DE ANGELI, Ernesto
Nato a Laveno (Varese) il 29 genn. 1849 da Ercole e da Maddalena Frascali, si trasferì giovanissimo a Milano per prepararsi ai corsi in ingegneria industriale del Politecnico, studi che a sedici anni, con la morte del padre, dovette interrompere per provvedere al sostentamento della madre e di tre sorelle. Trovò un impiego a Milano nell'azienda di Eugenio Cantoni. industriale e banchiere di grande prestigio.
Lo stipendio non era però sufficiente ai bisogni familiari, e perciò fu costretto a cercarsi un guadagno sussidiario occupandosi della contabilità di una piccola tintoria, situata nel sobborgo della Maddalena, acquistata dal Cantoni nel 1868.
In questa seconda attività ebbe modo di formarsi ai problemi tecnici ed economici relativi alla conduzione aziendale e di progettare una ristrutturazione della tintoria-stamperia (produceva fazzoletti stampati a mano). Lo stesso Cantoni fornì poi al D. le somme necessarie per un prolungato soggiorno di studio e di pratica in Germania, Francia e Gran Bretagna.
Divenuto direttore della stamperia, profittando delle favorevoli condizioni del mercato finanziario milanese e della ripresa del settore cotoniero che si registrarono nella seconda metà degli anni '70, spalleggiato dal Cantoni, il D. costituì nel 1878 12 Società in accomandita semplice per la stamperia e la colorazione dei tessuti E. De Angeli e C., con un capitale sociale di L. 650.000 sottoscritto dai più bei nomi della finanza e dell'imprenditoria lombarda: oltre allo stesso Cantoni, G. Crespi, E. Krumm, A. Namias, L. Terruggia, G. Borgomancri e, inoltre, il Credito lombardo.
Le carature sottoscritte dal D. erano percentualmente inferiori a quelle degli altri azionisti. Nel 1886 però, dopo successivi aumenti di capitale (giunto in quell'anno a L. 1.875.000), era il terzo maggiore azionista della società, e nel 1897, quando il capitale sociale fu elevato a 7.500.000 lire, raggiunse il primo posto tra i sottoscrittori, con una quota di L. 650.000 circa. In venti anni l'azienda divenne uno dei giganti dell'industria italiana grazie alle capacità tecniche e imprenditoriali dei D., in collaborazione con Giuseppe Frua (anch'egli era stato assunto dal Cantoni) che nel 1883 ne aveva sposato la sorella Anna e fu poi nominato procuratore generale della società. L'altra sorella del D., Gioconda, sposò un altro dipendente della ditta, Alfonso GL roud. Gli interessi del D. si erano anche allargati verso settori di recente sviluppo tecnologico e finanziario: nel 1883 divenne presidente della Banca cooperativa milanese; nel 1890 consigliere della Società filati cucirini e, nel 1898, della Società italiana industria linoleum; nel 1899 presidente della Società anonima lombarda per la distribuzione di energia elettrica.
Nel 1899 veniva sciolta la società in accomandita E. De Angeli e C. per dare vita, il 14 ottobre, alla Società italiana per l'industria dei tessuti stampati De Angeli-Frua, con capitale sociale di 15 milioni in azioni da lire 250. Il D. sottoscrisse l'11% del capitale; altri sottoscrittori erano la Banca cooperativa milanese, la Banca svizzera italiana, la Banke Suisse, le famiglie Casati e Weill Scott, U. Pisa (presidente della Camera di commercio di Milano), G. Pirelli.
Animatore della Camera di commercio, il D. ne diventò consigliere nel 1882 Sostenuto dal Circolo industriale e commerciale, dall'Associazione industria e commercio delle sete, e dai quotidiani LaPerseveranza, Il Pungolo e Corriere della Sera, proprio quando più rovente si faceva la lotta per la riforma del trattato economico con la Francia. Esponente del praginatismo lombardo, il D. modellava i suoi orientamenti economici a seconda delle situazioni che andavano maturando nei settori industriale e finanziario. Moderatamente favorevole a una mite protezione da accordarsi all'industria cotoniera, interrogato dalla Commissione per l'inchiesta industriale (1870-74) in qualità di direttore della fabbrica per la stamperia dei Cotonificio Cantoni, aveva dichiarato di non ritenere necessaria una salvaguardia doganale per questa lavorazione. Anzi, era propenso ad abolire i dazi d'ingresso per le materie coloranti che, insieme alla mancanza di manodopera qualificata, costituivano uno degli ostacoli principali alla crescita industriale. La sua inclinazione filoprotezionista si consolidò nel decennio a cavallo dell'80, in concomitanza con le accresciute difficoltà del settore tessile in particolare, e maturò all'interno del Circolo industriale e commerciale, del cui consiglio direttivo fu nominato presidente il 30 dic. 1882.
In quella occasione presentò una relazione dettagliata sui risultati economici ottenuti con l'applicazione delle tariffe doganali del 1878, in rapporto alla revisione che il Parlamento si apprestava a farne discutendo su un disegno di legge governativo. Alla fine fu votato un ordine del giorno redatto dallo stesso D. e indirizzato alle Camere, con cui si informavano delle apprensioni destate negli industriali milanesi dalla presentazione sul progetto di legge sulle tariffe doganali che non rispondeva all'aspettativa di una larga e profonda revisione in senso completamente protezionista, e si invitavano a sospenderne l'approvazione in attesa di una sua modifica, tale da soddisfare realmente gli interessi economici del paese.
Forte del consenso ottenuto, nella seduta della Camera di commercio del 2 genn. 1883 fu ancora più esplicito nel condannare l'azione governativa: "... avendo avuta occasione di fare già tale esame del progetto di revisione doganale ne riportò penosissima impressione e non diversa gli consta fu quella suscitata forse in tutti gli industriali che, al pari di lui, se ne occuparono. Effettivamente dal complesso del progetto si vede che lo scopo principale e quasi unico del Ministero ... è di procacciarsi parecchi milioni, di cui abbisogna per sopperire alle lacune che lasceranno nel bilancio altri cespiti d'entrata prossimi a cessare; ma invano vi si cercherebbe il concetto economico ... . Quindi è d'uopo che la Camera segnali al Parlamento la disillusione provata dagli industriali alla lettura del progetto ..." (IlSole, 11 genn. 1883).
Esponente di punta dello schieramento filoprotezionista all'interno della Camera di commercio, ancora nel 1882 incerta sulla linea da seguire, il D. fu uno degli artefici della successiva rapida adesione di questa al protezionismo integrale, tanto che la sua ascesa alla presidenza (avvenuta nel gennaio del 1887) costitui una sorta di riscontro a tale conversione. Nell'aprile del 1887 inviava una relazione, elaborata dalla Commissione per le tariffe doganali, alla giunta d'inchiesta rninisteriale in cui si chiedeva un inasprimento delle aliquote contenute nel tariffario generale, richieste che la giunta aveva già respinto come pretestuose ed eccessivamente favorevoli agli industriali (soprattutto per quanto riguardava il settore tessile). L'impegno dal D. profuso su tale questione, all'interno e all'esterno della Camera di commercio (scrisse personalmente al ministro Luzzatti per esprimergli la proprie stima, ma allo stesso tempo per spingerlo a compiere ulteriori passi sulla via del protezionismo integrale), gli valse l'enchetta di protezionista di ferro, sia da parte dei contemporanei sia della storiografia successiva.
Il suo atteggiamento a proposito del trattato di commercio con la Francia accreditò ulteriormente questa opinione: mentre alcuni membri del Consiglio direttivo della Camera di commercio volevano invitare il governo a riprendere le trattative per la stipulazione di un nuovo trattato, il D. fu tra coloro che si opposero a questa richiesta: ".... un voto in quel senso non sarebbe stato giustificato in quanto che il Governo aveva già fatto tutte quelle amplissime concessioni che la dignità e l'interesse del Paese potevano consentirgli; quindi da questo punto di vista la mozione sarebbe stata perlomeno inutile. Avrebbe potuto avere un solo significato possibile - di consigliare cioè un trattato purchessia, anche peggiore di quello dell'81..." (Resoconto annuale sui lavori della Camera di commercio di Milano, Milano 1888).
La sua autorevolezza e il suo impegno non riuscirono comunque a sanare i contrasti che in quel periodo lacerarono i membri della Camera di commercio, tanto che ai primi del 1889 si dimise dalla carica presidenziale adducendo motivi di lavoro; cercò poi negli anni successivi di dimostrare che il suo era stato un protezionismo pragmatico e contingente. Nel 1891, al Circolo industriale commerciale e agricolo, si oppose all'ulteriore aumento del dazio sulla importazione delle sete e nel 1895, all'Associazione fra industriali cotonieri, affermò di aver sempre combattuto il principio di imporre dazi all'ingresso di materie prime.
Nel necrologio scritto quattro anni dopo per Alessandro Rossi, a cui lo avevano legato, oltre che gli affari, una profonda stima ed amicizia, diceva: "Non mi si chiegga, a questo punto, un giudizio su tale propaganda protezionista ...: che non le mie idee ma quelle di Alessandro Rossi io qui espongo. Io certo non condivido tutto il suo credo economico ...; né posso dire che quella protezione legittima che ho sempre invocato per le più promettenti produzioni nazionali sia alla mia mente giustificata dagli stessi presupposti. Non credo che lo Stato debba trascurare gli interessi dei consumatori, come non credo che solo questi esso abbia ad avere di mira. Gli è che, a parer mio, la protezione concessa a quelle produzioni che ne sono degne, la protezione accordata con sano criterio a chi ha attitudini alla lotta e chiede solo tempo per svolgere queste attitudini al riparo da sopraffazioni dei più forti ed agguerriti, se aggrava momentaneamente il consumatore, promuove e sviluppa il lavoro nazionale, generando poi all'interno una concorrenza la quale ribassa i prezzi e sollecita i progressi e l'esportazione" (A. Rossi, in Nuova Antologia, 16 marzo 1899, pp. 306-21).
Con A. Rossi il D. aveva presentato una relazione sulla organizzazione nazionale di rappresentanze libere dell'agricoltura, industria e commercio al Congresso nazionale delle società economiche, tenutosi a Torino nel maggio del 1893. Qui si dispiega il disegno razionalizzatore della produzione economica perseguito dal D.: partendo dall'inefficenza e dalla frammentarietà dei pur scarsi organismi di rappresentanza, si auspicava la separazione di questi secondo i tre principali settori produttivi, l'agricoltura, l'industria e il commercio, soprattutto per gli ultimi due la cui mescolanza di bisogni ed interessi costituiva la causa prima della crisi delle camere di commercio. Per l'agricoltura si chiedeva quindi la creazione di enti rappresentativi capaci di coagulare le energie migliori dell'imprenditoria rurale col fine di razionalizzare la struttura agraria, eliminando il più possibile l'intermediazione tra produttore e consumatore, le frodi alimentari; diffondendo nuovi metodi di coltivazione, il credito agrario e l'istruzione tecnica; difendendo le piccole industrie e creando società di assicurazione contro i sinistri agricoli. Tali enti, denominati "sindacati", dovevano poi federarsi su base regionale e nominare un comitato centrale col compito di far valere gli interessi e le istanze delle federazioni regionali presso il governo e il Parlamento. Uguale schema organizzativo, veniva proposto per il settore industriale, salvo un'attenzione maggiore a costituire i comitati regionali più sull'omogeneità produttiva delle industrie che sulla loro dislocazione territoriale. Alle camere di commercio restava, funzione ugualmente primaria, appunto il commercio inteso in senso lato: i servizi ferroviari, le banche, le borse, i magazzini generali, le scuole commerciali, ecc.
Postulata l'indipendenza di ciascuna categoria economica e di queste dai poteri pubblici, l'armonia generale andava ricercata nel vincolo di ciascun operatore a rendere prospero e potente il paese. Gli organi dello Stato andavano sensibilizzati e condizionati secondo le esigenze delle singole categorie produttive (il D. infatti si recò più volte a Roma in delegazione come rappresentante della Camera di commercio o degli industriali cotonieri per perorare questa o quella causa economica), ma ciascuno nell'ambito delle proprie prerogative. Allo Stato il D. non riconosceva la tutela, in via generale, dei consumatori e del mondo del lavoro. Se, a partire dal 1880, le autorità governative erano in.tervenute nel campo della protezione dei lavoro minorile, ciò si doveva all'indifferenza di alcuni imprenditori verso le proprie maestranze, condotta che aveva offerto il destro all'intervento del legislatore. Per parte sua egli aveva dimostrato subito la massima attenzione verso le condizioni sociali degli operai: con l'ampliamento della sua fabbrica aveva provveduto a dotarla di alloggi per operai, di cooperative di consumo, di scuole.
Nel 1894 fu nominato vicepresidente del III Congresso internazionale infortuni sul lavoro, carica che gli fu confermata nel comitato italiano presente al Congresso internazionale sugli infortuni del lavoro a Parigi nel 1900. Quattro anni prima era diventato consigliere dell'Associazione per l'assistenza medica per gli infortuni sul lavoro e nel 1898 aderì al Comitato per la cultura popolare. In prima linea nel richiedere l'abolizione dei lavoro notturno (fu uno dei relatori dell'apposita commissione del Consiglio dell'industria e del commercio), motivò la sua posizione soprattutto dalle colonne della rivista L'Industria, di cui era comproprietario.
In primo luogo respingeva l'insinuazione di quanti andavano dicendo che i cotonieri volevano questa legge per ridurre il fatturato in un momento di crisi di sovraproduzione: "presupporrò un attuale eccesso di produzione e mi domanderò senz'altro: hanno i cotonieri diritto e ha lo Stato il dovere di promuovere leggi di qualsiasi natura che tendano a frenare eccessi di produzione? Io non sono un liberalista ... : ma a una tale domanda non esito a rispondere negativamente perché non credo che lo Stato, dopo aver stabilito un equo sistema di dazi, abbia il compito di provvedere perché la produzione si mantenga in limiti che assicurino ai produttori un tranquillo monopolio nel mercato interno ... a quanto io mi so, i più autorevoli espositori dei sistema produttivo hanno sempre pensato e detto che fra gli Stabilimenti sorti all'ombra delle tariffe si sarebbe dovuta sviluppare una concorrenza benefica ... . Questo in massima. Nel caso concreto poi non so convincermi come nell'abolizione del lavoro notturno possa ravvisarsi un rimedio ad una pletora di produzione. Intendiamoci, parlo di quell'abolizione ... che si compirà entro tre anni dal giorno della promulgazione della legge. Come è mai possibile prevedere quale sarà la condizione dell'industria cotoniera trascorsi tre anni da quel giorno? E come è mai possibile non credere che molti filatori a cui sia vietato il lavoro notturno, non aumentino il numero dei fusi appunto per rimediare ai danni della diminuzione della produzione che deriverà dall'abolizione del lavoro notturno?". Del resto, continuava il D., l'associazione cotoniera aveva già avanzato proposte simili in tempi non sospetti. L'abolizione del lavoro notturno era un atto dovuto per migliorare le condizioni igieniche della collettività e inserire, anche su questo piano, l'Italia tra le nazioni più progredite. Invitando dunque gli imprenditoria tessili a trovare in loro stessi la forza per superare le eventuali difficoltà che sarebbero scaturite dall'applicazione della legge, toccava l'altro tema che preoccupava molto i suoi colleghi: l'intervento dello Stato. "Esso suscita sempre diffidenze e timori .... Ma lo Stato italiano non ha colpe in questo genere; cioè le ha ... dal punto di vista fiscale, ma non dal punto di vista sociale. Anzi lo Stato italiano ha troppo praticato una politica di non intervento, che ha offerto buon gioco ai partiti sovversivi" (L'Industria..., XI [1897], pp. 2-5).
Per tutto il 1897, in particolare, L'Industria ospitò articoli di raffronto sulle condizioni della classe operaia in alcuni paesi europei e sulle colpe dei politici per il vuoto di legislazione sociale. E verso questi ultimi, come verso la politica, il D. conservò sempre un atteggiamento ambiguo, al pari di altri notabili dell'alta borghesia milanese. Da un lato, non si riconosceva pienamente in nessuna forza politica allora operante a Milano; né nella conservatrice Associazione costituzionale, né nei circoli radicali e tantomeno in quelli repubblicani. Dall'altro, non mancò di promuovere iniziative e sottoscrivere programmi, convinto com'era che anche nel campo politico gli imprenditori (industriali e non) dovessero conquistare la leadership.
Così, nel 1886, era stato tra i firmatari (insieme con Pirelli, Miani, Ricordi, Grondona, Frua) del manifesto elettorale per le elezioni politiche del Circolo degli interessi economici, in cui si invitavano gli elettori a scegliere candidati più sensibili alla realtà delle cose, più attenti alle necessità del mondo del lavoro, i quali si facessero promotori di un decentramento amministrativo che conferisse maggiore autonomia ai poteri locali, garantendo le loro finanze dalle ingerenze dei gruppi politici. L'iniziativa non ottenne risultati concreti, ma fu successivamente riproposta nell'ambito del moderatismo lombardo verso il quale il D. conservava le maggiori affinità. Diversamente dai conservatori dell'Associazione costituzionale e della Perseveranza (che pure in qualche occasione lo appoggiarono), il progetto a cui lavorò fu quello di creare una forza politica laica, composta da esponenti dei mondo produttivo e da competenti in materia economica, alieni dalla retorica politica. Fin dalla caduta della Destra, non aveva aderito alle iniziative discusse nei salotti milanesi, a cui erano favorevoli anche Prinetti e Colombo, che prospettavano la costituzione di un nuovo partito conservatore con l'appoggio del clero e dei contadini.
Il suo anticlericalismo non si attenuò nemmeno di fronte al crescere dell'Estrema e del sovversivismo proletario. Salvo la parentesi del 1895, quando fu appoggiato dai cattolici moderati per ottenere la riconferma in Consiglio comunale, ritenne che al tramonto dell'ideologia moderata bisognava rispondere dopo i moti del 1898 a Milano con una vigorosa iniziativa politica che facesse perno sui ceti imprenditoriali e finanziari. Nelle consultazioni amministrative del 1899 il D., membro del Comitato elettorale, auspicò la formazione di un terzo partito composto dagli elementi più dinamici del moderatismo lombardo e da frange di radicali che mal sopportavano di trovarsi nella coalizione dei partiti popolari.
Nominato senatore nel 1896, in tale veste intervenne nei lavori parlamentari concernenti soprattutto i problemi della produzione e del lavoro (fu tra coloro che reclamarono la ripresa delle trattative economiche con la Francia) sui quali doveva calibrarsi l'azione dello Stato italiano sia all'interno sia all'estero. Contrario alle imprese coloniali di stampo crispino, il D. concepì, fin dagli esordi della sua attività imprenditoriale, la penetrazione dell'Italia in aree geografiche esterne come passo per la creazione di una vasta rete commerciale e di rifornimento di materie prime necessarie alla produzione nazionale. Nel 1879 era stato tra i soci fondatori della Società di esplorazione commerciale in Africa, il cui scopo primario si orientò sullo studio e la valorizzazione dell'Affica mediterranea. Tale valorizzazione doveva compiersi, secondo il D., costituendo in loco società di esportazione con personale formato da giovani preparati sulle necessità e sui meccanismi della produzione nazionale. La Società si rivelò incapace di realizzare un simile progetto, paralizzata ben presto dalla mancanza di fondi e dalle opposizioni ministeriali, sicché nel 1884 il D. finì per dimettersi dal comitato direttivo. Quando, però, nel 1891 l'ingegnere M. Caniperio, che si era dimesso anch'egli lo stesso anno dalla Società di esplorazione commerciale e dalla direzione del periodico L'Esploratore, propose l'istituzione di un ente per il conferimento di borse biennali che permettessero ai migliori allievi degli istituti commerciali di far pratica all'estero, il D. vi aderì prontamente sperando di realizzare finalmente la società di esportazione. Modificava però il progetto Camperio in tre punti: la sede dell'ente doveva essere Milano anziché Roma; esso doveva suddividersi in due sezioni, agricola e industriale; i borsisti dovevano espatriare previo apprendistato di due anni sul funzionamento e sulle necessità delle industrie italiane. Fallito anche questo tentativo per l'indifferenza del mondo imprenditoriale (lo stesso Camperio accusò il D. di non aver sostenuto fino in fondo la sua iniziativa), migliore esito ebbe la Compagnia commerciale del Benadir allo scopo di coltivare cotone in Somalia ed esportarvi tessuti e di cui, anche qui, il D. figurò tra i soci promotori insieme a Pirelli, Crespi, Amman e il sindaco di Milano Vigoni.
Insieme al primo, il D. diventò comproprietario del Corriere della sera nel 1895 facendo assumere, come redattore, grazie anche all'intervento di Luzzatti, L. Albertini. Convinto della capacità del giornalista, riuscì a portarlo alla direzione del giornale successivamente ai moti di Milano del 1898, durante lo stato d'assedio, dopo l'estromissione di Torelli-Viollier.
In dissidio con questo per l'atteggiamento giustificatorio dell'insurrezione milanese, il D. appoggiò inizialmente il passaggio della direzione del giornale a D. Oliva, che esprimeva una linea di acquiescenza allo stato d'assedio e alla repressione popolare del governo di Rudini. Tuttavia, la linea di condotta troppo marcatamente reazionaria di Oliva comportava, secondo il D., il pericolo di avallare un'ulteriore restrizione dell'autonomia amministrativa locale, rendendo stabile l'invadente controllo periferico dell'autorità dello Stato. Per sua iniziativa, sempre nel 1898, fu convocata, nella villa del D. a Laveno, la riunione che aprì ad Albertini la strada alla direzione del Corriere della sera.
La difesa delle prerogative imprenditoriali e l'opposizione alle ingerenze governative furono caratteri peculiari del quotidiano milanese anche durante il periodo giolittiano. L'amministrazione municipale, secondo il D., doveva essere guidata dalla borghesia economica attiva e modellare lo sviluppo e la vita della città secondo le esigenze della fabbrica e del suo sistema. Con questo spirito era stato eletto per la prima volta consigliere comunale nel 1885, intervenendo attivamente nei lavori dei Consiglio e delle commissioni (fece, tra l'altro, parte della commissione incaricata di studiare i termini dell'allargamento della cinta daziaria al circondario dei "corpi santi").
Personaggio di spicco dell'alta società milanese - nel 1893 aveva acquistato un palco alla Scala e frequentava il salotto di Vittoria Cima -, membro della Società di incoraggiamento di arti e mestieri, del Museo commerciale di Milano, della Società industriale di Mulhouse, Rouen, Lilla e dell'Accademia industriale di Parigi, conservò la sua residenza a Milano in via della Maddalena, nel pressi del cotonificio, dove morì il 17 genn. 1907.
Fonti e Bibl.: Milano, Archivio della Camera di commercio, Ditte 1875-1899, Società E. De Angeli; Arch. notarile, Notaio S. Allocchio, Atti 1877-1900; Il Sole, ad annos 1888-1907; Congresso naz. d. Società economiche in Torino 1893, Della organizzazione nazionale di rappresentanze libere dell'agric., dell'industria e del commercio, Milano 1893; T. Sarti, IlParlam. ital. nel cinquantenario, Roma 1898, pp. 210 ss.; U. Tombesi, L'ind. cotoniera ital. alla fine dei sec. XIX, Pesaro 1901, p. 258; Onor. al sen. E. D., Milano 1907; G. Gallavresi, Ilsalotto di donna Vittoria Cima, in Pegaso, II (1930), p. 367 ; A. Fossati, Lavoro e Produzione in Italia..., Torino 1951, p. 294; Istituto cotoniero italiano, L'industria tessile cotoniera in Italia dai suoi inizi ad oggi, Milano 1952; P. Rossi, Dall'Olona al Ticino. Centocinquantanni di vita cotoniera, Varese 1954, pp. 69 s.; P. D'Angiolini, Ilmoderatismo lombardo e la Politica italiana, in Riv. stor. d. socialismo, V (1962), pp. 116-19; F. Fonzi, Crispie lo Stato di Milano, Milano 1965, pp. 119 ss.; M. Calzavarini, Il protezionismo industr. e la tariffa dogan. dell'87, in Clio, II (1966), p. 76; L. Marchetti, Milano fine Ottocento, Milano 1966, p. 97; R. Morandi, Storia d. grande ind. in Italia, Torino 1966, p. 160; L. Avagliano, A. Rossi e le oricini d. Italia industriale, Napoli 1970, pp. 53 ss.; F. Grassi, L'industria tessile e l'imperialismo italiano in Somalia (1896-1911), in Storia contemporanea, IV (1973), pp. 718 ss.; A. Canavero, Milano e la crisi di fine secolo, 1896-1900, Milano 1976, pp. 80-391; G. Licata, Storia del Corriere della sera, Milano 1976, pp. 48-90; R. Romano, Borghesia industriale in ascesa, Milano 1977, pp. 132 ss.; M. Punzo, Socialisti e radicali a Milano (1899-1904), Firenze 1979, pp. 54 ss.; E. Del Vecchio, La via italiana al protezionismo (1878-1888), Roma 1990, pp. 99-109.