifizio faticoso del metro. Sentenze, proverbî, formule esagerate di preghiere, imprecazioni, giuramenti caratterizzano bene lo stile popolaresco, a cui talora s'intreccia comicamente la reminiscenza letteraria e la parodia. Sulla persona dell'autore siamo quasi all'oscuro. Nativo probabilmente di Cos, o almeno vissuto in Cos, lo dicono gl'indizî contenuti nell'opera sua; contemporaneo di Callimaco e di Teocrito, sembra talora gareggiare con quest'ultimo nell'arte di trattare il mimo in versi.
Tra le edizioni, dopo F. G. Kenyon (Classical Texts, I, Londra 1891), vanno ricordate quelle di F. Buecheler (Bonn 1892) con trad. latina, di R. Meister (Lipsia 1893) con trad. tedesca e commento, importante per lo studio della lingua, di I. A. Nairn (Oxford 1904) con commento inglese. Nella Biblioteca Teubneriana il testo fu ripetutamente curato da O. Crusius e ora è affidato a R. Herzog, autore di pregevoli memorie sul testo di E. In Italia abbiamo un'ed. annotata di N. Terzaghi (Torino 1895, nuova ed., Torino 1925) e parecchi traduttori: G. Setti (Modena 1893; e poi nei "Classici del ridere", Genova 1913), Q. Fanucci (Firenze 1922), Chini (Lanciano 1923), F. Romagnoli (Bologna 1926) e altri. Nella collezione Les Belles Lettres testo del Nairn (diverso però da quello pubblicato nel 1904) e traduzione francese di L. Laloy (Parigi 1928); recente è l'edizione di Knox (Londra 1929) con traduzione inglese.