eresia
. Viene così chiamata ogni dottrina, che, differenziatasi dalla retta fede e condannata dalla Chiesa, sia sostenuta con pervicacia; proprio quest'ultima caratteristica la distingue dall'errore, che è invece dottrina respinta dalla Chiesa, senza che ciò comporti condanna per chi l'ha proposta e sostenuta, quando quest'ultimo presti obbedienza. L'e., che affiora dai tempi più antichi del cristianesimo, se proprio s. Paolo ne parla nelle sue epistole, ha accompagnato lungo tutto il corso della sua storia la formazione e lo svolgimento della dottrina cristiana, operando un'insostituibile funzione di stimolo e di critica: si può perciò dire che, storicamente, l'e. rappresenta un momento essenziale del cristianesimo, costituendone un punto di riferimento fra le varie teorie e impostazioni teologiche.
Sarà perciò opportuno ricordare che, dopo aver superato le e. filosofeggianti dello gnosticismo e quelle rigoristiche e ascetiche del montanismo, ebbero importanza, nei primi secoli del cristianesimo, l'arianesimo e il sabellianismo che, in accaniti contrasti, condussero a importanti precisazioni teologiche sul Cristo e sulla Trinità, e il monofisismo (v. anche Eutiche), che contribuì a chiarire il rapporto tra natura divina e natura umana nel Cristo, mentre un gran numero di e. minori con i loro vivaci dibattiti comportavano una serie di precisazioni su ogni aspetto dell'ortodossia cristiana. Né furono meno importanti quelle e. che, rivolgendo la loro attenzione ai rapporti tra l'azione umana e la grazia divina, cercarono di esaltare, in maniera eccessiva, la libertà umana, come il pelagianesimo, o che, meditando sui problemi del male nella vita e nella storia, conclusero con l'esistenza di un principio buono e di uno malvagio, come il manicheismo.
Nell'alto Medioevo, cessati i grandi dibattiti teologici, verso la fine dell'ottavo secolo, conclusasi la grande lotta iconoclastica, le e. si vennero riducendo tra i secoli IX e XI a un fatto eminentemente ristretto a gruppi di teologi o, al massimo, a contrasti di scuole. Solo col secolo XI e col rinnovarsi della società europea vennero manifestandosi in occidente - al quale solo rivolgiamo la nostra attenzione - fermenti religiosi nuovi, che, come condussero a un'esigenza profonda di riforma della Chiesa, provocarono anche tutta una serie di eresie. Di queste alcune, ripetendo, dopo secoli di iato, spunti dualistici, confluirono poi, verso il 1140, nel grande fenomeno dei catari (v.), altre, nella volontà di affermare la purezza dei fedeli e del clero, in conformità con le dottrine evangeliche, vennero proponendo dottrine sempre più radicali sulla povertà dei chierici e dei prelati, sul dovere del lavoro, inteso come obbligatorio per tutti, spingendosi fino alla condanna di quanti non consentissero con le loro posizioni ed eccitando le masse contro i chierici considerati indegni e colpevoli.
È questa la posizione, per esempio, dei patarini milanesi del secolo XI, di Arnaldo da Brescia, dei cosiddetti Poveri Lombardi e di quel vasto fenomeno di portata europea che è il valdismo.
In D. il problema dell'e. e della sua importanza nella vita della Chiesa e per la formazione della teologia non sembra aver suscitato eccessivo interesse per la sicura fede del poeta, che mantenne un fermo atteggiamento di condanna. Due punti però, in proposito, vanno sottolineati e precisati.
In primo luogo, seguendo una ripartizione delle epoche della Chiesa, frequente ai suoi tempi in specie fra i gioachimiti e gli spirituali francescani, D., nella visione del carro della Chiesa alla fine del Purgatorio, non manca di ricordare l'età dell'e.: egli, infatti, dopo aver ricordato le persecuzioni dell'Impero, ci dice che vide avventarsi ne la cuna / del trïunfal veiculo una volpe / che d'ogne pasto buon pareo digiuna (Pg XXXII 118-120), e che questa volpe vien messa in fuga da Beatrice. D. qui si collega evidentemente a una lunghissima tradizione esegetica relativa al passo del Cantico dei Cantici (2, 15 " Capite nobis vulpes parvulas, quae demoliuntur vineas "), che interpreta questo passo come relativo agli eretici (piccole volpi) e alla Chiesa (la vigna del Signore). E la volpe, di cui qui parla D., non è un'e. particolare, come quella ariana, secondo una frequente interpretazione dei commentatori, ma è l ' ‛ eresia ', cioè tutto il complesso dei fenomeni ereticali che effettivamente caratterizzò, come abbiamo già notato, il periodo successivo alle grandi persecuzioni e che accompagnò le grandi sistemazioni dottrinali della patristica. Non a caso chi mette in fuga la volpe non è un personaggio preciso - come sarebbe potuto essere Atanasio, per esempio -, ma Beatrice, cioè la teologia: al complesso delle dottrine ereticali si oppose, allora, il complesso delle dottrine teologiche dei padri della Chiesa. In questo senso il passo del Purgatorio traduce poeticamente quanto Ubertino da Casale dice in breve a proposito di questa età nel primo capitolo del V libro dell'Arbor vitae crucifixae Jesu, riprendendo a sua volta il commento all'Apocalisse di Pietro di Giovanni Olivi, il maestro degli spirituali francescani, e precisando: " Tertius status est doctrinae illuminativae ad clarificandum fidem et haereses confundendas "; poi più oltre: " In tertio [statu eminet] sonus praedicationis et tuba magistralis "; e poi ancora: " Tertia [pugna fuit] contra perfidiam arrianorum at aliarum haeresum ". Né manca di notare come lo sviluppo delle dottrine teologiche provocò a un tempo le e. e i grandi teologi.
In secondo luogo D. non si sottrae a un'altra dottrina corrente al suo tempo circa l'e. e l'utilizzò, anzi, come elemento orientativo per la distribuzione delle colpe nell'Inferno: l'e. trae regolarmente origine da un'errata interpretazione della Sacra Scrittura, causata da deficienze di ordine morale e spirituale, come ritiene, per ricordare l'opinione di un grande teologo, che esprime anche un punto di vista largamente diffuso, lo stesso s. Tommaso, là dove (Sum. theol. II II 11 2) osserva che e. è esporre la Sacra Scrittura in maniera diversa da come l'ha ispirata lo Spirito Santo, sì da fare violenza al testo e dare così ‛ false esposizioni ' della Bibbia. Da questa natura così complessa della colpa di e. discende la collocazione degli eretici nella città di Dite, ma subito dopo gl'incontinenti e prima dei violenti veri e propri.
È opportuno poi, a questo punto, notare che D., anche se non ha discusso, come abbiamo già detto, nelle sue opere il concetto di e., lo ha chiaro nella sua mente per la distinzione, ben netta, che egli pone appunto tra e. e scisma, considerando quest'ultimo colpa più grave perché comporta divisione di animi all'interno della Chiesa e, conseguentemente, lotte intestine e violente tra seguaci della stessa fede.
Dall'esaltazione che nel canto XII del Paradiso D. fa di s. Domenico, il cui ‛ impeto ' ne li sterpi eretici percosse (V. 100) e che in terra fue / di cherubica luce uno splendore (XI 38-39), va, poi, posto in rilievo il fatto che egli accettava e condivideva l'opinione, del resto allora universalmente diffusa, che l'eretico andava combattuto non solo con il vigore della discussione e della polemica, ma anche con la forza vera e propria della persecuzione armata. Inoltre l'accenno a s. Domenico e alla sua attività contro l'e. induce a ritenere che D. avesse qualche conoscenza, sia pur, come sembra, vaga, della crociata contro gli Albigesi e delle successive lotte contro l'e. della Francia meridionale.
Si pone, perciò, ancor più inevitabile il problema del motivo per cui D. non abbia mai ricordato esplicitamente i movimenti ereticali del suo tempo; i catari o, come si diceva in Firenze, i patarini e, poi, i valdesi.
In proposito bisogna prima di tutto decisamente escludere dall'opera di D. ogni e qualsiasi consapevole e accettata influenza ereticale e, comunque, ogni disposizione favorevole agli eretici. Se Flacio Illirico, al tempo della riforma luterana, ritenne di poter includere brani di D. nel suo Catalogus testium veritatis, qui ante nostram aetatem pontificibus romanis eorumque erroribus reclamarunt; se all'inizio dell'Ottocento Gabriele Rossetti ritenne di poter includere D. tra coloro che esprimevano idee radicalmente riformatrici (Sullo spirito antipapale che produsse la Riforma, Londra 1832, 95); se E. Aroux ritenne di dover denunziare a Pio IX la sua convinzione che l'opera dantesca era piena di spirito eretico, rivoluzionario, e socialista, anzi, religiosamente, cripto-valdese (D. hérétique, revolutionnaire et socialiste. Révelations d'un catholique sur le moyen Age, Parigi 1854; L'hérésie de D. démontrée par Francesca da Rimini devenue un moyen de propagande vaudoise..., ibid 1857; Preuves de l'hérésie de D. notamment au sujet d'une fusion opérée vers 1312 entre la Massenie albigeoise, le Temple et les Gibelins, ibid 1857), ebbene, nel comprendere e giustificare questi tentativi di appropriazione o di condanna di D. come una conseguenza di precisi momenti storici e di particolari tendenze interpretative, bisogna avere la fermezza di relegare questi episodi nel mondo delle favole erudite.
Analogamente sono inaccettabili i vari tentativi di fare di D. un aderente di sette, più o meno eterodosse, ma tutte segrete, che per mezzo delle loro opere facevano propaganda per non meno misteriosi e inafferrabili ‛ fedeli d'amore ' e simili. Che nell'opera dell'Alighieri non manchino allusioni per noi poco chiare, accenni a cose o personaggi a noi sconosciuti e indicazioni la cui portata ci sfugge, è fatto indubbio; ma la soluzione di queste difficoltà non si risolve scaricando il bagaglio della nostra ignoranza in un recipiente misterioso, quanto inutile, qual è appunto quello formato dall'e., dal ‛ segreto dei fedeli d'amore ' e simili.
È stato, in questa direzione, prezioso il progresso degli studi sulle e. e le correnti spirituali dei secoli XIII e XIV compiuto negli ultimi quarant'anni, che ci hanno permesso di determinare con notevole sicurezza la posizione di D. di fronte a questi problemi. Possiamo perciò dire con certezza che in D. non vi è alcuna, sia pur minima, presenza di e. valdese, che pur risulta testimoniata in Firenze alla fine del Duecento e all'inizio del secolo successivo. Alcuni atteggiamenti, che farebbero pensare a dottrine valdesi (l'affermazione della povertà della Chiesa, la condanna della sua mondanità, l'aspra critica dei papi), vanno in realtà ricondotti all'esigenza di riforma della Chiesa, che D. aveva in comune con molte altre personalità del suo tempo, della cui rigorosa ortodossia non è possibile dubitare.
Tutta la tematica religiosa della Commedia, come tutta la cultura teologica, precisa e diffusa a piene mani, escludono, in maniera assolutamente perentoria, ogni e qualsiasi influenza di idee e dottrine catare.
Questo non significa ovviamente che D. non conoscesse queste e., anzi possiamo dire che ne aveva notizia certa. Era infatti sui venti anni, quando svolgeva la sua attività inquisitoriale in Firenze fra Salomone da Lucca, il più severo di tutti, che tra l'altro condannò, post mortem, Farinata degli Uberti come fautore di eretici, ordinandone il disseppellimento e procedendo alla confisca dei suoi beni. A lui del resto va con quasi certezza riferito un altro processo che colpiva fautori di eretici che erano anche, contemporaneamente, personalità di qualche rilievo nella politica ghibellina della città. Va poi aggiunto che l'inquisitore della eretica pravità aveva, dal 1254, la sua sede in Santa Croce di Firenze, che D. certamente frequentò in un periodo della sua vita, mentre di eretici e di e. si parlava in città, se, nella seconda metà del Trecento, Franco Sacchetti poteva in una sua novella parlare di una beffa fatta a un semplicione in maniera tale da mostrare che persino questi era in grado d'intendere allusioni relative a credenze catare.
Tutto ciò contribuisce a rendere anche più acuto il problema, a cui si è già accennato, e cioè del motivo per cui D. averbbe taciuto di queste eresie.
Felice Tocco (nel saggio Quel che non c'è [citato in bibl.], pp. 9-10) ritiene che questo silenzio dipenda da un preciso disprezzo per tali e.: non ne avrebbe parlato per un disdegno analogo a quello che lo indusse a dire, a proposito degl'ignavi, non ragioniam di lor, ma guarda e passa (If III 51). Ma questo punto di vista difficilmente potrà esser sostenuto, se pensiamo appunto alla circostanza che legato all'e. fu di sicuro Farinata degli Uberti e che immuni da sospetto non andarono né la famiglia Cavalcanti, né il suo stesso amico Guido. La realtà è che invece D. non ne ha taciuto e ha, anzi, affrontato la questione nel canto X dell'Inferno, al quale dovremo ora rivolgere la nostra attenzione.
Il cerchio degli eretici, precisamente il sesto, di cui si parla, ci viene rappresentato come una distesa di tombe infuocate: a una domanda di D. viene spiegato che vi sono rinchiusi li eresïarche / con lor seguaci, d'ogne setta, che simile qui con simile è sepolto, che i monimenti son più e men caldi (If IX 127-131), mentre si avverte che le tombe son ben più cariche di quanto si potrebbe credere. Le parole di D. - si tenga presente che ‛ eresiarca ' è addirittura un termine tecnico usato, nelle polemiche del tempo, a indicare l'iniziatore di un'e. o di una sua diramazione - ci consentono d'immaginare una sistemazione ordinata appunto di eretici riuniti tutti insieme con il loro capo, di tomba in tomba, ove soffrono una stessa gradualità di fuoco, e per eresia.
Continuando poi a camminare, Virgilio avverte che da quella parte giacciono con Epicuro tutti suoi seguaci, / che l'anima col corpo morta fanno (If X 14-15): in quella parte, si badi, e non in una tomba precisa e determinata. Mentre si svolge questo colloquio, interviene Farinata in uno degli episodi più intensi di poesia dell' Inferno, segue l'intermezzo di Cavalcante dei Cavalcanti, che ricorda suo figlio Guido, riprende il discorso Farinata, che, dopo una precisazione sulla conoscenza che i dannati hanno del futuro, conclude: Qui con più di mille giaccio: / qua dentro è 'l secondo Federico / e 'l Cardinale; e de li altri mi taccio (vv. 118-120).
A questo punto dobbiamo domandarci quali eretici sono nella tomba con Farinata: la risposta consueta che si tratti di gaudenti, che hanno vissuto senza curarsi dell'aldilà, è in sostanza insoddisfacente, perché se potrebbe andar bene per Federico II e, forse, per il Cardinale, e cioè per Ottaviano degli Ubaldini, non sembra si adatti a Farinata degli Uberti e a Cavalcante dei Cavalcanti, dei quali D. aveva informazioni sicure e precise, comunque più di quanto noi possiamo mai desiderare. Non soddisfa neppure l'opinione che nella tomba possano essere riuniti i fautori del ghibellinismo: ancora una volta verrebbe escluso Cavalcante dei Cavalcanti, il cui guelfismo, anzi la precisa opposizione proprio alla politica di Farinata, è indubbia. Riteniamo allora di poter concludere che nella parte ove è Epicuro con i suoi seguaci D. abbia collocata una tomba nella quale sono riunite un gruppo di persone che per le loro idee e per i loro atteggiamenti politici come Federico II e più ancora Farinata, per la loro attività e modo di concepire la vita, come il cardinale Ubaldini o per le loro idee, come Cavalcante, si potevano globalmente considerare ‛ fautori ' dell'e. catara, anche se non personalmente e precisamente compromessi. Notiamo inoltre, che tutti i personaggi nominati o sono morti senza discendenti raggiungibili dall'inquisizione, com'è il caso di Federico II, o sono già stati colpiti da condanne, come Farinata o Guido, i cui familiari erano esuli per l'Italia; o erano troppo potenti come gli Ubaldini: ciò significa una precisa intenzione di evitare, da parte di D., qualsiasi eventuale danno a persone che da suoi accenni potevano essere gravemente danneggiati e colpiti. Si ricordi che la fama pubblica bastava a iniziare una procedura per e., specialmente quando ai motivi religiosi si aggiungevano incentivi di origine politica: certo nei primi anni del Trecento l'inquisizione ebbe a Firenze un risveglio, di cui non siamo per scarsezza di documenti bene informati, ma che da molti indizi non sembra di poco conto o di scarsa efficacia. E D. ben poteva e doveva saperlo.
Se quanto qui diciamo è esatto, il poeta non ha evitato di parlare dei catari nella sua Firenze, ma lo ha fatto in maniera volutamente velata per non provocare danni morali e materiali, per non gravare la città di un'accusa che avrebbe a lui reso problematico se non impossibile il ritorno in patria in un momento in cui, mentre componeva il canto X, veniva ancor sentito come del tutto possibile. Questo riserbo e questa reticenza sulla presenza dei catari o patarini in Firenze non è, del resto, fatto unico di D. o della Commedia, ma rientra piuttosto nella consuetudine della cronachistica fiorentina, che o tace affatto dell'e. o ne parla in modi e forme singolarmente simili a quella di Dante. Percorrendo, infatti, le cronache fiorentine, si ha l'indubbia impressione che gli eretici o non vi fossero o che costituissero una quantità del tutto trascurabile. E, invece, dai pochi documenti giunti fino a noi e che si riferiscono in gran parte al tempo dell'inquisizione domenicana anteriore al 1254 (quelli dell'inquisizione francescana, successivi al 1254, sono quasi tutti scomparsi) risulta una presenza massiccia di eretici, appartenenti a ogni classe, anche le più elevate, della società fiorentina.
Questi eretici si erano poi ben inseriti nella vita della città, appoggiando la Parte ghibellina, osteggiando l'inquisizione ed eccitando più volte la popolazione contro i domenicani inquisitori, i quali, da parte loro, provvidero a organizzare delle associazioni di fedeli contro i patarini non esitando, se del caso, a scendere in vere e proprie battaglie per le strade.
Di tante e così complesse vicende un cronista, per esempio, come il Villani (e prima di lui il Malispini), non parla agli anni relativi, limitandosi invece al 1115-1117, con un grossolano anticipo cronologico, a dare un cenno che, nella sua forma, ricorda caratteristicamente il modo di D.: " ...la città era malamente corrotta di resia intra l'altre della setta degli epicurei, per vizio di lussuria e di gola, ed era sì grande parte, che intra' cittadini si combatteva per la fede con armata mano in più parti di Firenze, e durò questa maladizione in Firenze molto tempo infine alla venuta delle sante Religioni di Santo Francesco e di Santo Domenico... " (G. Villani IV 30). D., perciò, non è un isolato, ma s'inserisce in una posizione mentale, che è comune al suo tempo e proprio nel mondo fiorentino.
Quanto al contrappasso con cui vengono colpiti gli eretici, emerge chiaro per quel che riguarda la chiusura nelle tombe: essi che si riunivano nel segreto delle loro conventicole, per i motivi della loro fede, rimarranno in eterno simile.., con simile... sepolto, nella separazione e nella misteriosità di cui s'ammantavano da vivi. Le fiamme di cui sono avvolte le arche sì da renderle rosse infocate, continuano o sostituiscono quelle del rogo al quale furono condannati o dovevano esserlo.
Se, infine, confrontiamo la considerazione in cui D. ha l'e. nel canto X dell'Inferno e quanto successivamente dice nel XXXII del Purgatorio, non possiamo non rilevare una differenza che ci sembra assai notevole.
Nel canto di Farinata l'e. ci è presentata come un fatto, in prevalenza intellettuale, che non esclude né grandezza umana, come mostra proprio Farinata, né affettuosa amicizia, come accade con Cavalcante. Lo stesso richiamo a Epicuro ha un suo tono neutro, ben lontano dalla durissima condanna con cui colpisce proprio la negazione dell'immortalità dell'anima in Cv II VIII 8 Dico che intra tutte le bestialitadi quella è stoltissima, vilissima e dannosissima, chi crede dopo questa vita non essere altra vita. Nel canto XXXII del Purgatorio, invece, l'e. appare carica di laide colpe, tali da non ammettere indulgenza e da richiedere anzi l'intervento inesorabile di Beatrice, che sola può metterla in fuga.
Tra queste due posizioni (e in particolare per il fatto che l'e., da colpa intellettuale, diventa momento della vita della Chiesa) va collocato tutto il travaglio spirituale di D. e soprattutto l'intensa, drammatica speculazione sulla radice dei mali che affliggono l'umanità e turbano la vita della ‛ societas christiana '
Anche l'e. viene così ricondotta a fatto morale e considerata conseguenza della cagion che 'l mondo ha fatto reo (Pg XVI 104), della cupiditas; non a caso la volpe è magra e avida non meno della lupa.
Bibl. - Fra i commentatori dei due canti di D. di cui qui si discute (il X dell'Inferno e il XXXII del Purgatorio), oltre ai commentatori antichi, sempre preziosi, ci limitiamo qui a ricordare per il canto X specialmente M. Barbi, Il canto di Farinata, in D. - Vita, opere e fortuna, Firenze 1933, 207-270 (in questo studio, tuttavia, a p. 222 è da considerare un vero e proprio errore l'affermazione che l'e. patarinica " era ormai cosa sepolta ed arcisepolta in Firenze ", mentre è ormai pacifico che di patarini si parlerà ancora anche dopo la morte di D., come mostra, ad es., una novella, precedentemente ricordata, di F. Sacchetti: v. R. Manselli, L'eresia del male, Napoli 1963, 320-328, ove si rinvia ad altri lavori in proposito). Per il canto XXXII del Purgatorio è particolarmente importante F. Tocco, Il c. XXXII del Purgatorio, in Lect. Fiorentina, Firenze [s.a.], 1920; ma va visto anche G. Salvadori, La mirabile visione nel Paradiso Terrestre di D., Torino s.a (ma 1913), 128-132, che, sulla scorta di F.X. Kraus, Dante. Sein Leben und sein Werk, sein Verbältniss zur Kunst und Politik, Berlino 1897, 738-746, indica i rapporti fra D. e la concezione gioachimitica della storia della Chiesa, in cui l'e. ha un significato ben preciso e importante.
La trattazione più impegnata sulla questione di D. e dell'e. rimane l'ampio studio di F. Tocco, Quel che non c'è nella D.C. o D. e l'eresia, Bologna 1899, anche se dalle sue conclusioni abbiamo dovuto più volte discostarci. Utile, anche se assai discutibile, l'articolo di E. Proto, Gli eresiarchi, Firenze 1897, estratto dal " Giorn. d. " V (1897). Per l'e. in Firenze ci limitiamo a rinviare a R. Manselli, L'eresia del male, cit., 278-287, 317, 320, in cui si troveranno ulteriori indicazioni bibliografiche.