JUVALTA, Erminio
Nacque a Chiavenna, in Valtellina, il 6 apr. 1862 dal barone Corrado e da Teresa Sacchetti. Frequentò il ginnasio presso l'istituto religioso Gallio di Como, il liceo a Sondrio e quindi l'Università a Pavia, dove fu alunno del collegio Ghislieri. Si laureò dapprima in lettere, nel 1885, e l'anno successivo in filosofia discutendo con C. Cantoni una tesi su B. Spinoza. Grazie all'interessamento di Cantoni cominciò a collaborare dal 1889 alla Rivista italiana di filosofia di L. Ferri e quindi alla Rivista filosofica, che nel 1899 ne continuava le pubblicazioni sotto la direzione di Cantoni.
Lo J. fu segretario di redazione e vi contribuì con alcuni tra i suoi scritti più importanti sino al 1908, quando la rivista interruppe le pubblicazioni, confluendo poi - l'anno successivo - nella Rivista di filosofia, della cui redazione entrò a far parte anche lo Juvalta.
Già dal 1885 lo J. aveva intrapreso la carriera scolastica che lo aveva portato come insegnante dapprima nel ginnasio di Clusone, nel Bergamasco, quindi nei licei di Caltanissetta, Sessa Aurunca, Potenza, Spoleto, Voghera e, infine, al liceo Foscolo di Pavia. Nel frattempo, nel 1892, aveva conseguito la libera docenza in filosofia morale presso l'Università di Pavia, dove cominciò a insegnare con corsi liberi dal 1895. Nel 1906 fu presidente della Federazione nazionale insegnanti medi. Nel 1909 assunse l'incarico di provveditore agli studi, dapprima a Benevento sino al 1910, e quindi a Cuneo l'anno successivo. Ma su sua richiesta tornò all'insegnamento presso il liceo Galvani di Bologna, sino al 1914, quando fu nominato ispettore regionale per le scuole medie. Nel 1915 vinse la cattedra di filosofia morale presso l'Università di Torino, dove insegnò sino alla fine della vita.
Lo J. si era formato alla scuola di Cantoni, il quale perseguiva un programma di rielaborazione della filosofia kantiana che, nello studio dell'etica, era intessuto di interessi per gli aspetti emotivi e psicologici della vita morale. Pur mantenendosi fedele ai principî kantiani, Cantoni considerava tuttavia con favore gli sviluppi del positivismo e in particolare il confronto con i metodi e i risultati delle scienze naturali. Lo J. fece proprio il suo insegnamento e ne sviluppò sia gli interessi per il positivismo e l'importanza delle scienze sia alcune impostazioni kantiane in una direzione che le sottraeva tuttavia da un approccio speculativo tradizionale. Come ebbe modo di osservare L. Geymonat, sono "chiarissime le analogie fra il metodo dei cosiddetti neo-empiristi e quello del Juvalta, imperniati, sia l'uno che l'altro, su analisi logiche estremamente precise e sottili, che ripudiano qualsiasi ricorso ad argomenti di carattere intuitivo o comunque non controllabili e scarsamente rigorosi" (Avvertenza, in E. Juvalta, I limiti del razionalismo etico, nuova ed., Torino 1991, p. XXII). Ma prima ancora, la riflessione dello J., legata agli esiti più recenti del positivismo britannico conseguiti da pensatori come J.S. Mill e H. Spencer, si collocava accanto alle riflessioni che nello stesso torno di anni andavano esponendo autori quali H. Sidgwick e G.E. Moore. Nel fare proprie in modo rigoroso e preciso alcune istanze del positivismo britannico - così lontano da quello italiano subito pronto a piegarsi a esigenze speculative e spiritualistiche - e del criticismo kantiano, e nel condividere stili e questioni proprie della nascente tradizione analitica, lo J. si poneva in una posizione decisamente estranea all'ambiente filosofico italiano, peraltro prossimo a essere assorbito quasi per intero nell'esperienza idealistica dominata da B. Croce e G. Gentile. Tale carattere della filosofia dello J. ne avrebbe segnato la vicenda: fu per sua volontà un filosofo lontano dai clamori della filosofia retorica, ma fu anche isolato e non riconosciuto.
Già nel suo primo lavoro significativo, Di alcune cause della avversione presente per la filosofia in Italia (in Riv. italiana di filosofia, VII [1892], 1, pp. 3-28) lo J. diagnosticava la crisi in cui versava la filosofia in Italia attribuendola alla sterilità dei grandi sistemi speculativi. Nel suo primo volumetto, i Prolegomeni a una morale distinta dalla metafisica (Pavia 1901), metteva al centro delle sue analisi una distinzione già elaborata nell'etica britannica, almeno a partire da Mill, ma che corrispondeva anche a una ispirazione centrale dell'etica di Kant, quella tra "esigenza esecutiva" ed "esigenza giustificativa", che ora chiameremmo tra motivazione e giustificazione.
La prima è una questione psicologica e riguarda i motivi che ci spingono ad agire, tra cui lo J. includeva l'obbligazione generata dal sovrano, le credenze metafisiche e religiose; la seconda è una questione normativa e riguarda la giustizia. Lo J. si serviva della distinzione per fare valere una tesi particolare, che oggi chiameremmo esternalista, secondo cui i compiti della giustificazione e della motivazione non si intrecciano mai: in particolare la ricerca della giustificazione "dovrà essere istituita e compiuta, all'infuori di ogni preoccupazione sulla esistenza e sulla efficacia dei motivi atti a darne osservanza" (I limiti…, p. 8). In questo modo lo J. è spinto, in accordo con l'ispirazione fortemente razionalistica, che egli derivava da Kant ma che si sposava con la linea britannica di Spencer, Sidgwick e Moore, a immaginare l'impresa della giustificazione etica come la riflessione intorno a una società ideale giusta, distinta categoricamente da quella presente. In questa tesi G. Marchesini avrebbe trovato motivo di rintracciare una ricaduta su posizioni metafisiche che astraevano dalle condizioni concrete e soggettive dell'individuo, mentre G. Vailati ammetteva che il riferimento a una società ideale era necessario per non confondere il perseguimento della conservazione della società presente con l'individuazione di un criterio di giustizia in virtù del quale giudicare la situazione attuale (Vailati, p. 146).
Lo J. riprendeva questi temi nello scritto del 1905 Per una scienza normativa morale (in Rivista filosofica, VII, pp. 445-466), in cui ribadiva che la morale può essere fatta oggetto di scienza di natura deduttiva. In questo senso lo J. legge Kant, come avrebbe fatto R.M. Hare sessant'anni più tardi, come il teorico dell'universalizzazione, depurando la sua filosofia dal difficile bagaglio trascendentale. Analogamente lo J. in un articolo del 1907, Il metodo dell'economia pura nell'etica (ibid., IX, pp. 577-601), offriva una spiegazione deduttivistica dell'economia politica e sosteneva che l'etica è una scienza allo stesso modo in cui lo è l'economia (I limiti…, p. 179).
Così come le spiegazioni economiche sono valide nei limiti in cui ipotizziamo che l'unico movente sia il desiderio di soddisfare i propri bisogni, analogamente la scienza etica ha valore nei limiti in cui ipotizziamo che a muovere gli individui sia esclusivamente il desiderio di giustizia (ibid., p. 181). In questo modo lo J. veniva delineando la sua posizione razionalista in linea con le riflessioni del razionalismo britannico, distaccandosi in questo dagli autori classici come Mill che avrebbero visto proprio nel deduttivismo la differenza tra economia ed etica.
Lo J. riprendeva tuttavia un'altra linea di Mill, quella secondo cui dei principî etici primi non è possibile fornire una prova e che troverà una elaborazione in un quadro filosofico del tutto diverso in Sidgwick e Moore.
Perciò lo J. - in Per una scienza normativa morale - può sostenere che la "ragione per sé non comanda nulla; né l'egoismo, né l'altruismo, né la giustizia. La ragione cerca, e mostra, se le riesce, i mezzi che servono a conservar la vita a chi la vuol conservare, a distruggerla a chi la vuol distruggere; addita ai pietosi le vie della pietà, ai giusti le vie della giustizia, e le vie del proprio tornaconto agli uomini senza scrupoli" (p. 142). Si tratta di una conclusione che mette in luce come lo J. faccia valere una interpretazione strumentale della razionalità, lontana da quella sostanziale di Kant. Ma tali conclusioni mostrano anche come lo J. fosse in contatto con gli esiti principali della cultura filosofica europea, che da M. Weber a Moore insisteva sulla diversificazione dei piani da una parte dell'essere, della descrizione e della spiegazione razionale, e dall'altra del dover essere, proprio dell'etica.
Queste tesi costituiscono uno fra gli assi portanti delle riflessioni dello J., su cui sarebbe tornato di continuo anche nelle lezioni: le scorgiamo, per esempio, all'altezza del 1912, nello scritto Su la pluralità dei postulati di valutazione morale (in LaRivista ligure, III, pp. 289-297), ma esse troveranno di lì a poco uno sbocco maturo nel volume Il vecchio e il nuovo problema della morale (Bologna 1914), che gli valse la cattedra di filosofia morale a Torino.
Qui lo J. dà voce in modo sistematico alle ispirazioni filosofiche già viste. Nella prima parte del volume si occupa della natura del fondamento dell'etica secondo un approccio che ricalca quello di Moore nei Principia ethica (Cambridge 1903). Lo J. considera tre possibili fondazioni dell'etica: su una realtà cui la coscienza ha accesso; su un principio primo; sull'autorità esterna. Nel primo caso lo J. osserva che la conoscenza delle cose non offre mai valori. Così quando A. Rosmini vuole dimostrare che la conoscenza dell'essere è anche conoscenza del grado di perfezione di quell'essere, lo J. commenta che Rosmini non fa altro che "assumere già nel concetto dell'essere quello di bene, nel concetto di realtà quello di perfezione, cioè di valore" (I limiti…, p. 243). Anche la ricerca di un fine primo che fondi l'etica - il principio di utilità o l'appello alla divinità - è egualmente destinata al fallimento in quanto o questi criteri sono essi stessi morali oppure sono indifferenti dal punto di vista morale. Argomentazioni analoghe sono mosse contro il tentativo di fondare l'etica su criteri esterni quali l'autorità con cui le norme morali si impongono agli individui, sia nella forma di sentimenti che l'educazione e la storia hanno deposto nella società sia nella forma di comandi dell'autorità, terrena o sovrasensibile. Da tali argomentazioni lo J. concludeva a favore di una tesi circa l'autonomia della sfera etica, una conclusione che riassumeva una lunga linea di pensiero a partire dal Settecento e che aveva trovato in D. Hume la sua difesa classica (cfr. Prior).
Ma lo J. procedeva oltre, poiché non considerava l'autonomia dell'etica come una ragione sufficiente per affermare che l'etica abbia un aspetto omogeneo, come sosteneva invece Kant. L'etica è autonoma non in quanto è propria degli esseri umani astrattamente concepiti nella loro capacità di esseri razionali perfetti, ma in quanto singole e concrete coscienze individuali. Come egli scrive: "Non vi è una coscienza morale, ma vi sono, a rigor di termini, tante coscienze morali quante sono le coscienze personali nelle quali sono riconosciuti come supremi e normativi e validi indipendentemente dal flusso momentaneo e variabile delle valutazioni transitorie e accidentali, certi valori" (I limiti…, p. 297). In questo modo lo J. arrivava a concludere che dobbiamo supporre una pluralità di postulati morali (il tema dello scritto di due anni prima), che esemplificava nello "spirito filantropico, lo speculativo, il religioso, l'estetico" (ibid., p. 305).
Da questa pluralità di valori morali personali lo J. faceva derivare, con una ricostruzione di tipo contrattualistico, la giustificazione dei valori pubblici. Egli sostiene infatti che vi sono valori comuni che sono "strumentali rispetto a quale si voglia criterio di valutazione che sia posto come normativo" (ibid., p. 306). Tali valori comuni (il rispetto della libertà, l'osservanza dei patti e virtù personali quali il dominio di sé ecc.) sono le condizioni della possibilità che ciascuno persegua i propri valori morali personali. Per la loro funzione i valori comuni (che lo J. chiama anche valori morali universali) sono la fonte del potere sovrano sia nel senso che il potere è giustificato (è un potere giusto) nei limiti in cui agisce alla luce di essi, sia nel senso che tali valori debbono essere fatti valere coercitivamente attraverso il diritto. Si tratta di una lucida concezione liberale della relazione tra valori morali personali ed etica pubblica.
Su questi temi lo J. tornò in uno dei suoi ultimi scritti, Per uno studio dei conflitti morali, del 1927 (in Rivista di filosofia, XVIII, pp. 137-157), in cui ricostruisce con grande suggestione la storia dell'etica alla luce del conflitto tra due concezioni della morale: l'una fondata sul bene, come fine del proprio personale perfezionamento, e l'altra fondata sulla legge, mirante a stabilire prescrizioni comuni a tutti capaci di garantire l'ordine sociale.
Lo J. intravede nello stoicismo prima e nel cristianesimo poi il prevalere della morale della legge, con la conseguenza di concepire la morale come unica e uniforme. Ma è con il razionalismo settecentesco, con l'idea del contratto sociale e dei diritti naturali che emerge di nuovo la contrapposizione che era rimasta sopita. Infatti lo J. individua nella concezione egualitaria dei diritti precisamente il riemergere della priorità del bene di cui la costruzione politica è concepita come garanzia. Egli introduce qui un tema su cui si era già soffermato nel precedente I limiti del razionalismo etico del 1919 (pubblicato come prima parte di un lavoro dal titolo In cerca di chiarezza. Questioni di morale, Torino; le altre parti annunciate non furono mai pubblicate). Qui lo J. aveva da una parte smascherato le pretese fondazionaliste del razionalismo settecentesco, che immaginava che fosse la ragione a comandare i principî propri della dignità umana, mentre essi sono fondati su un assunto squisitamente morale che consiste nell'idea che l'individuo umano non vada trattato come strumento della volontà altrui (I limiti…, p. 364). Il razionalismo tuttavia metteva in luce le connessioni deduttive e mostrava che, se vogliamo garantire libertà di coscienza e di opinioni morali, dobbiamo tenere salda l'idea di diritti che proteggono in ogni caso gli individui. In questo modo lo J. ribadisce la sua concezione della morale come fondata sull'apprezzamento di una pluralità di fini, quella pluralità che romanticismo e storicismo avevano trovato, apparentemente contro il razionalismo del secolo precedente, nella vastità della vita interiore e nella particolarità delle costruzioni storiche (ibid., pp. 336 s.), ma il cui sviluppo è reso possibile solo dalla comune adesione a una legge morale resa operativa dal diritto.
Era una riflessione che lo distanziava nettamente dal contesto italiano, incline a trovare risposta ai quesiti filosofici nella delineazione di ampi affreschi in cui si trovasse narrata la vicenda complessiva dell'essere, come P. Carabellese raccomandava allo J. nella sua recensione ai Limiti del razionalismo etico, sostenendo che la morale può avere fondamento solo in una concezione metafisica. Ma meno ancora poteva trovare ascolto nel nuovo clima novecentesco dominato dall'idealismo.
Lo J. morì a Torino il 5 ott. 1934.
Nel 1892 aveva sposato Gina Molinari.
I suoi scritti principali furono riuniti nel già ricordato volume I limiti del razionalismo etico, da Geymonat in un momento emblematico per il paese, nel luglio 1945. Una bibliografia completa delle sue opere si trova in I limiti del razionalismo etico, a cura di M. Ferrari, pp. 462-471; nonché, a cura di M. Quaranta, in Riv. di storia della filosofia, n.s., XLI (1986), 3, pp. 653-664.
La figura dello J. è rimasta oscurata dal prevalere in Italia di stili filosofici differenti, ma a lui si sono richiamati coloro che hanno seguito un approccio razionale e analitico ai problemi dell'etica (Scarpelli, Lecaldano, Pontara: cfr. Milanesi, 1982).
Fonti e Bibl.: G. Salvemini, Carteggi, I, 1895-1911, a cura di E. Gencarelli, Milano 1968, pp. 338 s.; Lettere di Erminio Juvalta a C. Antoni (1885-1891), a cura di P. Guarnieri, in Annali dell'Istituto di filosofia dell'Univ. di Firenze, III (1981), pp. 183-206; Lettere a Bernardin0 Varisco (1867-1931). Materiali per lo studio della cultura filosofica italiana tra Ottocento e Novecento, a cura di M. Ferrari, Firenze 1982, pp. 165-187; una bibliografia della letteratura critica sullo J., a cura di M. Quaranta, si trova in Riv. di storia della filosofia, n.s., XLI (1986), 3, pp. 660-664; si veda inoltre la bibliografia a cura di M. Ferrari, in I limiti del razionalismo etico, cit., pp. 472-474.
G. Marchesini, in Riv. di filosofia, pedagogia e scienze affini, II (1901), 4, pp. 422-424 (rec. ai Prolegomeni); T. Whittaker, The theory of abstract ethics, Cambridge 1916, passim; P. Carabellese, in Giorn. critico della filosofia italiana, I (1920), pp. 214-221 (rec. ai Limiti del razionalismo etico, Torino 1919); A. Guzzo, Vita e scritti di E. J., Firenze 1938 (estratto); A.N. Prior, Logic and the basis of ethics, Oxford 1949; G. Solinas, L'autassia dei valori e le analisi etiche di E. J., Torino 1954; D. Basciani, E. J. e l'etica della giustizia, Roma 1966; Id., Il fondamento intrinseco del diritto: rilievi sulla posizione di I. Vanni e la critica di E. J., Roma 1966; F. Picardi, Morale e filosofia della morale in E. J., Milano 1978; G. Sperduti, La concezione etica di E. J. ed il fallimento del razionalismo etico, Veroli 1979; M. Viroli, L'etica laica di E. J., Milano 1987; G. Vailati, in Scritti filosofici, a cura di G. Lanaro, Firenze 1980, pp. 140-146 (rec. ai Prolegomeni [1901]); P. Guarnieri, La "Rivista filosofica" (1899-1908). Conoscenza e valori nel neokantismo italiano, Firenze 1981, passim; U. Scarpelli, L'etica senza verità, Bologna 1982, pp. 73-112; V. Milanesi, Etica e metaetica alle origini della riflessione filosofica "analitica" in Italia: J. e Vailati, in Id., Prassi e psiche. Etica e scienze dell'uomo nella cultura filosofica italiana del primo Novecento, Trento 1982, pp. 201-212; W. Tega, E. J. e la teoria della giustizia, in Riv. di filosofia, LXXV (1984), pp. 398-430; Sul pensiero di E. J. (1862-1934), in Riv. di storia della filosofia, n.s., XLI (1986), 3 (con contributi di M. Ferrari, A. Santucci, E. Lecaldano, G. Pontara, M. Viroli, V. Milanesi, M. Mori, F. Minazzi, S. Veca); M. Ferrari, Nota bio-bibliografica, in E. Juvalta, I limiti del razionalismo etico, cit., pp. 461 s.; P. Suriano, E. J. (1863-1934): il percorso di un moralista, Poggibonsi 1992; A. Del Noce, Filosofi dell'esistenza e della libertà: … J. …, Milano 1992, ad ind.; Enc. filosofica, IV, s.v. (C. Mazzantini).