erica
In compagnia di azalee, rododendri, mirtilli, corbezzoli
L'erica appartiene alla famiglia delle Ericacee, che comprende oltre 3.000 specie di alberi e arbusti.
Sono piante che vivono bene in ambienti difficili come la brughiera, l'alta montagna, i terreni poco fertili e poveri d'acqua. Tra i generi più importanti della famiglia oltre l'erica, che è la regina della macchia mediterranea, c'è l'azalea dai bellissimi fiori, il rododendro che cresce sulle Alpi, il mirtillo ricco di sostanze curative e il corbezzolo
Il genere erica, o per meglio dire la sua famiglia d'appartenenza, quella delle Ericacee, si trova in tutti i continenti tranne che in Antartide. Questo cosmopolitismo si spiega con alcuni geniali adattamenti messi in mostra dai membri di questa famiglia, tra cui la micorriza (dal greco mìcos "fungo" e rìza "radice") cioè la simbiosi tra certi tipi di funghi e le radici della pianta. Le ife fungine, quei sottili filamenti che costituiscono il corpo dei funghi, formando una invisibile peluria intorno alle radici, aiutano la pianta ad assorbire le sostanze nutritive dal terreno, mentre essa rifornisce le ife di sostanze organiche. L'erica può vivere perciò anche su terreni acidi, costituiti da silicati, e poveri di humus in quanto, grazie alla sua micorriza, rende pian piano fertile anche il suolo più sterile. Dopo un incendio, per esempio, è proprio l'erica una delle piante pioniere che cominciano a 'colonizzare' lo strato carbonizzato.
Esistono molte specie di erica, tra cui Erica arborea, una forma che può arrivare ai 7 m di altezza, i cui rami sono adoperati per fare le scope mentre il legno nodoso e rossiccio della base del fusto serve per la fabbricazione di pipe pregiate. Dal nettare di Erica multiflora le api ricavano un ottimo miele. Tutte le specie hanno piccoli fiori bianchi o lilla o rosa e foglie squamiformi sempreverdi, il che vuol dire che per tutto l'anno, senza soste, compiono la fotosintesi clorofilliana, producendo ossigeno e sostanze organiche preziose per gli ecosistemi di cui fanno parte.
Il corbezzolo, Arbutus unedo, si trova spesso associato a Erica arborea nella macchia mediterranea.
Si tratta di un arbusto in cui fiori e frutti compaiono in autunno; questi ultimi sono bacche rosse buone a mangiarsi ma con forte effetto astringente sull'intestino, per cui se ne consiglia un uso limitato, come dice anche il nome specifico di unedo, dal latino unum "uno solo", edo "mangio".
Il nome del rododendro, genere rhododendrum, di origine greca, significa "ramo di rose" in riferimento alla sua opulenta fioritura rosso porpora o rosa. Cresce in alta montagna, spesso associato al pino mugo o al larice. È un rododendro anche l'azalea, originaria della Cina e del Giappone, diffusa in occidente come pianta da giardino per la bellezza dei suoi fiori che spesso si aprono prima che compaiano le piccole foglie ovali, verde scuro e leggermente pelose.
Il mirtillo nero, Vaccinium myrtillus, è pianta dei boschi d'alta quota, ricercata per i suoi frutti neri o rossi e per il potere curativo. È ricco di vitamine A, o retinolo, e C: la presenza nel succo dei frutti di retinolo, molecola importante nel meccanismo della visione, è utile per migliorare la vista, soprattutto in penombra.
Rvadin, ulsca, costro, stipa, spazzadora, scopa da fastella, rusco, ulscina, scopina, ulice, radica, brugo, grecchia, scopa meschina, bru, desloda, ausolada, brola, brusciarello, bagola del lupo.
Questi sono alcuni dei nomi popolari con cui vengono chiamate l'erica o le altre ericacee più comuni.
L'abbondanza di termini dialettali sta a indicare l'importanza di queste piante per le popolazioni contadine e montanare. Le erbe, gli arbusti, gli alberi sono considerati infatti dagli studiosi delle comunità umane importanti marcatori antropologici, indicatori utili per ricostruire le usanze del presente e del passato. Le piante, essendo spesso vicine alla vita quotidiana dell'uomo, sono in qualche modo intrise di storia umana che esse ci raccontano da un versante particolarissimo.
Per esempio, la bagola del lupo è il nome che nell'Appenino tosco-emiliano viene dato a una specie di mirtillo, detto falso mirtillo, che non va mangiato perché, stando alla leggenda, lo mangiano i lupi.
In realtà i suoi frutti hanno proprietà allucinogene, forse dovute a un fungo velenoso che ne parassita la polpa; cosicché il divieto di magniarli perché cibo da lupi, serve a evitare le intossicazioni.