DI BROGLIO, Ernesto
Nacque a Resana, in provincia di Treviso, il 12 apr. 1840 da Antonio, di famiglia comitale originaria di Pavia, e da Rachele Vittorio. Studente di giurisprudenza a Bologna, prese parte come volontario alla seconda guerra d'indipendenza e, un anno dopo, raggiunse Garibaldi in Sicilia al seguito della spedizione guidata dal generale G. Medici. Delle sue vicende militari si possiedono, tuttavia, scarsissime tracce.
Ripresi gli studi e conseguita la laurea, si stabilì a Resana, alternando le cure della sua tenuta con studi di carattere amministrativo e finanziario. Nel 1867 fu eletto consigliere provinciale e, a parte una breve interruzione tra il 1873 e il 1875, fu confermato fino al 1907, occupandosi soprattutto di problemi inerenti allo sviluppo agricolo e zootecnico. Nel 1877 sposò Celestina Serri Dall'Armi, dalla quale ebbe cinque figli tra il 1879 e il 1886: Paolina, Adele, Antonio, Elena ed Emilia.
Nel 1886 (XVI legislatura) venne eletto deputato nel I collegio di Treviso. In seguito (XVIII-XXII legislatura) rappresentò il collegio di San Biagio di Callalta. Taciturno, restio a prendere la parola in aula, i suoi primi anni di vita parlamentare sono caratterizzati soprattutto dalla partecipazione ad alcune importanti commissioni, come quella sulla riforma delle leggi sull'imposta di ricchezza mobile e per il riordinamento della fondiaria. Nel 1896 divenne membro del Consiglio di Stato.
Nel febbraio 1901 gli fu assegnato il portafogli del Tesoro nel gabinetto Zanardelli, e la sua nomina destò non poche sorprese. Il D., infatti, non figurava neppure tra i papabili, e fu prescelto solo dopo che, per ragioni diverse, L. Luzzatti, G. Finali, F. Guicciardini e L. Wollemborg (che poi accettò le Finanze) rifiutarono. "Di Broglio - commentò il Corriere della sera del 15 febbr. 1901 - non avrebbe mai sognato di diventare ministro e, per di più, tra Zanardelli e Giolitti". E, in effetti, finì per incontrare non poche difficoltà all'interno della compagine ministeriale.
Il principale merito che gli viene riconosciuto è quello di aver convertito la rendita consolidata 4,50%in un consolidato 3,50%, per cui risultarono convertiti su un capitale nominale di 699,4 milioni, 611,2 milioni. Per il resto, la sua è soprattutto una storia di controversie e incomprensioni con gli altri membri del governo. Nel luglio 1901 fu tra i principali oppositori del progetto di riforma tributaria presentato dal Wollemborg, progetto che prevedeva una più equa ripartizione del carico fiscale tra le classi. Benché lo stesso Wollemborg avesse con chiarezza precisato modi e tempi per nuove entrate, il D. avversava il progetto perché riteneva contenesse oneri troppo gravosi a carico dello Stato. Il Consiglio dei ministri dette ragione al D. provocando le dimissioni del Wollemborg.
Non meno vistoso fu il suo contrasto con G. Giolitti, nel febbraio 1902, a proposito di una serie di rivendicazioni avanzate dai ferrovieri. Giolitti intendeva far accollare allo Stato una parte dell'onere finanziario, ma il D. si opponeva sia per ragioni di principio (come altri moderati e conservatori, muoveva da una visione privatistica del rapporto tra società ferroviarie e loro dipendenti) sia per ragioni di bilancio. Il braccio di ferro si protrasse per un certo periodo, ma dopo che si giunse alla militarizzazione dei ferrovieri, la Camera, grazie anche al voto favorevole dei socialisti, approvò le proposte avanzate da Giolitti.
Forti attriti il D. ebbe pure con G. Zanardelli, il più clamoroso dei quali fu quello a proposito della cosidetta politica degli sgravi (gennaio 1903). Zanardelli, in seguito all'abbandono del progetto di riforma tributaria e, soprattutto, nel tentativo di controbattere una serie di misure proposte da S. Sonnino riguardo allo sviluppo del Mezzogiorno (riduzione alla metà dell'imposta erariale e revisione dei patti agrari), considerava prioritario il tema degli sgravi per qualificare la sua azione. Il suo progetto in materia prevedeva l'alleggerimento dell'onere fiscale sulle quote minime dell'imposta fondiaria, l'esenzione dell'imposta sui fabbricati di nuove industrie e su quelli rurali, la graduale riduzione del prezzo del sale da 40 a 25 centesimi il chilo e lo stanziamento di 25 milioni per lavori pubblici straordinari. Il D., adducendo ancora una volta ragioni di bilancio, si dichiarava contrario a tali provvedimenti. Zanardelli allora, anche in considerazione di una noiosa malattia accusata in quel tempo dal D., avrebbe visto volentieri le dimissioni di quest'ultimo, ipotizzando in sua vece l'ingresso nel governo di F. Vendramini, suo personale amico. A salvare il D., sia pure indirettamente, intervenne, però, Giolitti. Questi, preoccupato che l'ingresso del Vendramini avrebbe alterato a favore di Zanardelli l'equilibrio della compagine ministeriale, riuscì ad imporre lo status quo. A ragione si parlò di vittoria di Giolitti, mentre il prestigio del D. subì un colpo piuttosto consistente. "Di Broglio rimarrà - fu il commento della Stampa del 31 genn. 1903 - ma non sappiamo con quanto decoro".
Al di là di questi episodi l'operato del D. non godette, in genere, di buona stampa. L. Albertini lo definiva "un modestissimo deputato di destra", mentre L. Lodi lo considerava al più "un piccolo contabile". Critiche piuttosto severe gli mosse anche il Sonnino, preoccupato della prassi in alcuni casi seguita dal D. di deferire in bilanci futuri spese effettuate nell'anno in corso. Con tale metodo (definito "finanza allegra") si nascondevano al Parlamento, sottolineava il Sonnino, le reali condizioni finanziarie della nazione e si aprivano pericolosi disavanzi per gli anni a venire.
Caduto il governo Zanardelli, il D. non ebbe più incarichi ministeriali. Nominato senatore il 3 febbr. 1907, il 16 febbraio dello stesso anno divenne presidente della Corte dei conti, carica che ricoprì fino al 12 apr. 1915, quando fu collocato a riposo per sopraggiunti limiti di età. Morì a Roma il 22 giugno 1918.
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