NOVELLI, Ermete
NOVELLI, Ermete (Pubblico, Martino, Nazzareno, Ermete). – Secondo di tre figli (preceduto da Emiliano, morto poco dopo la nascita, e seguito da Sebastiano, pittore di un certo nome), nacque alle porte di Lucca il 5 maggio 1851 alle 9 del mattino nel bel mezzo di uno spostamento della piccola compagnia di guitti di cui il padre Alessandro, nobile decaduto, faceva parte in qualità di suggeritore insieme con la giovane moglie, l’affascinante «bruna dagli occhi di fuoco» Giuditta Galassi, «ottima filodrammatica» divenuta attrice professionista per amore del marito.
Rimasto orfano di madre in età tenerissima, a causa delle ristrettezze economiche in cui versava la famiglia, non fu messo in collegio ma seguì le peregrinazioni in alterna fortuna del padre da una compagnia all’altra. Così fece il suo ingresso in arte, senza accorgersene e senza particolari inclinazioni salvo una grande passione per i burattini: «[…] la prima scuola d’arte comica che mi abbia dato impressioni e sensazioni!» (Foglietti sparsi narranti della mia vita, a cura di Yambo, Ostiglia s.d. [ma 1919], p. 60). Cominciò, com’era consuetudine, recitando i paggi e le bambine, e si interessò a tutti gli aspetti materiali del teatro (dalla macchineria alla pittura di scene, dal trovarobato alla fabbricazione di parrucche); quando i soldi non bastavano per sbarcare il lunario o mancavano le scritture, come nel 1866 durante la terza guerra d’indipendenza, sfruttando l’abilità manuale, era capace di inventarsi incisore di caratteri tipografici o, all’occorrenza, di fare anche il cameriere.
La vocazione si precisò e divenne una passione solo dopo aver assistito ad alcune recite di Alamanno Morelli, il grande interprete che contaminava ecletticamente il ruolo di ‘primo attore’ con attitudini da ‘brillante’. Lo stile piano e naturale di Morelli, «fatto di verità e spontaneità» (Rasi, 1905, II, p. 156), era estraneo alle esuberanze declamatorie della tragedia classica italiana e assai vicino al realismo della nuova drammaturgia d’Oltralpe che mescolava il dramma romantico alla commedia. Su un registro molto simile Novelli doveva trovare la propria maniera.
Il suo apprendistato, al seguito del padre, passò attraverso una dura gavetta in piccole compagnie di guitti girovaghi tra Lombardia, Emilia Romagna, Toscana e Veneto. Nel 1863, a 12 anni, ottenne la prima scrittura dal capocomico Achille Parisini come ‘secondo brillante’ e ‘mamo’; l’anno successivo fu ‘generico’ nella compagnia Boldrini e nel 1865 ‘secondo generico da parrucca’ interpretando Guido, il padre di Francesca da Rimini (sostenuta da Elena Pieri Tiozzo). Tra il 1866 e il 1867 nella compagnia dello Stenterello Toggio recitò ancora come ‘generico’, facendo anche il trovarobe e il buttafuori per arrotondare la ‘cinquina’, ovvero la paga settimanale dei comici. Passò poi come ‘brillante’ alla compagnia Salsilli, dove mieté qualche applauso recitando la farsa, e lavorò anche da macchinista, siparista, illuminatore nonché pittore dei cartelloni pubblicitari degli spettacoli. Infine, tornò come ‘generico’ nella scalcinata compagnia De Santis-Mazzoni. Nonostante le miserande condizioni in cui versava, ottenne successi personali sempre più lusinghieri tanto da essere segnalato ad Amilcare Belotti, socio della primaria compagnia Romana che lo scritturò senza ruolo, avendolo visto recitare come ‘buffo’ in una rivista di fine d’anno, Se sa Minga di Antonio Scalvini e Antônio Carlos Gomes, al teatro S. Radegonda di Milano.
Separatosi dal padre per la prima volta, Novelli cominciò la parte più importante dell’apprendistato. Dovette innanzitutto rimediare all’analfabetismo: fino allora aveva appreso le parti attraverso la mediazione del padre, ora il senso dell’azione e il significato del discorso dei personaggi doveva ricavarlo direttamente dalla parola scritta, che spesso gli sfuggiva. Le parole della parte gli uscivano quasi sempre a sproposito e l’incertezza e la paura di sbagliare gli facevano perdere la proverbiale disinvoltura dei figli d’arte in palcoscenico. Con grande fatica a 16 anni imparò a leggere e scrivere e, grazie al suo talento e alla pazienza dei capocomici, rimase per cinque anni in compagnia: cominciò facendo piccole particine di riempimento, poi assunse le parti di ‘amoroso’ ma non avendo il fisico adatto passò al ‘secondo carattere’. Perfezionò così l’arte della truccatura, indispensabile per recitare le parti ‘in parrucca’ (da uomo maturo o da vecchio) che il ruolo gli imponeva, abituandosi a fissare col trucco, il portamento e il costume una fisionomia che incarnava la psicologia del personaggio. Il risultato fu così felice che presto fu promosso alle prime parti: dapprima ‘caratterista’, poi ‘brillante’, qualche volta interpretò anche caratteri da ‘primo attore’ come il conte Leicester nella Maria Stuarda.
In un lustro aveva maturato la sua vocazione. Recitare nella compagnia Romana, accanto al ‘brillante’ Amilcare Belotti e soprattutto al ‘caratterista’ Gian Paolo Calloud, gli permise di familiarizzarsi con la grande tradizione dei brillanti-promiscui della prima metà dell’Ottocento, attori capaci di passare con disinvoltura dalle parti comiche alle serie annullando la fisonomia nel personaggio quando la maggior parte dei comici cercava invece di crearsi una sorta di silhouette immediatamente riconoscibile in qualsiasi contesto. Parmenio Bettoli, conoscitore dello stile di Calloud, sosteneva di sentire «viva e palpitante la scuola di lui» quando Novelli interpretava Michele Perrin o il Genero del signor Poirer (1899, p. 349).
Nel 1872 Novelli uscì dalla compagnia Romana attore formato e accettò una scrittura come ‘generico primario’ con la compagnia Vitaliani-Cuniberti che gli permise di coltivare il suo eclettismo.
Raggiunta una certa agiatezza, anche se turbata dai debiti, nel 1873 a 22 anni sposò la cugina di Angelo Diligenti, primo attore della compagnia Romana, l’attrice Lina Marazzi da cui nel 1876 ebbe un figlio, Enrico, il futuro giornalista e disegnatore Yambo. Lo stesso anno si legò per un triennio alla compagnia di Petriboni sempre in qualità di ‘generico primario’, spaziando dai ruoli seri a quelli comici (Metzbourg nel Ridicolo di Paolo Ferrari, Francesco I nei Racconti della regina di Navarra di Eugène Scribe - Ernest Legouvé, il generale Floch nel Leone Innamorato di François Ponsard, Granchoud nei Nostri nuovi villici di Victorien Sardou). Dal 1877 al 1883 fu scritturato da Luigi Bellotti Bon come ‘caratterista’ e ‘promiscuo’ in una fra le più importanti compagnie primarie del secondo Ottocento. Novelli fece tesoro dell’arte del suo capocomico, considerato il ‘principe dei brillanti’ e un soggettista eccezionale di grande naturalezza (Rasi, 1905, I, pp. 333, 338).
Le doti d’improvvisatore del giovane attore si arricchirono così, secondo la migliore tradizione ottocentesca, di uno spiccato senso drammaturgico messo al servizio del lavoro di creazione del personaggio. Per questo spesso manipolava i testi interpretati ma sempre con sicuro effetto sui pubblici di tutto il mondo e nel rispetto della logica delle situazioni drammaturgiche. Proverbiali furono in questo senso le sue interpretazioni di Shylock e Papà Lebonnard, disapprovate da critici fedeli alle ragioni del testo come Silvio D’Amico, che lo considerava, infatti, «dicitore scorretto ma incomparabilmente spontaneo» (v. L’Idea nazionale, 30 novembre 1914).
Conquistati i primi ruoli iniziò i suoi famosi dialoghi con la platea accumulando un repertorio di monologhi che ripropose nel corso di tutta la sua lunga carriera. Il più celebre fu Condensiamo di Gandolin (Luigi Arnaldo Vassallo): un racconto di un triangolo adulterino in cui suscitava l’entusiasmo degli astanti imitando la maniera di recitare di tutti i più grandi attori della sua epoca (da Ernesto Rossi a Tommaso Salvini, da Cesare Rossi a Edoardo Ferravilla, da Virginia Marini a Eleonora Duse). La straordinaria duttilità espressiva unita a un grande talento di soggettista, coltivato nella lunga pratica farsesca cui il suo ruolo l’obbligava, fecero di Novelli, anche se interpretava volentieri le parti drammatiche, uno fra gli attori comici più cari al pubblico del tempo. Dopo una fortunata tournée in Spagna, lasciò Bellotti Bon allettato dalla ragguardevole paga di 8000 lire e quattro serate a uso comico (50% dell’incasso netto della serata) che gli offriva la compagnia Nazionale diretta dal vecchio Paolo Ferrari. Debuttò, festeggiatissimo, nel 1884 con Michele Perrin, e con una farsa di Giovanni Toselli scritta per Ferravilla ma da Novelli radicalmente rimaneggiata e intitolata Le distrazioni del signor Antenore: due capisaldi del suo repertorio sino alla fine della carriera. Tuttavia nella compagnia Nazionale l’attore si sentiva costretto dai limiti imposti dai ruoli e dalla sua condizione di scritturato.
Dopo una serie d’incomprensioni e la mancata replica di Gonzadillo, la sua prima prova di autore ricavata dal romanzo Il cuoco del re di Manuel Fernández y González al teatro Valle che l’acclamava, l’attore pagò una salatissima penale di 12.000 franchi e lasciò la compagnia. Così, nella Quaresima del 1885, seppure tra grandi difficoltà economiche, iniziò una brillante carriera di capocomico che solo la morte interruppe.
Innamorato e profondo conoscitore di ogni aspetto dell’arte comica, voleva portare a compimento la propria vocazione di ‘promiscuo’ ed esplorare anche i ruoli drammatici. Già nel primo anno, con stupore generale, annunciò in cartellone la Morte civile di Paolo Giacometti affrontando il confronto con l’indimenticata interpretazione di Tommaso Salvini. Il pubblico restò interdetto e Novelli assai deluso. Con tenacia e fatica, a volte anche a scapito dell’incasso, conquistò al suo repertorio di farse, pochade, commedie e mélo: Otello, Amleto, Re Lear, Shylock (adattamento del Mercante di Venezia di Luigi Suñer e dello stesso Novelli), Luigi XI di Casimir Delavigne, Nerone di Pietro Cossa, il fosco Don Pietro Caruso di Roberto Bracco, il patetico Alessandro Fara di Alleluja di Marco Praga, Kuzovin di Pane altrui di Ivan Turgenev, Osvald degli Spettri, e fu anche il primo interprete italiano di Ekdal dell’Anitra selvatica, Kean di Dumas père e il prediletto buffone Yorik del Dramma nuovo di Manuel Tamayo y Baus. La consacrazione definitiva come attore drammatico venne tuttavia da un’abile gestione artistica ed economica delle tournées all’estero.
Da capocomico seguì l’esempio di Adelaide Ristori e prese la strada dei lunghi viaggi oltre confine, che non solo gli garantirono l’agiatezza (testimoniata dal lusso antiquario delle sue case di Venezia e poi di Roma e dalle ville di Rimini e Bertinoro), ma gli permisero anche di legittimare la sua vocazione drammatica. Con regolarità si recò all’estero: da Istanbul a Parigi, da Berlino a Odessa, da Vienna al Cairo, da Madrid a Budapest e più volte traversò l’oceano verso le Americhe. La capacità di comunicare anche parlando una lingua incompresa era tale – riferisce un testimone – che i pubblici di tutte le platee ridevano e applaudivano esattamente alle stesse frasi. Gli spettatori dapprima smarriti «seguivano a mano a mano l’azione, e poi cominciava l’interessamento, poi il diletto, l’entusiasmo. Dappertutto, sempre» (Liberati, 1930, p. 198).
A Parigi nel 1898, suscitò un’ammirazione generale. Francisque Sarcey, nemico delle incontinenze naturaliste, definì il suo Otello un «muso nero orribilmente geloso» (Temps, 29 dicembre 1898), ma, ammirato dalle doti mimiche dell’attore, lo imparentò con Ristori, Salvini, Rossi e Duse; Gustave Larroumet, dal canto suo, scrisse: «[…] ha allargato la nozione dell’arte drammatica: dopo Salvini e Rossi ci ha presentato la recitazione italiana sotto un aspetto nuovo, ci lascia un prezioso termine di paragone» (Le Figaro, 19 giugno 1898). In Italia Jarro (Giulio Piccini) per primo aveva dedicato all’attore uno studio, laudativo ma piuttosto ironico e pieno di riserve sulle sue interpretazioni ‘serie’ (1887, pp. 1-42) ma furono prima Edoardo Boutet (in La Tribuna illustrata, 1893, n. 4, pp. 44 ss.) e poi Bettoli (1899, pp. 342-354) a difendere e promuovere i registri drammatici di Novelli contro l’autorità di Ristori che lo aveva accusato di far muovere e parlare Otello e Nerone «come il droghiere di faccia» (Cervi, 1900, p. 129) e il disagio di Salvini (Ricordi, aneddoti ed impressioni, Milano 1895, p. 392) che lo lodava per la versatilità e l’intelligenza dei «caratteri seri ove giuocano le commoventi passioni», ma raccomandava di non abusarne. Più che di limiti espressivi si trattava del definitivo sfiorire dei codici interpretativi romantici derivati dalla lezione di Gustavo Modena, lo stile di Novelli pur formatosi in essi portava tuttavia a compimento estremo la pratica del ‘promiscuo’ discendente dal ‘generico da parrucca’.
Contaminava, in una logica tutta interna alla tradizione attoriale, le parti tragiche con il realismo fisiognomico dei ‘mezzi caratteri’ (le macchiette) che ben si adattavano a una drammaturgia solidamente ancorata al bozzetto di costume e in bilico tra naturalismo e mélo. Il suo esempio non fu tuttavia seguito. I tempi erano cambiati e sulla scena non solo si affacciò una nuova drammaturgia, ma il sistema produttivo ottocentesco delle compagnie capocomicali dovette cedere alla logica imprenditoriale dell’industria dello spettacolo alleata con la neonata Società degli autori.
La risposta di Novelli fu la creazione di un teatro d’arte ispirato dalla Comédie française. Nacque così il 1° novembre 1900 la Casa di Goldoni al teatro Valle di Roma in cui la sua compagnia sarebbe dovuta diventare una semistabile dedicata alla rappresentazione dei testi italiani. Tra un coro generale di lodi l’impresa ebbe vita brevissima reggendosi unicamente sul capitale dell’attore e sugli incassi. Il pubblico dopo i primi mesi, annoiato dai classici goldoniani, anche se presentati con un’insolita cura per la messa in scena, disertò il teatro, e Novelli dovette tornare al suo solito e remunerativo repertorio per arginare le perdite. Nessun sostegno venne dallo Stato e l’attore abbandonò il progetto e riprese la sua vita nomade con il sentimento che quello fosse «il principio della fine» (Giannini Novelli, 1993, p. 78). Continuò nella gestione accorta e fortunata della sua compagnia alternando alle piazze italiane regolari tournées all’estero. Il repertorio restò solidamente incardinato sui suoi personaggi più riusciti (Michele Perrin, Yorik, Vouillard, Alessandro Fara, Geronte, il cardinal Lambertini, Papà Lebonnard, Tromboni, Chaponet, Corrado, Shylock, Otello, Kean) interpolati da testi di nuovi autori: Franco Liberati, Renato Simoni, Nino Martoglio, Carlo Bertolazzi, Catulle Mendès, Sem Benelli, AlfredoTestoni. Persino Gabriele D’Annunzio nel 1906 dichiarò alla stampa di scrivere per Novelli un dramma intitolato I pretendenti, mai portato a termine. Malgrado l’apertura al nuovo teatro ‘idealista’, come veniva allora chiamato, la sensibilità di Novelli restò legata alla tradizione ottocentesca: «Io l’arte teatrale l’amo alla antica maniera» (Dimmi che trucco fai e ti dirò chi sei, in La Lettura, XIII [1913], 4, p. 311) e forse per questo teneva, ovunque andasse, un piccolo Arlecchino legato alla testata del letto.
Stanco, con una vista sempre più debole, tormentato da un catarro bronchiale cronico, nel 1910 annunciò il suo ritiro dalle scene al termine di due anni e dichiarò di volersi dedicare alla creazione di una scuola internazionale di recitazione a Parma (v. G. Corvetto, in La Stampa, rispett. 23 febbraio e 12 aprile 1910). Il progetto non ebbe seguito e la vocazione pedagogica di Novelli ebbe come unico contesto la sua compagnia in cui si formarono attori come Teresa Mariani, Ruggero Ruggeri, Annibale Betrone, Antonio Gandusio, Ernesto Sabbatini e Nera Grossa Carini che insegnò a sua volta in quell’Accademia d’arte drammatica voluta da Silvio D’Amico proprio per creare un attore interprete alternativo alle intemperanze mattatoriali della generazione di Novelli e Zacconi.
Il 19 febbraio 1915, al teatro Dal Verme di Milano, Novelli diede la sua serata d’addio alle scene e andò a dirigere la compagnia FERT con Lyda Borelli e Romano Calò. Ma pochi mesi dopo, allo scoppio della guerra, aderì con entusiasmo al teatro del soldato e tornò a recitare per non abbandonare più le scene. Da vero figlio d’arte scrisse: «Non è forse il teatro il mio riposo?» (Foglietti sparsi. .., cit., 1919, p. 216).
Colto da un malore durante una recita del Cardinal Lambertini a Benevento, riuscì a portare a termine lo spettacolo. La sorte non gli consentì di morire, come avrebbe voluto, sulle tavole del palcoscenico.
Trasportato a Napoli, dove aveva assunto la direzione del teatro Sannazzaro, morì nella sua casa il 29 gennaio 1919 dopo una breve agonia.
Le vicende familiari dell’attore furono felici e tormentate al tempo stesso. Si separò dalla prima moglie Lina Marazzi nel 1893 e convisse per 17 anni con Olga Giannini, la prima donna di tutte le sue compagnie a partire dal 1894. Da lei ebbe due figli, Alessandro (1896) ed Edna (1906), ma poté sposarla solo dopo la morte della moglie nel 1910. I figli naturali assunsero il nome paterno grazie a un r. decreto del 1912. Olga Giannini benché giovane e stimata attrice si ritirò dalle scene insieme con il marito. Gli sopravvisse a lungo: morì nel 1961 nella casa di riposo per artisti drammatici di Bologna lasciando una delicata autobiografia dedicata alla sua vita con Novelli.
Fu insignito cavaliere dell’ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro e con la Legion d’onore della Repubblica francese.
Filmografia: 1910:Re Lear (regia di Gerolamo Lo Savio), Luigi XI (Ugo Falena); 1911-12:La morte civile, Il mercante di Venezia, Ritratto dell’amata (Lo Savio); 1914: La gerla di papà Martin, Michele Perrin, Il leone di S. Marco (Eleuterio Rodolfi); 1915: Per la patria (Falena), Il più grande amore, Fiorenza mia! (Yambo); 1917:Automartirio (Ivo Illuminati), Morte che assolve (Alberto Carlo Lolli).
Scritti: Novelle di Novelli, in La Tribuna illustrata, 1893, n. 6, pp. 165 s.; Lettera a Camillo Antona Traversi (Rosario, 14 novembre 1894), in Fanfulla della domenica, 20 gennaio 1895; Bebè Novelli a papà Fortis, in Italia al Plata (Buenos Aires), 1° giugno 1897.
Fonti e Bibl.: G. Piccini, Attori, cantanti, acrobati. Memorie umoristiche di Jarro, Firenze 1887, pp. 1-42; Id., Sul palcoscenico e in platea: ricordi critici e umoristici, Firenze 1893, pp. 235-249; L. Fortis, Nota drammatica, in La Vita italiana, n.s., III (1897), 18; V. Andrei, Gli attori italiani da Gustavo Modena a E. N., Firenze 1899, pp. 300-324; Yambo, E. N.: album, con E. Boutet - Gandolin, Roma 1899; P. Bettoli, Teatro contemporaneo: E. N., in Emporium, 1899, n. 53 (maggio), pp. 342-354; E. N., in Le cronache teatrali di E. Boutet (Caramba), II (1900), 22-23, pp. 34-55; A. Cervi, Tre artisti: Emanuel, Zacconi, N., Bologna 1900, pp. 89-142; F. Liberati, E. N., biografia aneddotica, Palermo, s.d. [ma 1900]; L. Rasi, I comici italiani: biografia, bibliografia, iconografia, I-II, Firenze 1905; E. N., in La Lettura, XV (1915), n. 4, pp. 347-355; S. D’Amico, Maschere. Note sull’interpretazione scenica, Milano 1921, p. 63; F. Liberati, Vent’anni di vita di palcoscenico, Roma 1930, ad ind.; Enc. biografica e bibliogr. «Italiana», N. Leonelli, Attori tragici attori comici, Roma 1944, II, pp. 143-150; Q. Galli,Un capocomico nell’Italia borghese (da lettere inedite di E. N.), Napoli 1979; G. Pardieri, E. N., Bologna 1960; O. Giannini Novelli, La mia vita con E. N., Roma 1993; C. Palombi, E. N. Storia di una vocazione: la sua arte il suo teatro, Rimini 1994; S. D’Amico, Cronache 1914-1955, I,1, Palermo 2001, ad indicem.