COLLOREDO, Ermes
Ottavo dei nove figli d'Orazio di Curzio e di Lucia di Ermes di Porcia, nacque il 28 marzo 1622, nell'antico castello di Colloredo di Monte Albano (Udine).
Rimasto orfano, in tenerissima età, della madre - "murí me mari", dirà con accorato struggimento, la "piardei popant" -, il C. ebbe nella seconda moglie del padre, la contessa Claudia Polcenigo, "une crudel madrigne" ché, con lui arcigna ed ostile, di sovente lo rimbrottava mostrandosi, inoltre, talvolta manesca. Scontroso e riottoso, il fanciullo ricambiava le sgridate e le busse con disobbedienze e dispetti; contrapponeva, con precoce indurimento della propria indole, l'inasprita determinazione a non sottostare. Meno negativo il rapporto col padre (era uomo non privo di cultura; in gioventù s'era distinto a Roma e si diceva che il matrimonio l'aveva sottratto ad una, promettente carriera ecclesiastica), al quale il giovane dovette i primi rudimenti della istruzione ricevuta.
Quindicenne, assieme ai fratelli Camillo (1612-1685) e Curzio (1619-1662) e al cugino, di lui ben più vecchio, Ciro di Pers (figlio di Ginevra, una sorella del padre), si reca a Firenze, al servizio dei Medici.
Già era stato alle loro dipendenze un prozio per parte di padre del C., Marzio Colloredo, governatore di Siena nel 1590-1591, ed ora aveva a corte una posizione di tutto rilievo un altro Colloredo, Fabrizio (1576-1645; da non confondere, però, col Fabrizio fratello del padre del C. che trascorre la sua esistenza sempre a Colloredo), il quale da semplice paggio era via via salito di grado sino a divenire, nel 1622-1627, governatore di Siena e quindi consigliere e capo maggiordomo.È soprattutto sulla protezione di questi che il C. e i suoi fratelli confidano. Dapprima paggio il C. affina la sua cultura, ingentilisce i propri tratti, accosta personalità importanti, ma la sua carriera è ben lungi dal corrispondere alle sue aspettative se, il 2 dic. 1642, supplica Fabrizio, quale "maggiordomo maggiore e del Consiglio di Stato di Sua Altezza", di "voler adoprare la sua autorità et benignità" per farlo - argomento questo "che più volte li ho acennato essere in ciò la mia volontà comportandolo anco l'età mia" - una buona volta "uscir di paggio". Petizione che ottiene qualche effetto se il 28 giugno 1643 avvisa che è a Cortona avendo "Sua Altezza... deliberato di mandare... me alla sua armata per imparare a metter in pratica la fortificazione" e che viene, sia pure non subito, appagata se, il 14 maggio 1644, ringrazia da Gorizzo Fabrizio della finalmente conseguita "carica di... cameraro" di "Sua Altezza".
Certo che, anche se il C. diventa, alla fine, gentiluomo di camera del granduca, il periodo, d'almeno sette anni, trascorso a Firenze fu per lui amaro: non riesce a farsi degli amici tra i cortigiani, i Fiorentini nell'assieme gli paiono gretti e meschini. Stando, anzi, ad una sua satira, avrebbe vissuto giorni insopportabili in un ambiente soffocante, e, quel ch'è, per lui, peggio, taccagno. Frugalissimi gli stessi banchetti: appena un quarto di cappone da dividere tra dieci persone il "plat real"; una frittata di mezzo uovo il "plat imperial". E la vita gli era resa ancor più agra da Fabrizio, il lontano parente in cui aveva tanto sperato, ché lo trattava sgarbatamente, persino dava l'impressione d'ostacolarlo; è questi, infatti, con tutta probabilità, quel "tale" che, come asserisce Ciro di Pers, "non ha mai veduto volentieri a quel servigio quei che erano seco assai congiunti".
Ben volentieri, perciò, il C. lascia la corte medicea e raggiunge in Germania il fratello Giovan Battista per militare, come capitano, nel reggimento di cui quello è a capo. Ma, col, finire della guerra dei Trent'anni, il C., imitando il fratello, preferisce offrire i suoi servigi alla Serenissima. E, il 28 marzo 1648, il Senato veneto delibera che, "restando vacante la compagnia di corazze oltramontane" dell'"absente" Pietro Voghi (altrove il cognome è Vaglei e Volgei), gli subentri come capitano il C., "soggetto d'intiera attitudine e sufficienza".
Egli deve, si precisa il 31 marzo, "recudare la medesima compagnia", arruolando, pel momento, "nella piazza del Lido" soldati "dodeci corazza ben montati armati di spada e pistole... oltramontani". Ma come arruolatore il C. non ottiene grandi risultati se, nel gennaio del 1649, il provveditore generale a Palma Girolamo Dolfin trova le sue "corazze" in pessime condizioni. Egli, d'altro canto, lamenta che "mai sia stato somministrato né danaro né biada né fieno". Né, quando, all'inizio d'aprile, si sposta con la compagnia - di sessantotto elementi in tutto: il C., che ne è il capitano, il luogotenente, l'alfiere e sessantacinque soldati - a Udine, il luogotenente del Friuli Francesco Grimani si mostra soddisfatto. "Boni" gli "huomeni", ma quelli "a cavallo sono così mal montati che si rendono inhabili a prestar alcun servitio". I loro cavalli sono, infatti, talmente "invechiati et consumatì" che "a niente vagliono". Per di più Grimani rifiuta d'"accettar" i cavalli presentati dal C. "per rimontar" gli appiedati. Richiama, perciò, il C. al dovere di "rimediar con la rimessa de boni cavalli"; sono in ballo il "suo honor e decoro". Irritato dal rimprovero il C. replica seccamente che egli è "creditor di molte paghe" e che solo "quando ne habbi la soddisfatione, procurerà di migliorar il servitio". Esigenza che il Senato, il 19 maggio, ritiene legittima. Quindi, con gli uomini finalmente a cavallo, il C. si trasferisce a Verona, dove, però, nella "rassegna" del 3 novembre la compagnia risulta ridotta a soli cinquantatré effettivi; quanto al C., aveva avuta, ancora il 13 ottobre, "licenza" dal Senato di "portarsi in Friul alla sua casa per mese uno per potersi curar delle sue indispositioni" e non riprende servizio allo scadere, del permesso se, il 3 dicembre, il capitano di Verona Giovanni Grimani informa che non s'è "ancora veduto a questa sua compagnia". Certo, comunque, che, una volta rientrato, si ferma per poco; manca, infatti, nell'elenco delle truppe presenti a Verona nel marzo del 1650, la menzione delle sue "corazze oltramontane".
Impossibile, peraltro, fissare con precisione i suoi successivi spostamenti. Si può, solo asserire che milita, sempre a capo della compagnia di "corazze", per qualche anno in Dalmazia.
Un compito ingrato e frustrante: occorrerebbero, scrive il 27 marzo 1651 il provveditore generale della cavalleria in Dalmazia Andrea Donà, almeno quattrocento "corazze" per fronteggiare un attacco turco alle "piazze" e sono presenti solo tre compagnie, inclusa, evidentemente, pure quella del Colloredo. Appena centotré uomini in tutto, con "cavalli che difficilmente reggere possono al peso dell'armi et che certamente servire non possono" per più di "due hore" in un eventuale scontro "con l'inimico". La "cavalleria", aveva fatto presente Donà ancora il 3 nov. 1650, è "la più bella gioia" della Serenissima; ma questa deve sostenerla con la "forza del oro" e rivestirla "di ferro". Altrimenti - ed è ciò che di fatto avviene - "gli officiali et soldati... si dogliono ne' tormenti della povertà" (Arch. di Stato di Venezia, Senato. Lettere Dalmazia, filza 55). Comprensibile che il C. cerchi sollievo, rispetto ad una guerra svolta in condizioni tanto deprimenti, con assenze il più possibile prolungate. "Qua si è fatto - scrive da Firenze il 2 marzo 1651 - assai bel carnovale, essendovi stato festini, calci, mascherate, comedie, giostre ed altri trattenimenti. Io... godo salute", conclude; nel maggio, però, è costretto a fermarsi a Vicenza perché ammalato. Di nuovo in Dalmazia, "importanti interessi di sua casa" l'inducono a "rappresentare l'urgenza che tiene di conferirsi di qui", come registra la delibera senatoria del 21 ott. 1654. Data la "stagione avanzata" che blocca, di fatto, le operazioni, si decide che "resti consolato" ordinando al provveditore della cavalleria "di permettergli che possa venire... obligandolo al ritorno al termine di mesi due, onde, godendo questo respiro, incontri poi con alegro animo maggiormente l'occasione di ripigliare il... servitio". Così l'ultima attestazione diretta della milizia del C., laddove, invece, resta ulteriore traccia della "compagnia Colloreda", cui il Senato impone, il 14 marzo 1657, mentre è di stanza a Treviso, di fornire, al pari di altre, cinque soldati "ben montati" alla "compagnia di corazze Gonzaga" destinata in Dalmazia. Ed è dell'11 luglio 1658 la "parte" senatoria relativa al pagamento degli uomini "estratti" per tale compagnia.
Non più tardi, comunque, del 1658, il C. si ritira a vita privata nella prediletta villa che possedeva a Gorizzo, presso Codroipo. Lo accoglie allietante "il più bel brolo del Friul". Non ha voglia di competere con una turba d'agghindati cortigiani e nemmeno di continuare a battersi incitando coll'esempio i soldati. Al diavolo, quanti comandano e le loro smanie guerresche; il C. non desidera farsi accoppare "par lor". Meglio i campi biondi di grano, i filari di viti, i verdi prati. "Guriz flurit d'ogni color", nel sonoro tripudio del volo degli uccelli. Ed è finalmente con lui accondiscendente, anzi amante appassionata e devota Maddalena Salvadori, una giovane di Colloredo che tanto in passato l'ha fatto soffrire.
"Se ai amat, se ai penat, se ai suspirat, lu sa il cici, lu sa je, lu sa il mio cur". Già dura e inaccessibile, senza "pur mai una glozze di pietat", ora è sua proprietà, suo quotidiano godimento. Il delirio agitato dell'innamoramento - ha rischiato d'uscir di senno: "no torni in me" aveva confessato al conte Giuseppe della Porta - si placa in voluttuosa dolcezza, si stempera in rassicurante appagamento. È questa la felicità. Non sa e non vuole farne a meno. Purtroppo i parenti e gli amici non l'approvano, ritengono la relazione disdicevole, dannosa alle possibilità di carriera. Assordato dall'insistere di "parinc e amis", il C. accondiscende: contando sull'appoggio del conte Gian Ferdinando di Porcia, suo zio materno, al quale deve l'onorificenza imperiale di "cameriere delle chiavi d'oro", si reca, nell'aprile del 1659, alla corte viennese. Vi si trova malissimo: quello del cortigiano è un "mistir" insoffribile per lui che ha sempre professato d'essere "in ogni cont e pur e sclet". Occorre sopportare gente antipatica, mentire, simulare. Non c'è nemmeno la consolazione della mensa: cibo pessimo, vino scadente. Peggio, dunque, che a Firenze dove, se i pranzi valevano poco, erano almeno compensati dal trebbiano e da "l'odoroso vino montalcinese". Perché sobbarcarsi "chest mistir? nol sarà mai!". La corte è adatta ai "mincions", ai "stitics d'inzen", ai "durs d'intelet".
Nel dicembre '59, al più tardi, il C. è di nuovo a Gorizzo, dove l'attende l'amata che nel luglio gli ha dato un figlio, Alessandro, e dalla quale avrà - nel luglio del 1660 e nell'agosto del 1663 - anche due figlie, Annamaria e Caterina. Solo Alessandro, però, vivrà a lungo tant'e vero che risulta padrino di battesimo nel 1732 laddove le due sorelle è presumibile siano presto scomparse mancando ogni ulteriore indizio della loro presenza. Pure Maddalena, la madre, muore alla fine del 1663, l'anno stesso in cui il C. abbandona definitivamente ogni velleità di sistemazione viennese.
Certo non si macera a lungo nella sofferenza del ricordo. Ci sono altre donne, si succedono altri amori. Maria i cui seni sono come due scogli "d'alabastro", Betta che "farebbe montar in lusuria Senocrate", Elisa, Ardaura, Filli, Felicita, Eleonora, Alba. Nei nomi - veri e fittizi - delle sue composizioni si riflettono le sue intemperanti scorribande amorose; in una folla d'episodi - reali e inventati - riecheggia l'ingorda voracità erotica con cui abborda nobili e domestiche, gentildonne e contadine. Anche "la camarele" può avere begli occhi e "tetis blancis" da far "un muart resuscità". E, al contrario della "dame zentil", è facilmente agguantabile. Molti, dunque, gli incontri fugaci, tanti e rapidi gli amorazzi, agevoli incursioni di signorotto sfaccendato pronto a menarne vanto con gli amici cui si rivolge l'ammiccante licenziosità dei suoi versi. "La femine" - teorizza il C. - è un animale "senza reson", la cui caccia è piacevole. Non sempre, però, specie quando alla consistente semplicità degli amori anciliari (il C. è, allora, lieto d'aver abbandonato "lis pompis" per attaccarsi al grembiule d'"une zovin puarete") subentrano le coinvolgenti complicazioni di quelli blasonati. La passione può essere anche dolorosa. Il gaudente che, nel Ghiribizzo, ostenta la propria determinazione a non affannarsi protetto dalla corazza d'uno spicciolo epicureismo, si rivela, allora, fragile: gli basta, ballando, sentire "fredde" le mani della "bella donna", perché il cuore si raggeli sgomento. "Felicite si part", e "lasse Colored abandonat" nello sconforto deprimente della sua solitaria dimora "con doi toraz e quatri barbazuans". Nel ripetersi di grossolani espliciti corteggiamenti, nell'infittirsi di tresche sbrigative s'acuisce torturante l'amore del C. per Polimnia, un'ignota sdegnosa nobildonna udinese "biele tant" che appena il cielo le fa da "cuintripont". Il C. è di fronte a lei "cast amador" sussurrante "umil prejere". La canta e la ricanta con una passione disarmata che conosce le alterne modulazioni del desiderio e dello scoramento, ma ignora la gioia della realizzazione, né osa nemmeno sperarla. Morrebbe "content" per un suo "sol suspir", che la faccia apparire - per un attimo - "pietose". Sono accenti di sincera sofferenza che fanno escludere si tratti dell'artificiosa invenzione d'un impegnato esercizio letterario.
I versi esprimono un trasporto intenso che dura, tenace e graffiante, negli anni e persiste anche quando il C. - che pure ha ripetutamente dissuaso gli amici dal "mettisi", sposandosi, "il laz al cuel", che ha soprattutto schernito quale prossimo "becon cornut" l'uomo anziano che si marita con una giovane - s'accasa, nel 1670, con la ventiduenne Giulia figlia del conte Giacomo Savorgnan del ramo d'Osoppo e sorella dell'amico Girolamo.
Una figura stinta, questa della moglie, che il C. nomina, nei suoi versi, una sola volta e di sfuggita mentre rievoca una visita di Polimnia; anche se nulla autorizza a definire il matrimonio infelice, il fatto che il C. abbia proseguito nelle sue disinvolte abitudini induce a qualificarlo di convenienza. Forse suggerito dalla speranza d'un erede, non fu, però, allietato da figli sì che il C. lascerà alla moglie - la cui dote consisteva in beni a Terenzano - il proprio patrimonio. Certo le nozze non movimentano la vita del Colloredo.
Per quanto fermo nella rinuncia alla professione militare (litighino pure "Franze, Spagne e Imperator"; egli non ha alcuna intenzione di farsi "mazzà par loro), per quanto deciso a schivar ogni incombenza, il C. tuttavia non poté sottrarsi del tutto agli oneri insiti nella sua appartenenza alla più prestigiosa nobiltà friulana. Più formale che impegnativo, comunque, il titolo di sergente maggiore delle cernide conferitogli in riconoscimento delle sue prestazioni in Dalmazia. Ma, anche se pago del suo ("no brami robe", non vuole accrescere d'una sola "strice" il suo "poc terren"), anche se riluttante di fronte ai "titui d'onor", deve rappresentare, il 19 apr. 1660, i "nobili castellani" di Colloredo e Mels nel "magnifico parlamento", ove lo si ritrova, anche per conto dei Ragogna, nel 1684, 1688, 1692. Fu altresì - nel 1663, 1665, 1676, 1677, 1682, 1684 - "deputato della Patria". E, se, forse, non fu uno dei "tre degni oratori" inviati, nel 1673, "ai piedi della Serenissima" per implorare l'alleggerimento degli eccessivi carichi fiscali, sicuramente si recò a Venezia nel 1684 a "rappresentare, con ogni più umile ossequio, i gravami della Patria" derivanti dalle "lettere" imperiose del "magistrato dei feudi".
"Rattador", suo malgrado, nel 1676, esplode con un moto di fastidio contro il delicato incarico - comportava questo la fissazione, tramite un oculato controllo delle denunce, della "ratta" relativa alla ripartizione del contributo imposto dalla Repubblica - che travalica investendo tutto ciò che sappia d'amministrazione e di responsabilità pubbliche: manda a "farsi squartà... rattadors... deputaz... ciapituladors" e persino "lu magnific parlament". C'è il disdegno del nobilotto per l'applicazione faticosa, l'insofferenza del gentiluomo di campagna per le scartoffie delle pratiche e le verifiche contabili in cui s'esprimono, anche, la riluttanza d'un'aristocrazia d'origine feudale un tempo orgogliosamente autonoma a lasciarsi inquadrare in compiti di dettaglio laddove la direzione politica effettiva sta in altre mani, la sua riottosità ad adattarsi a mansioni che ritiene modeste. A queste il C. contrappone l'ozio campestre: preferisce le chiacchiere con gli amici, la caccia, i facili amori, il cullante abbandono alle rievocazioni della memoria, le letture placidamente assaporate, i versi estemporanei. Sa bene il latino, non è ignaro di greco, ha dimestichezza col francese; nozze, monacazioni, liti giudiziarie, viaggi, banchetti, autorità in arrivo o in partenza, festività, doni, inviti bastano a sollecitare il suo estroso "umor di poetà" in un friulano tutto sommato accessibile e contiguo all'italiano. Non è certo uomo capace d'assidui studi, propenso a scavanti riflessioni; non ha mai avuto l'intenzione "di sudà sore i libris" per acquistare "fame di leterat".
Ciò non toglie che il C. si sia affermato nel suo ambiente proprio come letterato, ne sia stato ben presto considerato il portavoce: campione dei "pregi" del "patri... favellar", cantore nel "carno idioma" l'esalta Enrico Altan (nell'introduzione alla scelta delle Poesie del C., a cura di P. Zorutti, I, Udine 1828, p. XXIII); ha il "mert sublim" d'una produzione ricca di "facondie e d'armonie" sì che il suo nome "par dut" s'estende, attesta con enfasi il verseggiatore udinese Andrea Brunelleschi (l'elogio dei C. di questo sarà pubblicato nell'opuscolo per nozze Colloredo Mels-Michieli Zignani, Udine 1882).
Né si tratta solo d'apprezzamento per il decollo poetico del friulano, ma anche di riconoscimento dei contenuti. Il C. - anche se talvolta vuol sembrare tale - non è poeta ispido e solitario, ma socialmente connotato, persino determinato. Situabile in una trama di rapporti con un identificabile entourage nobiliare la sua vena che sovente - nei suoi esiti più smaccatamente burleschi e ridanciani - è d'intrattenimento, mira agli applausi consenzienti d'una cerchia d'amici, si riscalda e si ravviva in sintonia colle loro fragorose risate, al limite suppone e promuove la loro sguaiataggine. È il caso, ad esempio, del sonetto grassoccio nel quale scopre che il "pet" è "fradi uterin de la coree". Persino i suoi momentanei sdegni perché "l'onor" pare consistere "in te richiezze", perché i "dottoraz" sono incompetenti, perché l'"avocat e il nodar fazin conzure" a danno dei "puar om" sono rappresentativi dell'avversione neofeudale per le professioni borghesi motivate dal guadagno. Solo apparente la loro apertura, che subito si chiude di fronte a "il vilan": questo è ladro, e, perciò, l'amato o brolo" va da lui salvaguardato; nel contempo la "solitudine tranquile" di cui il poeta gode abbisogna del "sudor o del villico, è garantita dalla sua "gran fadie".
Placidi scorrono intanto - anche se con qualche scarto d'umore, anche se con qualche sprazzo bizzoso - gli anni a Gorizzo, che il C. lascia talvolta per brevi visite al castello natale, per rapide puntate a Gorizia (ove aveva nel conte Antonio Rabatta un carissimo amico di cui desiderò, ad un certo punto, in isposa la sorella Maddalena), per fugaci apparizioni ad Udine per le recite teatrali, non senza spingersi sino a Venezia per il carnevale, nei cui "bagorz" sciupa "scuz e zechins".
Movimenti di poco conto, comunque, ché a Gorizzo gli sembra d'aver tutto: sente il canto degli uccelli che si spande "par dut la vile"; segue il trascorrere delle stagioni, ognuna con la sua particolare bellezza; amoreggia e, insieme, verseggia essendo la poesia sorella "di amor", con questo identificandosi il suo "genio"; ha dei libri che gli fanno compagnia; frequenti le visite degli amici più fidi.
Presso il C. inoltre soggiorna a lungo il marinista siciliano Bartolomeo Varisano Grimaldi, schermidore saltimbanco e parassita, che con lazzi e buffonerie ricambia l'ospitalità. Volentieri si reca a trovarli l'austero Ciro di Pers accolto nel parco ai bordi della fontana "Ipocrene". Una cornice arcadica, per lo strano terzetto - il poeta seriosamente classicheggiante, l'istrione scroccone e il C. - avvinto dal comune amore per la poesia. Diversi, ovviamente, i risultati: confinabili nella strabocchevole paccottiglia del tempo i versi del siciliano; esprimenti un'esplicita ambizione colta riconosciuta dai contemporanei e valorizzata dalle successive sistemazioni critiche quelli del cugino; meritevoli di una considerazione a parte quelli del C. e senz'altro riconducibili - nel loro oscillare tra modi popolareschi e linguaggio tecnico (specie militare funzionale alla strategia dell'approccio amoroso essendo, per il C., la donna o plazzefuart" da espugnare) nello sviluppo analitico della metafora, nel ricorso all'enumerazione, nell'indulgere al tema della caducità del tempo, nella stessa supposizione d'un pubblico da divertire - ad una temperie barocca. Si tratta, nel caso del C., d'una produzione quantitativamente non esigua - oltre duecento composizioni - in un friulano che a D'Annunzio è parso sorgivamente aspro e aguzzo (la sbrigativa impressione dannunziana è riportata in Ce fastu?, IV [1928], p. 178) laddove Pasolini lo giudicherà annacquato sin troppo d'italiano e, come tale, addomesticato.
Privo di serietà sistematica, incapace d'impegno continuato, i versi costituiscono per il C. uno sfogo cui affidare smanie amorose, sboccate allusioni, salaci situazioni, sarcasmi sdegnati, malinconici ripiegamenti, risate sguaiate, pianti repentini, irriverenza e compunzione, allegria e nostalgia. Riflettono, insomma, più i sobbalzi dell'improvvisazione che la scavante fatica dell'approfondimento, la varietà della vita più che l'essenzialità del significato. Donde la loro saltuarietà capricciosa al posto della parola meditata e definitiva, la forzatura stridula dei toni più che il calibrato dosaggio, l'immediatezza effusiva più che lo strenuo esercizio stilistico. Tutti limiti che fortemente condizionano la personalità poetica del C.; un'ingombrante zavorra che impedisce il dirompente slancio della poesia. Troppe le cadute nel plateale, eccessiva la ricerca d'effetti, assenti la lima e l'autocontrollo, greve la comicità, caricati gli intenti satirici. Urge scartare gli entusiasmi municipali, opportuno ridimensionare le sopravvalutazioni dettate dal patriottismo locale. Il che non significa, tuttavia, misconoscimento del duttile lessico del C., della sua icastica capacità inventiva. Presenti nelle sue composizioni - specie nel veemente sonetto contro il clero corrotto "pies de l'Alcoràn" e nel dialogo (in prosa e suscettibile d'azione scenica) d'una beghina "cul so confessor" - note di particolare schiettezza, momenti di gagliarda semplicità, scatti rudemente efficaci e vivaci. Fiutabile altresì il sottofondo del disagio d'un esponente d'un ceto in crisi d'identità, con accenni di decomposizione. Lo scherzo, allora, è anche una fuga dalla consapevolezza, dall'autoriflessione; il riso, allora, è rumoroso e triviale per ricacciare il pianto. Lo stesso ostentatissimo programmatico rifiuto della corte - "val plui" la "ciara libertat" che la dipendenza dai "granc' signors" - è intorbidato da una sensazione d'impotenza, si traduce nel rattrappimento neghittoso, non solo del C. ma di tanti nobili friulani, in "villa". La vita semplice - "l'ort è bastant a preparà la mense" - è emarginazione che si camuffa quale scelta di libertà.
Il C. muore di litiasi - "senza legitima discendenza" si preoccupano di rilevare i figli del fratello Camillo il 21 sett. 1692 a Gorizzo, "dopo aver ricepputi", come attesta l'atto del decesso, i "sacramenti della penitenza" e della "comunione"; e, ne fa fede il relativo atto di sepoltura, viene seppellito nel castello paterno.
La morte interrompe la recita della vita: "ven la comedie a disgropà la muart" recita uno dei versi più felici del Colloredo. Ed in versi burleschi - quasi in ottemperanza al timbro faceto di tante sue rime - gli amici commentano la sua scomparsa. Ma non mancano espressioni d'intima commozione. Giusto Fontanini ha il nodo alla gola: "Ciro al è muart il cigno del Friul" esclama rivolgendosi a Ciro di Pers (il nipote omonimo del poeta da un pezzo scomparso). "Si mur Iust, al si mur anchie in Friul" replica questi.
Ad eccezione di due sonetti stampati in una raccolta di rime in onore del luogotenente Gabriele Marcello, nulla fu edito del C. (pur noto tra i letterati del tempo, pure letto dallo stesso imperatore Leopoldo I)in vita. Larga, in compenso, la circolazione manoscritta della sua opera anche se in veste sempre meno controllabile nello smarrimento progressivo degli autografi via via sostituiti da tarde trascrizioni. Tutt'altro che rispettosa, purtroppo, la vicenda editoriale iniziata coi due volumi delle Poesie... (Udine 1785)ove i puntini sostituiscono passi scabrosi, laddove la posteriore edizione, sempre in due volumi, curata da Pietro Zorutti e uscita a Udine nel 1828, è addirittura inquinata da sostituzioni e rifacimenti nonché aduggiata da inibizioni e scrupoli di censura assai più condizionanti rispetto alla prima. Seguono - mai sgombre da preoccupazioni per la licenziosità del contenuto - parziali pubblicazioni sino alla silloge, pur essa con problemi di "decenza", delle Più belle poesie... (Udine 1924) a cura di G. Cumin; v'è poi la drastica selezione contemplata in Nuova antologia della letteratura friulana, a cura di G. F. D'Aronco, Udine 1960, pp. 152-166, mentre un primo (e criticabile, ché non mancano immotivate espulsioni) avvio alla compiutezza non disgiunta da accertamenti filologici èofferto dall'Edizione critica dei sonetti del C., a cura di N. D'Aronco Pauluzzo, Udine 1971.
Fonti e Bibl.: Si rinvia anzitutto a N. D'Aronco Pauluzzo, Bibl. ... di E. di C., in Studi goriziani, XX (1956), pp. 37-57 e alle aggiunte desumibili dalla bibliografia collorediana presente nell'ediz. di centonove sonetti del C. curata dalla stessa alle pp. 36-37. Si segnala inoltre: Arch. di Stato di Venezia, Senato Terra, regg. 136, c.55; 138, cc.86, 144v; 139, c. 463v; 154. c.38v; 156, c. 32-5r; Ibid., Senato Mar, regg. 106, c. 50; 117, c. 238v; Ibid., Senato. Lettere Palma, filza 37, lett. nn. 13, 14, 21; Ibid., Senato. Lettere Friul, filza 37, lett. 5 apr. 1649; Ibid., Senato. Lettere Verona, filza 49, lett. n. 94 e allegati alle lett. nn. 96 e 112; Udine, Bibl. civica, ms. 3913, copia d'una lettera del C. del 6 nov. 1687 a Ciro di Pers (nipote del poeta omonimo); Ibid., ms. 84, Colloredo. Note genealogiche, non num., con cenno sulC.; Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr. cod. Cicogna 1317: Investiturerelative al feudo di Fratta, attinenti al fratello del C. Camillo e alla sua discendenza; G. F. Palladio, Historie... del Friuli... II, Udine 1660, p. 325; G. Capodagli, Udine illustrata..., Udine 1665, p. 317; B. Dotti, Delle rime..., Venezia 1689, p. 348; G. Valentinelli, Bibl. del Friuli..., Venezia 1861, nn. 362, 1264; A. Cittadella Vigodarzere, Colloredo, Padova 1863, pp. 11, 15; Goccioni-Bonaffons, Testi... friul. ... Rassegna, in Atti dell'Acc. ... di Udine, s. 2, IV (1875-78), p. 117; Id., Bibl. stor. friul..., Udine 1884-1899, nn. 519, 1783, 2063, 2064, 2121; P. Antonini, ... Waldsee... Mels... Colloredo..., Firenze 1877, pp. 115-116; lettera del C. a Ciro di Pers del 2 marzo 1651 in opuscolo per Nobilissimenozze Zucco di Cuccagna-Colloredo Mels, Udine 1884, pp. non num.; G. de Renaldis, Mem. stor..., del Patriarcato d'Aquileia..., Udine 1888, p. 457; G. Caprin, Pianure friulane..., Trieste 1892, pp. 418-419; P. Zorutti, Le poesie., a cura di B. Chiurlo, Udine 1911, pp. IX s.;L. Cicuta, Un poeta goriziano..., in Riv. della Soc. filol. friul., VII (1926), p. 8; una lirica del C. è riprodotta in A. Tarozzi, Diario dello studente friul., Udine 1928; G. B. Della Porta, Toponomastica... diUdine, Udine 1928, p. 63; C. Ermacora, Guidadi Udine..., Udine 1932, p. 245; G. di Prampero, Vita... dei... Prampero, Udine 1933, pp. 283-284; una lirica del C. in Perle dialettali..., a cura di F. Polvara, Milano 1944, p. 169; Piccola ant. della lett. friul., a cura di G. F. D'Aronco, Milano-Roma 1947, pp. 18-23; L. Ciceri, Dodicilett. ined. di E. di C., in Il Tesaur, II (1950), pp. 19-22; P. P. Pasolini, Introd. a Poesia dialett. delNovecento, a cura di M. Dell'Arco e dello stesso, Parma 1952, pp. CXI-CXII; N. Pauluzzo. Contributo allo studio su E. di C., in Il Friuli, maggio-ott. 1955; Id., Per una edizione critica... del C., in Il Tesaur, XII (1960), pp. 7-10; XIII (1961), pp. 8-11; G. Marchesini. Annali... di Sacile, Sacile 1957, p. 946; G. Francescato, Sul linguaggio... di C., in Ce fastu?, XXXIII-XXXV (1957-59), pp. 98-104; A. Fiorena Botta [R. Fioretti], La villa... di C., in Messaggeroveneto, 18 sett. 1959; G. Marchetti, Il Friuli..., Udine 1959, pp. 318-330 passim, 378, 729, 748; P. V. De Vito, Ciro di Pers..., in Atti dell'Acc. ... di Udine, s. 7, IV (1960-63), pp. 39 (errata la qualifica fantasiosa di "capitano delle navi venete", attribuita al C.), 107; D. Virgili, La flôr. Lett. lad. del Friuli, I-II, Udine 1968, ad vocem;F. Bonati Savorgnan d'Osoppo, Nove lett. ... di C., in Sot la nape, XXI (1969), 3, pp. 9-19; Id., Dall'archivio Bonati Savorgnan: lett. ... diC. ., in Atti e mem. dell'Acc. patavina di scienze, lett. e arti, LXXXII (1970-70), pt. 3, pp. 55-65; E. Santese, Le satire... di C. .., e La terra... ispiratrice del... C., in Messaggero del lunedì, 23 febbraio, 13 apr. 1970; G. Frau, Isonettidi C., ibid., 27 nov. 1972; G. P. Gri, E. di C. e il barocco, in Ce fastu?, XLVIII-XLIX (1972-73), pp. 95-117; Mezzo secolo di cultura friulana. Indice delle pubblicazioni d. Soc. filol. friulana..., a cura di L. Peressi, Udine 1974, advocem; G. Benzoni, Aspetti della cultura... nellasoc. ven. del '5-'600..., in Arch. veneto, s. 5, CXLIII (1977), pp. 88, 91 n. 14, 158; E. Siciliano, Vita di Pasolini, Milano 1978, p. 67; T. Miotti, Castelli del Friuli, II, Udine s. d. [ma 1979], p. 139 n. 14; Enc. monografica del FriuliVenezia Giulia, III, 2, Udine 1979, pp. 1245-1246; G. Benzoni, I "frutti dell'armi"..., Roma 1980, p. 105; G. Comelli, L'arte della stampa nelFriuli..., Udine 1980, pp. 116, 129, 140 s.; P. Puliatti, Rime attrib. al Tassoni, in Studi secenteschi, XXI (1980), p. 15; R. Pallucchini, La pittura ven. del Seicento, Milano 1981, p. 308; G. Mazzatinti, Inv. dei mss. delle Bibl. d'Italia, XLIX, p. 174; LXXVIII, pp. 5, 59-62, 67, 120, 143.