Ermeneutica e pensiero debole
Nella sua versione più diffusa a livello mondiale, l’ermeneutica è una tendenza di pensiero che parla soprattutto in tedesco, sebbene poi si sia trasformata in una sorta di koinè o di stile filosofico trasversale alle diverse correnti e luoghi del pensiero contemporaneo, uniti nel presentare se stessi, se non come una ‘teoria’, almeno come una pratica dell’interpretazione. Eppure, a ben ascoltare le testimonianze storiche, si avrebbe la sorpresa di sentire parlare l’ermeneutica anche in italiano. È vero che nel pensiero filosofico tedesco tra il 18° e il 19° sec. si era già affermata una vera e propria tradizione di studi sull’ermeneutica e di ermeneutica, nella linea che va da Friedrich Daniel Ernst Schleiermacher a Wilhelm Dilthey e a Max Weber, e che, attraverso la svolta ‘ontologica’ di Martin Heidegger, arriverà sino a Hans Georg Gadamer; ed è anche vero che nella storia della filosofia italiana la riflessione ermeneutica non era stata sviluppata in maniera altrettanto sistematica. Eppure, durante gli anni Cinquanta del Novecento sono proprio due pensatori italiani – ancor prima che si sviluppasse l’opera di Gadamer in Germania – a mettere a fuoco l’interpretazione come questione filosofica fondamentale, benché a partire da motivazioni tra loro alquanto diverse: Emilio Betti sulla base di istanze giuridico-politiche e Luigi Pareyson sulla base di un’esigenza squisitamente personalistica.
Emilio Betti (1890-1968) coniugò i suoi interessi giuridici e storici con un intenso lavoro all’interno delle commissioni ministeriali dello Stato fascista (di cui era stato sostenitore sin dall’inizio) per la redazione del Codice civile del 1942. Nel 1944 fu arrestato su decisione del Comitato di liberazione nazionale e sottoposto al processo di epurazione, nel quale però venne assolto da ogni imputazione. Le ricerche sul diritto romano e la pratica giuridica costituirono la base dei suoi successivi lavori, tra cui l’Interpretazione della legge e degli atti giuridici. Teoria generale e dogmatica (1949) e la Teoria generale delle obbligazioni (1953-1955), i quali costituirono l’alveo da cui sarebbe sorta la sua Teoria generale della interpretazione, pubblicata nel 1955 (tradotta poi in tedesco in forma sintetica nel 1962, con il titolo Die Hermeneutik als allgemeine Methodik der Geisteswissenschaften) e punto di riferimento obbligato per la storia dell’ermeneutica, non solo italiana. L’opera era nata da un confronto critico con la tradizione filosofica e soprattutto con la filosofia tedesca contemporanea, interlocutore privilegiato del pensiero di Betti, il quale paradossalmente sarà riconosciuto in Italia solo molto tempo dopo, proprio grazie al suo dibattito con Gadamer. Eppure l’ermeneutica era, secondo Betti, una delle più importanti acquisizioni della tradizione filosofica italiana, a partire dalla filologia rinascimentale, ma soprattutto grazie al pensiero di Giambattista Vico. Sta di fatto che la cultura italiana ignorò per molti anni la sua teoria dell’interpretazione.
La proposta ermeneutica bettiana nasceva da un’istanza ‘oggettivistica’, secondo la quale l’interpretazione rappresenta il processo capace di «intendere» (Verstehen) la struttura interna di un oggetto, ossia il senso che un altro spirito ha posto in esso quando lo ha costituito:
Il rapporto tra l’uno e l’altro spirito ha sempre un carattere triadico: l’interprete è chiamato a intendere il senso, sia intenzionale, sia oggettivamente riconoscibile, cioè a comunicare con l’altrui spiritualità attraverso le forme rappresentative in cui essa si è oggettivata. Il comunicare tra i due non è mai diretto, ma sempre mediato da questo termine intermedio (E. Betti, Teoria generale della interpretazione, 1° vol., 1955, p. 71).
Di qui muove la critica di Betti ad alcune modalità riduttive di concepire il processo interpretativo, in particolare il comportamentismo, per il quale i processi spirituali dell’interpretare vengono tradotti in «fenomeni semantici», quindi come cause ed effetti categorizzabili allo stesso modo dei fenomeni naturali, e l’ermeneutica esistenziale, nella quale la distanza tra l’interpretante e l’interpretato viene dissolta nel processo stesso dell’interpretazione. Proprio per salvaguardare da un lato l’oggettività dell’interpretato senza ridurlo a un dato naturalistico, e dall’altro la sua spiritualità senza ridurla all’interiorità dell’interprete, occorre allora ridefinire «lo statuto epistemologico dell’intendere».
Diversamente dalle scienze naturali, nelle quali «il singolo fenomeno fisico» viene degradato «a semplice ‘caso’ di una categoria extratemporale», nell’epistemologia dell’intendere «l’individualità dell’oggettivazione ne’ suoi peculiari caratteri storici non vien mai perduta di vista» (E. Betti, Teoria generale della interpretazione, cit., 1° vol., p. 78). Salvaguardare il carattere spirituale delle forme da interpretare significa riconoscere in esse un’esperienza di interiorità analoga alla mia, quindi una comune appartenenza, o una «comune umanità quale presupposto dell’intendere» (p. 261), come già rilevava Karl Wilhelm von Humboldt. Ma questo riconoscimento non deve mai diventare sovrapposizione della mia esperienza a quella altrui:
l’interprete è chiamato a ricostruire e riprodurre l’altrui pensiero dal di dentro, come qualcosa che diventa proprio; ma, sebbene divenuto proprio, deve in pari tempo porselo contro siccome un che di oggettivo e di altro (p. 262).
Riguardo poi all’ermeneutica esistenziale, Betti individua all’origine l’errore fondamentale compiuto da Dilthey, e che da quest’ultimo passerà a Heidegger e a Gadamer: esso consiste nel «confondere il processo dell’intendere con lo stesso interiore sperimentare» (p. 242), di modo che l’incontro di uno spirito con un dato oggettivo, ossia l’intendere altri (Fremdverstehen), diventa un semplice «modo di intendere la vita» (Lebensverständnis) e di «intendere se stessi» (Sichverstehen, Selbstverstehen) in virtù del comune riferimento a una «realtà insieme vissuta» (p. 244).
Bisogna allora stabilire dei punti fermi, capaci di salvaguardare la distanza tra interpretante e interpretato. Si tratta di quattro ‘canoni’, due ex parte objecti e due ex parte subjecti:
1) il «canone dell’autonomia ermeneutica, o canone dell’immanenza del criterio ermeneutico», per il quale le forme da interpretare vanno intese nella loro autonomia, «secondo quello spirito che in esse si è oggettivato» (p. 305);
2) il «canone della totalità e coerenza della considerazione ermeneutica», che prescrive di tener sempre presente la correlazione «tra le parti […] e il tutto di cui fanno parte o a cui si concatenano» (pp. 307-08);
3) il «canone dell’attualità dell’intendere» (p. 314), secondo il quale il soggetto deve ripercorrere dentro di sé la procedura che ha portato l’altro soggetto a produrre le sue oggettivazioni, pena la caduta nell’idea assurda che si possa intendere un oggetto spirituale senza nessun apporto da parte dello spirito che lo intende. Questo terzo canone comporta una decisiva conseguenza: «solo uno spirito di pari livello e congenialmente disposto è in grado di intendere in modo adeguato lo spirito che gli parla» (p. 318).
4) Su questa congenialità si basa infine «il canone dell’adeguazione dell’intendere, o della retta corrispondenza o consonanza ermeneutica», in cui il soggetto deve sforzarsi di mettere la sua attualità in armonia con il messaggio che proviene dall’oggetto (pp. 319-20).
Ora è chiaro che si produce un’antinomia tra il canone dell’attualità dell’intendere e quello dell’autonomia dell’oggetto, ma solo tale antinomia impedisce la sovrapposizione del soggetto all’oggetto. In ciò consisterebbe la grande scoperta di Vico: il processo formativo con cui produciamo un oggetto e il processo ermeneutico con cui lo interpretiamo hanno movimenti esattamente opposti: nel primo caso si va dall’interiorità all’esteriorità, nel secondo si va dall’oggetto allo spirito interiore che l’ha realizzato. La scoperta vichiana pone le basi del vivere civile e del reciproco comprendersi tra gli uomini, grazie al presupposto della reciproca implicazione di libertà e verità, tale che il prodotto della libertà sia il vero, e viceversa il vero sia condizione dell’esercizio della libertà (verum e factum). In questo modo viene garantita secondo Betti la possibilità della «mente comune» (Vico) o della «comune umanità» (Humboldt) che ognuno di noi può scoprire sia nell’esercizio della sua libertà sia nelle oggettivazioni della libertà altrui.
Già questa sottolineatura permette di riconoscere una modalità peculiare (‘vichianamente’ italiana) della riflessione ermeneutica di Betti: il fatto cioè che l’intendere interpretativo non sia semplicemente una pratica, per quanto rilevante, della mente umana, ma costituisce la struttura stessa della mente. In analogia con la «metafisica della mente» di Vico, per Betti potremmo parlare di una vera e propria ‘ermeneutica della mente’, intendendo questo genitivo al tempo stesso in senso oggettivo e soggettivo. La conseguenza diretta di questa impostazione è la valenza pubblica, civile, dell’ermeneutica, dal momento che un esercizio prettamente soggettivo e libero, come l’interpretazione, si lega costitutivamente alle oggettivazioni degli altri soggetti (e cioè al vero come fatto). La mente interpreta in quanto appartiene a una umanità storica condivisa; e tale umanità storica può essere condivisa solo in quanto viene interpretata dai singoli protagonisti della comunità civile. Non a caso è l’interpretazione della legge come ‘atto giuridico’ dell’obbligazione il modello determinante per l’ermeneutica bettiana; e quest’ultima comporterà sempre una connotazione sociale come dimensione costitutiva delle pratiche interpretative.
Ma si tratta di una sottolineatura che non ha avuto l’attenzione e lo sviluppo che meritava in ambito filosofico, probabilmente per il fatto che proprio la successiva ermeneutica italiana prenderà le distanze da essa. Lo possiamo vedere chiaramente nella vicenda ermeneutica di Luigi Pareyson (1918-1991), dal quale partirà una tendenza che da Torino si disseminerà in diversi terminali della cultura filosofica italiana degli ultimi trent’anni (basti fare i nomi di Umberto Eco, Gianni Vattimo, Giuseppe Riconda, Sergio Givone, Mario Perniola, Ugo Perone, Claudio Ciancio), ma che troverà in campo ermeneutico la sua più sistematica applicazione (anche se forse non sempre in accordo con le intenzioni dello stesso Pareyson) nell’ermeneutica di Vattimo.
Pareyson sviluppa il suo pensiero ermeneutico a partire da una precisa ipotesi storico-teorica sull’esistenzialismo, visto da lui non come una «filosofia della crisi» (della ragione) quanto piuttosto come un fenomeno più circoscritto: in Italia come dissoluzione dell’attualismo, e in Germania come dissoluzione dello storicismo, due fenomeni sintetizzabili nella «dissoluzione dell’hegelismo» (L. Pareyson, Esistenza e persona, 1950, pp. 170-74). Questo comportava una retrodatazione dell’esistenzialismo già nel 19° sec., con Sören Kierkegaard e Ludwig A. Feuerbach, nei quali sarebbero presenti gli stessi temi che affronteranno poi Heidegger e Karl Jaspers: l’insuperabilità della finitudine e l’impossibilità di una mediazione con l’assoluto (Jaspers con Kierkegaard) e la riduzione dell’assoluto al darsi del finito (Heidegger con Feuerbach).
Così, il giovane Pareyson ritiene sì fecondo il pensiero esistenzialista (per la rinnovata attenzione all’irriducibilità del soggetto finito), ma a patto che esso venga sganciato dai suoi limiti hegeliani e innestato in una filosofia personalistica: il soggetto, pensato come simultaneità di autorelazione ed eterorelazione, è colui che scoprendo se stesso scopre l’altro da sé e viceversa. Se il rapporto tra soggetto ed essere è tutt’uno con il rapporto del soggetto con se stesso, la verità sarà sempre l’espressione irriducibile della singola persona; al tempo stesso, proprio perché è sempre personale, la verità non cadrà mai nel relativismo. Già in Esistenza e persona Pareyson afferma:
Tra le persone v’è comprensione sulla base comune dell’universalità della ragione, ma tale comprensione è sempre interpretazione personale, perché per l’uomo non v’è ragione se non esercitata personalmente. Sì che tutto ciò che l’uomo pensa è personale e universale, in quanto personalmente pensato secondo ragione, e personale è anche ogni filosofia (p. 277).
Così ogni persona va considerata, al tempo stesso, storica e metastorica: storica perché si sostanzia necessariamente nelle sue produzioni, metastorica perché non si riduce mai a tali produzioni («l’uomo ha storia, non è storia», p. 275). Inoltre la persona è unità di passività e attività: ogni suo apprendere è già un rispondere, ogni sua situazione è già tutt’uno con la sua decisione. Questa dualità inscindibile della persona – in cui svolge un ruolo determinante la lettura di Johann Gottlieb Fichte, come l’autore che impedisce, contro Georg Wilhelm Friedrich Hegel, ogni possibile risoluzione della differenza tra finito e infinito – costituisce la base della teoria estetica di Pareyson, e l’estetica sarà il nocciolo della sua teoria ermeneutica.
L’estetica è una vera e propria dimensione di ogni rapporto dell’uomo con la realtà, per il fatto che noi orientiamo sempre la nostra conoscenza e la nostra azione attraverso una facoltà ‘formativa’, realizzando attivamente delle forme – immagini e schemi – che interpretano le cose che recepiamo di volta in volta. Questa differenza tra le cose, che ci sono date, e le forme che sono prodotte da noi, fa sì che queste ultime possano sempre essere riviste («il formare è essenzialmente un tentare», L. Pareyson, Estetica. Teoria della formatività, 1954, p. 61), fino a quando non si giunga a una forma che sia capace di assolvere alla sua funzione (conoscitiva, pratica o artistica). Si fonda qui «il carattere interpretativo dell’operare umano»: «la conoscenza, riguardata come sintesi indisgiungibile di ricettività e attività, è precisamente, interpretazione» (p. 182).
Ciò che caratterizza in maniera specifica l’interpretazione è il fatto di mantenere sempre aperta la differenza, sia tra il soggetto e l’oggetto, sia tra la forma che viene prodotta e il suo produttore. È questo che agli occhi di Pareyson separa il suo personalismo ermeneutico-ontologico da ogni forma di spiritualismo idealistico (cfr. L. Pareyson, Verità e interpretazione, 1971, p. 10). Le produzioni umane, in quanto personali, sono espressioni di una totalità che tiene insieme le sue parti; ma ogni totalità – o «forma formante» (L. Pareyson, Estetica, cit., p. 6) – è al tempo stesso intrinsecamente storica, ossia non definitiva ma parte di un processo nel quale può essere sempre rivista e riformata:
Non ha senso né l’unicità né la definitività dell’interpretazione: posta l’interpretabilità, viene con ciò stesso posta la possibilità di infinite interpretazioni e d’un infinito processo di interpretazione: l’interpretazione è infinita nel suo numero e nel suo processo, è caratterizzata da un’infinità qualitativa e quantitativa (p. 186).
Ma proprio la dimensione storica di tutte le forme interpretative fa sì che esse siano sempre esposte al rischio dell’incomprensione, anzi, «carattere specifico dell’interpretazione è che essa mira alla comprensione solo attraverso un processo che rischia continuamente l’incomprensione» (p. 186). Eppure, sostiene Pareyson, è solo in questo processo in cui la verità si espone alla fallibilità, che possono delinearsi il soggetto e l’oggetto come due realtà indipendenti l’una dall’altra. Se l’oggetto non fosse interpretato ma totalmente realizzato ad arbitrio del soggetto, non vi sarebbe fallibilità, ma neanche la possibilità di distinguere l’oggetto dal soggetto. Proprio perché il soggetto riconosce se stesso come interpretante e l’oggetto come interpretato possiamo riconoscere la loro reciproca irriducibilità.
Dopo una serie di lavori dedicati all’estetica, Pareyson si concentra sul problema dell’ermeneutica e raccoglie una serie di saggi nel volume Verità e interpretazione. Il suo impegno teoretico si configura qui più esplicitamente nel compito, non solo strettamente filosofico, ma più ampiamente culturale e civile, di ridare al problema della verità il ruolo che gli spetta nella società contemporanea:
Questo libro rischia di essere impopolare, perché parla di verità in un momento in cui non si parla che di azione e di ragione, e più precisamente dell’azione senza verità, ch’è quella del prassismo, e della ragione senza verità, ch’è quella del tecnicismo (Verità e interpretazione, cit., p. 8).
Il punto di riferimento polemico di Pareyson è la riduzione ‘storicistica’ del concetto di verità, ma mentre lo storicismo classico considerava la storia come la manifestazione progressiva della verità, ora esso è visto come riduzione della verità a mera espressione del momento storico, e in definitiva come condizione di impossibilità della verità. In tal senso lo storicismo attuale coincide con quella «mentalità imperante», con quel «criterio più o meno consapevole delle valutazioni correnti di gran parte degli uomini di cultura» che rappresenta un vero e proprio idolum theatri (p. 15).
A questa tendenza culturale Pareyson oppone un’ontologia dell’inesauribile che riesca a coniugare il carattere ermeneutico del pensiero filosofico con la possibilità di esprimere delle verità metastoriche. La distinzione che egli fa valere è quella tra «un pensiero espressivo» che è mero prodotto storico e che è destinato a diventare inattuale, e un «pensiero rivelativo», che invece esprime una verità con cui è possibile confrontarsi in ogni momento della storia. Nel pensiero rivelativo la verità è unica ma detta in molteplici modi, perché la sua rivelazione passa sempre e solo attraverso la storia e le singole persone che la esprimono, senza esaurirsi: «Come non può essere rivelazione della verità quella che non è personale, così non può essere verità quella che non è colta come inesauribile» (p. 18). In virtù di questo rapporto con l’inesauribile, la stessa verità espressa da una persona porta con sé molti più significati di quelli che essa voleva esprimere, e che possono essere rivelati da altri. Così il pensiero rivelativo non mira alla compiuta esposizione di una realtà, ma a manifestare l’origine inesauribile di quella realtà:
La verità non è oggetto, ma origine del discorso filosofico, e il discorso filosofico non è enunciazione, ma sede della verità […]. Un discorso oggettivo sulla verità non solo non è filosofico, ma a rigore è impossibile, nel senso che la verità scompare proprio nell’atto in cui è presa a oggetto d’un discorso, e non è più verità quella di cui e su cui si può parlare: la verità, piuttosto, è presente nel discorso a sollecitarlo e a costituirne l’inesauribile riserva (p. 206).
L’interpretazione può essere dunque rivelativa nella misura in cui mantiene l’inesauribilità – quindi la libertà – della sua origine. Con una conseguenza di grande rilievo anche per la funzione di critica culturale e di affrancamento morale assegnata al pensiero ermeneutico: la libertà della persona si gioca essenzialmente nell’affermazione, all’interno della storia, di una verità sovrastorica; ma quest’ultima, in quanto «riserva inesauribile» e mai oggettivabile di senso e di motivazioni, si gioca tutta nel permettere l’infinita interpretabilità di ciò che accade storicamente. La verità della storia potrà rivelarsi solo nella misura in cui si dismetterà qualsiasi pretesa di affermarla o determinarla in quanto tale. Il che, nell’intento di Pareyson, non vuol dire affatto una mera ‘relativizzazione’ del vero all’interpretato, ma al contrario l’assunzione dell’interpretazione come struttura ontologica fondamentale della persona umana (in quanto inesauribile libertà) e dell’interpretabilità come ultima cifra ontologica dell’essere stesso. Il che non mancherà di essere sviluppato ben presto da alcuni dei suoi più stretti allievi in una direzione di ‘indebolimento’ prospettico, ossia di costruibilità semiotico-culturale della realtà umana e storica, che forse il maestro non avrebbe mai identificato o auspicato come l’obiettivo della sua riflessione.
Proprio a partire dalla riflessione di Pareyson, negli anni Settanta sarà Gianni Vattimo (n. 1936) a tematizzare lo statuto e il compito epocale di una nuova «ontologia ermeneutica». Con quest’ultimo termine si deve intendere un «movimento filosofico dai confini incerti perché amplissimo», diffuso in Germania, Francia, Italia, Stati Uniti, ma che ha il suo punto di riferimento principale nel pensiero del secondo Heidegger – in particolare in Brief über den Humanismus (1946, Lettera sull’umanismo) – e nell’elaborazione che ne ha offerto Gadamer (in Wahrheit und Methode, 1960, che Vattimo traduce nel 1972 con il titolo Verità e metodo) collegandola sia alle ricerche di Dilthey sia a quelle di Edmund Husserl, «con accentazioni per molti aspetti hegeliane» (G. Vattimo, Le avventure della differenza. Che cosa significa pensare dopo Nietzsche e Heidegger, 1980, pp. 24-25). Per Vattimo si tratterà di radicalizzare spregiudicatamente le prospettive post e ultrametafisiche dei due autori tedeschi, facendo leva su tre caratteristiche che segnano a suo parere la fine dell’ontologia metafisica occidentale:
il rifiuto della ‘oggettività’ come ideale della conoscenza storica (cioè il rifiuto del modello metodico delle scienze positive); la generalizzazione del modello ermeneutico a tutta la conoscenza, storica e non; la linguisticità dell’essere (p. 27).
Mentre la metafisica pensava la verità (o l’essere) come rapporto che viene istituito dal soggetto in relazione all’oggetto e viceversa, l’ermeneutica la pensa come rapporto che istituisce il soggetto e l’oggetto, tale che nessuno dei due sia originario, ma già secondario. Nel circolo ermeneutico avviene che «il conosciuto sia già dentro l’orizzonte del conoscente, ma solo perché il conoscente è già dentro il mondo che il conosciuto co-determina» (p. 26), e dunque la pratica dell’interpretazione, non avendo una verità oltre l’interpretazione stessa, è unità di prassi e conoscenza. Ma se l’interpretazione è un processo infinito, mentre la nostra esistenza è finita, anche nell’ermeneutica, come nella metafisica, permane una separazione tra la mia vita (interpretazione finita) e il significato della vita (interpretazione infinita): nell’ontologia ermeneutica «questa separazione non tematizzata è come respinta e repressa, ma ‘ritorna’» (p. 38).
Di fronte a questo limite dell’ermeneutica, Vattimo si chiede se sia possibile ancora agire storicamente portando in sé il significato dell’agire, anziché agire rispetto a un significato altro da noi. Che è poi la possibilità prospettata da Friedrich Nietzsche con il ‘superuomo’, cioè quel tipo di uomo «capace di vivere storicamente l’unità di esistenza e significato, fare e sapere» (p. 41). Tale possibilità può essere guadagnata rinunciando all’esigenza metafisica di spiegare la realtà alla luce di un fondamento. Il superamento della metafisica, inaugurato da Nietzsche e proseguito da Heidegger, ha mostrato il limite e la problematicità di un pensiero fondante, e ha aperto la strada a quello che Vattimo definisce un pensiero dell’eliminazione del fondamento, o dello «sfondamento» (p. 141).
Questo Ab-grund era stato già espresso con il concetto heideggeriano di ‘differenza ontologica’, secondo cui l’essere non si dà mai allo stesso modo dell’ente, cioè non si dà mai in presenza, ma solo in maniera in-definibile e in-disponibile. L’Ab-grund non va inteso quale semplice mancanza, come farebbe una metafisica fondativa, bensì va assunto come carattere costitutivo dell’esistenza. Anzi, è proprio grazie all’eliminazione del fondamento che possiamo finalmente comprendere il significato del circolo ermeneutico: se da un lato, infatti, l’ermeneutica tende sempre all’integrazione dell’‘altro’ (o «fusione di orizzonti») all’interno dell’interpretazione, dall’altro lato essa è segnata dall’impossibilità di questa integrazione. Se quest’ultima fosse possibile, noi penseremmo ancora in riferimento a una ‘presenza’ definitiva e disponibile: il fatto che l’altro ‘resista’ all’integrazione non è un accidente storico o provvisorio rispetto all’«ideale di una società fondamentalmente integrata» (come penserebbe Jürgen Habermas). Al contrario, per Vattimo, che in questo segue la lezione di Schleiermacher, la resistenza o il fraintendimento (Missverstehen) «è la condizione naturale da cui muove ogni interpretazione» (p. 168). Nella società postmetafisica il dialogo con l’altro può essere praticato solo a condizione che ognuno degli interlocutori rinunci a identificarsi con il proprio punto di vista, e lo consideri piuttosto come non-proprio, differente. Qui sta la cifra della società postmoderna:
Tutta la comunicazione sociale è un luogo del dispiegarsi della differenza ontologica, in quanto in essa si realizza il duplice gioco di integrazione e sfondamento (p. 168).
Questa impossibilità di un’integrazione definitiva è il punto in cui Vattimo riprende in maniera esplicita l’«ontologia dell’inesauribile» di cui aveva parlato Pareyson, ma di qui inizia al tempo stesso un distacco dal maestro che si radicalizzerà a partire dagli anni Ottanta. L’assenza di fondamento viene pensata sempre più in senso nichilistico, con l’intenzione però di assumere il nichilismo non come mera impossibilità (e quindi ancora riferita al pensiero metafisico), ma come possibilità di esperire modi di vivere e di pensare differenti, esclusi dal pensiero fondante. Non solo non bisogna pensare a una fusione di orizzonti finale, ma neanche in itinere, altrimenti reintrodurremmo una dialettica di tipo hegeliano, dove l’alienazione nell’altro da sé è sempre il passaggio necessario perché lo spirito torni ultimamente su se stesso. L’ermeneutica è piuttosto un’esperienza che
porta effettivamente il soggetto fuori di sé, lo coinvolge in un gioco che […] trascende i giocatori e li getta in un orizzonte più comprensivo il quale trasforma in modo radicale le loro posizioni (G. Vattimo, Esiti dell’ermeneutica, in Id., Al di là del soggetto. Nietzsche, Heidegger e l’ermeneutica, 1981, p. 79).
Questo tentativo di radicalizzare l’ermeneutica purificandola dalla «troppa nostalgia per la metafisica», segnando ormai un passo in più rispetto a Heidegger e Gadamer (ma anche rispetto a Jacques Derrida e Michel Foucault, e ancor più rispetto a Pareyson), fa registrare all’anagrafe filosofica un nuovo brand, allorché nel 1983 Vattimo cura, insieme a Pier Aldo Rovatti, una raccolta di saggi dal titolo programmatico Il pensiero debole. Secondo i curatori non si tratta di un’etichetta di scuola ma di una connotazione comune a tutti quei tentativi filosofici che a) prendono sul serio la scoperta (nietzschiana e marxiana) della relazione tra metafisica e dominio, cioè la scoperta che quanto più il pensiero è metafisicamente fondato, tanto più è autoritario e violento, b) si concentrano sulle apparenze come nuovo luogo di una possibile esperienza dell’essere, c) senza però renderle nuove realtà metafisiche, d) ricordando che l’essere è possibile conoscerlo solo come traccia, ricordo, mai come presenza, quindi come ‘essere indebolito’.
In realtà questi stessi parametri non costituiscono una «caratterizzazione ‘positiva’ del pensiero debole», che si lascia definire a sua volta solo ‘debolmente’, come una direzione di pensiero, «un modo di dire provvisorio, forse anche contraddittorio» (Il pensiero debole, a cura di G. Vattimo, P.A. Rovatti, 1983, p. 10). In effetti il compito è quello di assumere un atteggiamento etico segnato dalla ‘rinuncia’ al proprio punto di vista e dal rispetto verso quelli altrui, al fine di evitare la violenza e il dominio.
Per superare la metafisica della presenza bisogna ripensare l’essere stesso come ‘accadere’ (a partire dal concetto heideggeriano di ‘evento’), sia nel senso che ogni conoscenza dell’essere si costituisce storicamente, sia nel senso che ogni manifestazione dell’essere è segnata dalla caducità. Così, proprio perché non c’è nulla oltre l’accadere temporale dell’essere, occorre pensare e agire dentro gli orizzonti aperti dalla storia, con i suoi contesti, i suoi linguaggi, le sue istituzioni. Il passaggio dalla metafisica alla postmetafisica non consiste in una sostituzione di concetti, ma solo nel loro ‘superamento’, nel senso peculiare con cui Heidegger parla di una Verwindung der Metaphysik, il ‘rimettersi’ da una malattia, cui Vattimo aggiunge il senso di verwinden come ‘torcere’, e quindi come il mutare di senso e di impiego delle tradizionali categorie della presenza metafisica, quali eredità tramandate da rammemorare come il nostro orizzonte linguistico, ma senza la vecchia pretesa «di accedere a un ontos on» (p. 22).
Il rispetto (pietas) verso i ‘monumenti’ prodottisi nella storia non è mosso dalla fondatezza delle procedure filosofiche del passato, o dal loro successo pragmatico (p. 25), quanto dal fatto che esse sono accadute e costituiscono l’orizzonte della pratica del pensiero debole. Questo modo di intendere la postmetafisica è sì un suggello del carattere ermeneutico della verità, ma senza la pretesa che l’interpretazione sia il modello da sostituire all’adeguazione. Essa deve sempre pensare se stessa «in modo debole», quindi come ciò che è pronto ad annullarsi in favore di un altro approccio: e in questo senso alcuni anni dopo Vattimo parlerà di «vocazione nichilistica» del pensiero debole (Oltre l’interpretazione. Il significato dell’ermeneutica per la filosofia, 1994). Per noi, individui sociali sempre in rapporto ai contenuti dell’accadere storico, intesi come ‘tracce’ della libertà dell’essere, conoscere la verità non significa più definire la relazione necessaria (logica) tra un fondamento e un fondato, ma praticare la relazione libera (retorica) tra certe regole linguistiche e sociali, e i loro prodotti culturali, in modo da comprenderne l’accadere.
Volendo riassumere le caratteristiche dell’ontologia debole, si può dire che 1) il vero è oggetto di retorica, non di un’apprensione noetica; 2) le verifiche accadono in un contesto storico di regole procedurali, cioè sono valide solo in un particolare ‘orizzonte ermeneutico’; 3) il vero è quindi solo il prodotto di un’interpretazione; 4) essendo la verità solo ‘retorica’, l’essere è solo ‘tras-missione’ delle procedure storiche dentro cui ci muoviamo (Il pensiero debole, cit., p. 26).
Resta però aperto un problema rilevante (avvertito dallo stesso Vattimo), e cioè la possibilità che, proprio in virtù della sua debolezza ‘ultrametafisica’, il pensiero smarrisca la sua forza progettuale. Se da un lato la debolezza mina la possibilità di ogni progetto, dall’altro essa costituisce già un progetto di affrancamento dalle strutture teoriche e pratiche del dominio. In questo Vattimo vede una coincidenza tra il superamento della metafisica e la secolarizzazione del cristianesimo, il cui messaggio principale – amare il prossimo come se stessi – altro non sarebbe che ‘rinuncia’ a sostenere il proprio punto di vista e pietas verso quello altrui. Così il cristianesimo (e con esso il creazionismo) trova la sua verità proprio nell’affrancarsi da un Dio inteso come fondamento e nell’apertura della storia come spazio dell’esperienza della differenza.
Nel suo saggio del 1989 su La società trasparente Vattimo mette a tema lo ‘spaesamento’ che inevitabilmente (ma positivamente) si accompagna alla possibilità di relazionarsi contemporaneamente con tutti i punti di vista grazie all’avvento della società della comunicazione. La straripante quantità di informazioni e posizioni accessibili attraverso i mass media chiarisce l’esperienza progettuale del pensiero debole: «è proprio in questo relativo ‘caos’ che risiedono le nostre speranze di emancipazione» (G. Vattimo, La società trasparente, 1989, p. 11). Anche qui, l’annuncio nietzschiano dell’oltreuomo resta secondo Vattimo il paradigma della possibilità di vivere, senza nevrosi, «l’oscillazione tra appartenenza e spaesamento» (p. 41).
Questa dimensione ‘liberatoria’ del pensiero debole viene enfatizzata anche nel secondo saggio dell’omonima raccolta, intitolato Trasformazioni nel corso dell’esperienza, a firma di Pier Aldo Rovatti (n. 1942). Riconoscere l’assenza di un fondamento ci pone di fronte alla scelta tra «arrenderci all’orrida casualità o scoprire il gioco del caso». La stessa opzione tra rassegnazione e accettazione, sostiene Rovatti, in fondo si presentava anche di fronte al destino necessario fondato nella metafisica; ora si tratta solo di cambiarne il senso, di vivere in «una diversa necessità» (Il pensiero debole, cit., p. 32), non più quella del fondamento, ma quella del caso. Da questo punto di vista, «pensiero debole» significa, radicalmente, che la realtà stessa è debole (‘casuale’, appunto).
Lo scenario stabile in rapporto al quale ci muoviamo nella nostra quotidianità si esperisce come un gioco fatto di regole che utilizziamo in maniera inconsapevole e che impariamo dal modo in cui gli altri intorno a noi le utilizzano. Proprio perché queste regole hanno «estrema maneggevolezza e ovvia comunicabilità», il gioco ha una «potenza sociale» (p. 44), sebbene tali regole non siano soggette a principi superiori, ma si pongano e si esauriscano anche sulla superficie della normalità quotidiana. Per questo avvertiamo l’esigenza di distaccarci dalle abitudini del quotidiano, ma in ciò più che la filosofia può aiutarci la narrazione letteraria (Rovatti fa gli esempi di Jean-Paul Sartre, Franz Kafka e Robert Musil), poiché non si tratta di definire un ‘sistema’ dell’esperienza, ma al contrario di descrivere l’esperienza come spaesamento all’interno di una molteplicità e frammentarietà non più integrabile in un ‘tutto’. In tal senso lo stesso pensiero debole «non è un conoscere», ma «un’esperienza globale».
Rovatti definisce come ‘pudore’ l’atteggiamento etico che il filosofo (e l’uomo postmoderno in generale) deve assumere nella civiltà postmetafisica, senza confonderlo con la tolleranza e con il pluralismo, concetti che intendono ancora la differenza come rapporto tra identità precise. La semplice distanza rispetto a ciò che è altro da noi sarebbe ancora un padroneggiamento: il pensiero debole consiste piuttosto nel lasciarsi espropriare attraverso la differenza dell’altro da me. Anziché essere una forma mascherata di dominio, il pudore è un atteggiamento di oscillazione tra un ritrarsi rispetto a sé per la scoperta dell’altro e un ritrarsi rispetto all’altro per scoprire la sua differenza da sé (cfr. A. Dal Lago, P.A. Rovatti, Elogio del pudore. Per un pensiero debole, 1989, pp. 43-44). Non si tratta tanto di garantire a ognuno il suo punto di vista (questo sarebbe ancora un atomismo di soggettività forti), quanto di scoprire prima di tutto il proprio essere come differenza.
La riflessione sul nesso tra il pensiero della differenza, il nichilismo postmetafisico, e il rinnovato compito di pensare il rapporto/distanza con gli altri soggetti all’interno della società segna un campo di elaborazione ‘ermeneutica’ condiviso da altri protagonisti della scena filosofica italiana contemporanea.
Ci limitiamo a fare il nome di Mario Ruggenini (n. 1940), il quale, pur insistendo con Heidegger e Gadamer sulla linguisticità dell’essere, ha approfondito la sua ermeneutica non tanto focalizzando la debolezza dell’essere, quanto la sua finitezza. Ruggenini sostiene che «nulla è più oscuro e drammatico dell’apparente ovvietà del pensiero della finitezza» (I fenomeni e le parole. La verità finita dell’ermeneutica, 1992, p. 21) perché essa non si dà come un rapporto tra due identità che si incontrano (finito-infinito, Dio-mondo), bensì come l’apertura della differenza tra me e l’altro da me. E questa differenza è vista – heideggerianamente – come l’apertura del mondo nella quale si dà la relazione tra il finito e l’altro da sé. Ma allora la finitezza non appartiene solo all’esistenza del soggetto, bensì necessariamente anche all’altro cui esso è in relazione: «L’altro dall’esistenza finita non può essere sciolto e dunque accade nella sua alterità in modo necessariamente finito» (p. 21). Ma se la finitezza segna necessariamente ogni rapporto dell’uomo con il mondo, ogni rapporto sarà reso possibile dal fatto che l’uomo produce dei segni che indicano i rapporti tra le cose e tra le cose e l’apertura del mondo: in breve, alla finitezza appartiene il carattere dell’interpretazione attraverso le parole.
Proprio in virtù del carattere insuperabile dell’interpretazione e della finitezza, si impone l’etica dell’alterità: l’altro da me costituisce la mia finitezza e condivide con me la necessità della finitezza, quindi ho bisogno della sua alterità – ossia della sua esistenza come un’interpretazione altra rispetto alla mia – per corrispondere meglio all’essere, alle cose e a me stesso. Il bisogno dell’altro come costitutivo del mio stesso essere è quello che Ruggenini chiama il «pathos dell’alterità», o della finitezza, che domina la vita affettiva e consente all’uomo di avere rapporti, sentire insieme agli altri, condividere, pur continuando a «sostenere l’enigma del loro restare altri» (p. 38).
Se in Italia il pensiero ermeneutico è stato spesso associato alla tendenza estrema costituita dal ‘pensiero debole’ o dal ‘postmoderno’ (la tendenza più seguita ed enfatizzata a livello pubblicistico, anche per le sue eclatanti prese di posizione di relativismo culturale e di rivendicazione della ‘diversità’ antropologica, sessuale e politica delle differenti interpretazioni del mondo rispetto ai fatti ritenuti oggettivi e ancor più a una natura metafisicamente fondata), è anche vero che all’interno di esso sono state sin dall’inizio presenti posizioni più moderate o realistiche, che tuttavia non si sono mai presentate come la semplice rivendicazione di istanze oggettivistiche o fondazionaliste, bensì come una critica immanente al lavoro dell’interpretazione, che alla fine (e siamo ai nostri giorni) ha cercato e sta cercando di ridefinire l’intero campo semantico di riferimento di una filosofia dell’interpretazione. E non è un caso se spesso le motivazioni di questo distacco critico a livello di concezione del senso dell’essere, della soggettività umana e dello statuto della verità vadano cercate in una differente visione delle ricadute sociopolitiche delle rispettive teorie. In particolare il problema era se la radicale riduzione dei fatti a eventi e degli eventi a interpretazioni, senza referenza a un’oggettività esterna o almeno indipendente da queste ultime, portasse a una reale ed effettiva emancipazione dalle tradizionali strutture di dominio della società di massa o se, al contrario, giustificasse e favorisse, anche suo malgrado, un’omologazione strisciante e infine la vittoria dei poteri forti veicolati dalle tecniche della comunicazione mediatica.
Per comprendere la portata di questa controtendenza interna all’ermeneutica (sebbene alternativa alle estremizzazioni ‘deboliste’) vale la pena guardare al percorso di un autore di punta come Umberto Eco (n. 1932). Già a partire dal 1962 egli sviluppa l’ermeneutica del suo maestro Pareyson sostenendo l’idea di un’oscillazione inesauribile tra l’interpretazione, potenzialmente infinita e l’opera d’arte, finita ma al contempo aperta alla
possibilità di essere interpretata in mille modi diversi senza che la sua irriproducibile singolarità ne risulti alterata. Ogni fruizione è così un’interpretazione ed un’esecuzione, poiché in ogni fruizione l’opera rivive in una prospettiva originale (U. Eco, Opera aperta. Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee, 1962, p. 34).
Una posizione, questa, che diversi anni dopo Eco riterrà necessario ribadire, proprio per contrastare il rischio dello sbilanciamento tra i due poli:
Trent’anni fa […] mi preoccupavo di definire una sorta di oscillazione o di instabile equilibrio, tra iniziativa dell’interprete e fedeltà all’opera. Nel corso di questi trent’anni qualcuno si è sbilanciato troppo sul versante dell’iniziativa dell’interprete. Il problema ora non è di sbilanciarsi in senso opposto, bensì di sottolineare ancora una volta l’ineliminabilità dell’oscillazione (U. Eco, I limiti dell’interpretazione, 1990, p. VIII).
A dire il vero, anche Eco aveva contribuito alla celebre raccolta di saggi su Il pensiero debole, con un saggio intitolato L’antiporfirio. Ma anche in questo caso, quindici anni dopo egli prende le distanze da quelli che chiama i ‘debolisti forti’ (sostenitori della postmetafisica, quindi ispirati alle riflessioni di Nietzsche e Heidegger) e si annovera tra i ‘debolisti deboli’ (sostenitori di un pensiero della congettura e del fallibilismo), sostenendo che già allora egli era dalla parte di questi ultimi (U. Eco, Kant e l’ornitorinco, 1997, p. XII).
Contro l’approccio heideggeriano-gadameriano, secondo il quale l’interpretazione non ha mai un punto d’arrivo (ma anche contro il decostruzionismo di Derrida), egli individua come limite negativo dell’interpretatività la relazione etica, o intersoggettiva: poiché l’interpretazione è svolta sempre in un contesto, essa è sempre una decisione rispetto ad altri soggetti che devono condividerla; si crea così «un significato che, se non è oggettivo, è almeno intersoggettivo» (U. Eco, I limiti dell’interpretazione, cit., p. 337). Tale soluzione ‘etica’ si basa a sua volta su una più radicale decisione ‘ontologica’, quella di non confondere l’impossibilità di un pensiero esaustivo con l’impossibilità di un pensiero dell’essere tout court. Se è impossibile conoscere l’essere in quanto tale, occorre almeno ammettere che esso possiede una certa resistenza ed è attraversato da alcune linee di forza che rappresentano i limiti al nostro interpretare, nel senso che, se pure non ci dicono in positivo la verità della cosa da interpretare, ci indicano tuttavia in negativo le direzioni che la nostra interpretazione non può prendere. Mediante tali limiti dell’interpretazione non si stabilisce l’essere di un mondo esterno, né si certifica la definitiva verità di una nostra teoria, ma solo l’esistenza di un ‘qualcosa’ che ci condiziona:
Che l’essere ponga dei limiti al discorso mediante il quale ci stabiliamo nel suo orizzonte non è la negazione dell’attività ermeneutica: ne è piuttosto la condizione. Se assumessimo che dell’essere si può dire tutto non avrebbe più senso l’avventura della sua interrogazione continua. Basterebbe parlarne a caso. L’interrogazione continua appare ragionevole e umana proprio perché si assume che ci sia un Limite (U. Eco, Kant e l’ornitorinco, cit., p. 37).
A ben vedere, tuttavia, il limite non appartiene all’essere in quanto tale, ma è solo un’esperienza della nostra libertà. Seguendo gli spunti del suo maestro Pareyson, Eco afferma che laddove c’è libertà c’è esperienza del limite: ma allora quello che diventa necessario è un «criterio pubblico» per giudicare se le imprese della nostra libertà – le nostre interpretazioni – siano accettabili o meno.
Anche in Eco torna l’esigenza della condivisione intersoggettiva a rappresentare l’istanza sociale, civile e politica che percorre come un filo rosso le varie proposte, pur molto distanti tra loro, dell’ermeneutica italiana. Se in Betti questa istanza si concretizzava nella possibilità di rendere giustizia al testo (e in generale all’oggettivazione dello spirito), nella scuola pareysoniana si concretizzava nell’apertura alla libertà inesauribile dell’interpretazione (quindi alla libertà irriducibile dell’altro), che nell’etica del pensiero debole veniva approfondita come pietas e pudore nei confronti della differenza. Ora, nella reazione al pensiero debole, si riafferma per altre vie un’esigenza che si avvicina all’allora inascoltata (e forse ancor oggi inascoltabile per molti, poiché troppo intrisa di concetti ‘metafisici’ preheideggeriani) ermeneutica giuridica di Betti. Non è un caso che sia proprio il problema della giurisprudenza apertosi nella fase ‘berlusconiana’ della vita politica italiana il sottofondo di questa reazione, il problema cioè dell’interpretazione della legge e della possibilità di dominare l’interpretazione con il dominio dell’informazione.
Lo attesta una recentissima discussione tra Vattimo e il suo antico allievo Maurizio Ferraris (n. 1956), fautore di un ‘nuovo realismo’, nato dalla considerazione dell’inadeguatezza del pensiero debole (secondo cui, nietzschianamente, non ci sarebbero fatti, ma solo interpretazioni) a contrastare il populismo mediatico che sembrerebbe non avere più limiti oggettivi, e non solo di tipo etico, ma anche di tipo legislativo e giuridico. Mentre per Vattimo tale populismo rappresenta l’ultima resistenza di un pensiero ‘forte’ rispetto all’avvento del pensiero debole, per Ferraris al contrario esso è la prova definitiva del nefasto predominio dell’interpretazione sulla realtà (M. Ferraris, G. Vattimo, L’addio al pensiero debole che divide i filosofi, «la Repubblica», 19 agosto 2011).
La disputa nasce in realtà da lontano. La prospettiva iniziale di Ferraris era stata proprio quella ermeneutica postmetafisica, assunta da un lato attraverso Vattimo, dall’altro attraverso Derrida. Ma proprio l’influenza di quest’ultimo lo portava a prendere le distanze dal pensiero debole: sia Heidegger sia Gadamer si iscriverebbero per Ferraris nella tradizione idealistica che ha pensato la superiorità dello spirito sulla sua oggettivazione, e in questo modo veicolerebbero pericolosamente il principio di autorità (dell’interprete) contro l’oggettività della legge (il caso emblematico sarebbe l’adesione di Heidegger al nazionalsocialismo). Dall’ambiguità, se non pericolosità, di questa deriva dell’ermeneutica matura l’esigenza di un oggettivismo realistico, cioè di un’ontologia che definisca ambiti di realtà indipendenti rispetto alle interpretazioni.
Non tutto è costruibile attraverso le nostre interpretazioni: a esse fanno capo solo gli oggetti della realtà sociale, non certo quelli della realtà naturale. Sarebbe stato Immanuel Kant, secondo Ferraris, a sovrapporre indebitamente l’epistemologia (il piano delle strutture a priori della nostra mente che permettono di conoscere il mondo naturale) con l’ontologia, che ci è accessibile invece anche solo nell’esperienza comune di ogni giorno (io posso benissimo bere un bicchier d’acqua o bagnarmi con essa anche senza sapere che la sua formula è H2O). Già nel suo libro sull’Estetica razionale (1997), e poi in quello su Il mondo esterno (2001) Ferraris rivendicava la differenza tra il sapere e l’essere, facendo leva sul carattere di ‘inemendabilità’ della realtà da parte dei nostri modelli interpretativi.
Ma di un realismo oggettivo del mondo si può parlare in qualche modo anche per gli oggetti sociali, i quali, pur essendo costruiti e modificabili sulla base delle nostre interpretazioni, non sono mai semplicemente alla nostra mercé, nella misura in cui devono sempre necessariamente essere ‘iscritti’ e ‘codificati’ in forma documentale, dalle antiche scritture sino agli archivi digitali (cfr. M. Ferraris, Documentalità, 2009, pp. 359-60). In definitiva, anche nel regno dell’interpretazione vi sono delle leggi che, per quanto costruite, fanno resistenza rispetto al nostro arbitrio: anche l’ontologia sociale può essere a suo modo considerata un ‘fatto’ prodotto, ma al tempo stesso resistente alle nostre interpretazioni.
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