MORSELLI, Ercole Luigi
MORSELLI, Ercole Luigi. – Nacque a Pesaro il 19 febbraio 1882 da Antonio, ispettore demaniale originario del Piacentino, e da Anna Celli.
Il padre, dopo la morte della prima moglie, Anna Ferrari, con cui s’era sposato nel 1858, quarantanovenne nel 1881 si unì in seconde nozze con ‘Annetta’, di ben 23 anni più giovane. Oltre a essere un «serio e valido professionista all’apice della carriera lavorativa» (Bertoloni Meli - Ferrati, 1993, p. 6), coltivò timidamente la scrittura in versi (Per passatempo, Pesaro 1880).
Già a pochi anni dalla prematura scomparsa di Morselli, Pietro Pancrazi (1937, p. 201) si domandava perché qualcuno non si mettesse a scriverne la biografia: «romanzesca dal primo capitolo all’ultimo, perché romanzesco, dal principio alla fine, fu il Morselli».
Trasferitosi a Modena dopo poche settimane di vita, vi compì i primi studi elementari per diplomarsi, il 10 luglio 1891, a Firenze, ove l’anno precedente la famiglia si era stabilita. D’intelligenza precoce ma compreso nel cliché del fanciullo pensoso e malinconico soccorso dalla fantasia, si iscrisse al R. Ginnasio Galilei: tuttavia, l’iniziale brillante carriera scolastica del giovane cedette il passo, anche a causa del manifestarsi del male che causò la morte del padre nel 1895, costringendo Morselli – malvisto da Luigi Mateotti, docente di materie letterarie – a riparare in quell’anno presso il liceo Dante Alighieri.
Qui, allievo d’un italianista di rango come Orazio Bacci, venne instradato all’amor per le lettere tanto da pubblicare, prossimo agli esami di maturità, una chiosa dantesca su Il «cieco fiume» di Purgatorio I, 40 (in Giornale dantesco, VII [1899], pp. 306-310). Tuttavia, a prescinder dai classici e dall’inchiostro critico, del giovane, che fin d’adolescente predilesse la ‘prosa lirica’ fra le sue letture, proprio sulla cesura del secolo – fra il 1899 e il 1902 – fiorirono i primi organici appunti sui taccuini che possono considerarsi i cartoni preparatori dello scrittore di teatro.
Con Giovanni Papini – conosciuto nel 1897 – e quindi con Alfredo Mori e Giuseppe Prezzolini, Morselli partecipò di quell’humus fiorentino che, nonostante l’esaltazione giacobina, la passione per l’arte e per la filosofia positiva, fu l’innocua bohème di un cenacolo di ragazzi che convogliarono una ribellione anticonformistica nella ripulsa per le convenzioni borghesi, ma che di lì a poco avrebbe dato frutto, col sodalizio Papini-Prezzolini, nella preziosa tessitura e nel lavoro di scandaglio delle riviste, dal Leonardo alla Voce. I quattro controfirmarono solennemente, il 12 aprile 1900, nella cantina di via Cherubini n. 6, persino un Proclama degli Spiriti liberi, sorta di piccolo «vangelo ideologico-etico-comportamentale» (Bertoloni Meli - Ferrati, 1993, p. 24).
Iscrittosi nel 1899 con Papini alla facoltà di medicina dell’Università di Firenze, per specializzarsi in psichiatria, Morselli insieme al sodale amico presto si disperse in mille rivoli alternando ai buoni propositi e alle mal tollerate fatiche accademiche il ristoro di brevi viaggi, compiuti ora con uno ora con l’altro degli spiriti liberi, e di nottate trascorse nel cenacolo a fantasticare e discutere animatamente fra alcol e caffè e prime clandestine sigarette, seguite talvolta da blandi stupefacenti.
Stancatosi della medicina, dopo due anni Morselli si iscrisse al più confacente Istituto di studi superiori di Firenze, ma anche questa esperienza fu destinata a non durare: «il professore Guido Mazzoni lo bocciò ad un esame di letteratura italiana, e quella bocciatura fece sì che ci fosse un dottore in lettere di meno e un poeta di più» (Papini, 1932, p. 338). Il nuovo insuccesso acuì l’ostilità verso i benpensanti e, alla «nitida fronte che bruni i riccioli ricingono d’ombra, tutta soffusa di pallor malinconico» (Fracchia, 1920), Morselli coniugò pose romantiche e dandy.
Allontanatosi da Papini e Prezzolini, condivise la sete di novità, d’avventure, di grandezza e di fama con l’amico Federico Valerio Ratti. I due fecero di sogno realtà: recatisi prima a Viareggio, raggiunsero Genova dove il 4 agosto 1903, dopo infinite peripezie e grazie alla generosità del nostromo, si imbarcarono sull’Angela diretti a Città del Capo dove arrivarono, con imprevisti e ritardi, solo il 10 novembre. Ripiombati nell’indigenza ma senza aver rinunciato a esplorazioni e safari, i due, improvvisatisi nei più diversi lavori per sopravvivere, riuscirono infine a vendere qualche dozzina di acquerelli d’ambientazione italiana, per poter nuovamente salpare il 13 gennaio 1904, a bordo del vapore Honorius, alla volta del Sudamerica.
Approdati a Buenos Aires il 1° febbraio, non faticarono a procacciarsi una collaborazione giornalistica con la locale Prensa che già il 22 febbraio, con titolo Il Pellegrino, accolse in numero monografico gli scritti dei due «viatori del mondo». Tuttavia, venuti in contatto con un comitato garibaldino che doveva combattere per i colorados contro i blancos capeggiati dal generale Aparicio Saravia, e subito raggiunta Montevideo, il 15 marzo ricevettero la camicia rossa. Dall’Uruguay, sedata la rivolta, fecero quindi ritorno a Buenos Aires ove vennero accolti trionfalmente, abbandonandosi presto agli agi e alle mollezze della vita galante. Dopo un breve soggiorno a Rosario di Santa Fe fra il 10 aprile e il 6 maggio 1905, imbarcatisi sul Meleda il 9 giugno, dopo un viaggio altrettanto avventuroso, rischiando addirittura il naufragio, raggiunsero l’Inghilterra.
Di nuovo senza un soldo in terra straniera, Morselli – che, come già in Argentina poté contare su aiuti in denaro speditigli dalla madre – non rinunciò con Ratti a spingersi in Cornovaglia e, dopo aver transitato a Bristol e Cardiff, raggiunse Londra. Deluso dall’Inghilterra, approdò a Parigi al principio di settembre dove rimase incantato dalla città e – mercé ulteriori aiuti materni – poté fermarsi tre mesi approfondendone la conoscenza e facendo incetta di libri.
Tornato «più romantico e sognatore di come era partito» (Pancrazi, 1937, p. 203), dopo una breve sosta a Firenze, decise di raggiungere Ratti che lo aveva preceduto nella capitale: a caccia di contatti fruttuosi, divenuto frequentatore del caffè Aragno, conobbe Alberto Bergamini, direttore del Giornale d’Italia, che si rivelò poi aiuto prezioso. Giunse a Roma con un bagaglio leggero e un fascio di fogli ch’erano i suoi sogni di gloria ancora intatti. Dopo un ennesimo, fugace tentativo universitario, cercò di accreditarsi come giornalista, ma fatica e lentezze di quel mondo lo fecero presto passare dalla bohème vagheggiata degli anni appena trascorsi a una più cruda realtà e a difficoltà economiche che, salvo brevi parentesi, non lo abbandonarono mai.
L’intrapresa del Mercurio (giugno 1905-luglio 1909), un quindicinale illustrato del commercio in cui Morselli riversò non poche energie e molti dei risparmi e degli aiuti costantemente richiesti alla madre, che finirono per prosciugare le risorse familiari, accrebbe i problemi anziché risolverli. Dopo aver lasciato una sistemazione troppo dispendiosa per arrangiarsi nei locali della rivista, l’11 settembre 1905 si trasferì in lungotevere Mellini come affittuario di una stanza presso la famiglia Bertucci, dove, conosciuta l’ultimogenita Bianca, allora ventenne e promettente allieva del pianista Giovanni Sgambati, se ne innamorò.
Dopo una separazione forzata nell’estate del 1906 (v. carteggio compendiato a stampa: E.L. Morselli, Lettere d’amore a Bianca, in Nuova Antologia, 1° aprile 1932, pp. 289-301), i due si risolsero per la fuga romantica, preludio alle nozze civili che vennero celebrate in Campidoglio a Roma il 27 aprile 1907. Dall’unione nel 1908 nacque la figlia Giuliana. La madre, ch’ebbe sempre rapporti difficili con la nuora, non presenziò alla cerimonia e, impoverita dalle continue richieste di denaro del figlio, si ritirò in un modesto appartamento di Pesaro.
Raccolta la famiglia in un bilocale di via della Croce, dopo esser stato rifiutato da Treves, Morselli – che aveva già tentato la scrittura teatrale con Acqua sul fuoco (1907-08: dramma pastorale in un atto, poi a stampa con La prigione, Milano 1920) – diede alla luce le Favole per i re d’oggi (Roma 1909) mentre completava la stesura della tragicommedia Orione: fine declamatore, dopo letture pubbliche che destarono curiosità e consenso, e dopo aver anticipato il testo drammatico nella Rassegna italiana, la sera del 17 marzo 1910 la prima al teatro Argentina (compagnia Tumiati) ottenne un clamoroso successo. Tuttavia, presto svanita l’illusione di poter condurre una vita più agiata, ripiombò nella miseria e anche la messa in scena dell’inedita Acqua sul fuoco che seguì (Roma, 31 marzo 1910, teatro Metastasio, compagnia Martoglio) si ridusse a mera soddisfazione morale.
I continui cambiamenti di abitazione, che si alternarono fra indigenza e relativa serenità (nel luglio 1912 Orione venne insignito d’un premio di 1000 lire al Concorso governativo per il miglior lavoro drammatico dell’anno), non lenirono la cieca abnegazione dell’artista: nonostante i primi accenni della malattia che lo condusse alla morte, nel maggio 1911 licenziò la prima stesura de La prigione (rappresentata al Carignano di Torino nel novembre 1911, poi al Manzoni di Milano il 14 febbraio 1912 con la compagnia Falconi-Di Lorenzo), e pubblicò gran parte della produzione novellistica, in cui traspaiono, nei toni ora malinconici ora ironici con leggerezza di tocco risolta tutta ‘in levare’, piccoli apologhi morali e alcuni accenni alle straordinarie avventure della giovinezza (poi raccolte in Storie da ridere… e da piangere, Milano 1918; Il «Trio Stefania», ibid. 1919; postumi, per l’affettuosa cura dell’amico Tomaso Sillani, uscirono Favole e fantasie, ibid. 1928, e L’Osteria degli scampoli ed altri racconti, ibid. 1936).
Dopo aver fatto la comparsa cinematografica per sbarcare il lunario, accettò di dirigere la Santoni Films e fra il 1914 e il 1916 scrisse diversi soggetti per il cinema; fu regista, inoltre, con Ugo Falena, di Effetti di luce (1916: tratto da un soggetto di Lucio D’Ambra) che, severamente stroncato, passò senza lasciar traccia.
Negli anni della guerra tornò alla scrittura teatrale ma la diagnosi della tubercolosi e le continue difficoltà economiche convinsero Morselli – dopo le nozze religiose con Bianca, celebrate a Pesaro il 21 ottobre 1915 – a trasferirsi ad Alassio. Tuttavia, pochi mesi dopo, si vide necessario un non più procrastinabile ricovero sanatoriale a Prasomaso (presso Sondrio, ove giunse il 25 giugno 1916 fermandosi sette mesi), reso possibile dall’intercessione partecipe degli amici.
In una rassegnazione calma, senza sgomento, Morselli riscrisse interamente La prigione, lavorando al contempo al Glauco e a Dafni e Cloe (favola pastorale, rimasta incompiuta e pubbl. da Fernando Liuzzi in Nuova Antologia, 1°, 16 gennaio e 1° febbraio 1923, rispett. pp. 12-31; 133-144; 225-234).
Riparato sul lago di Como, quindi di nuovo in Liguria, nel dicembre 1917 attese alla frettolosa stesura del Belfagor, ma ritardi e difficoltà ne impedirono la messa in scena (l’«arcidiavoleria» in 4 atti fu pubblicata postuma da Sillani, Milano 1930; prima rappresentazione: Roma, teatro Valle, 19 aprile 1933). La precaria salute, i creditori alle calcagna, la morte della madre (1° marzo) e una grottesca condanna per diserzione che lo costrinse in carcere per alcuni giorni segnarono il 1918.
Finalmente, il 30 maggio 1919 il Glauco debuttò all’Argentina di Roma (compagnia Talli), riportando consenso unanime, rinnovando e amplificando il clamoroso successo dell’Orione.
Tanto nell’Orione – in cui l’eroe che tutti irride e piega al proprio volere è vinto dal morso di un banale scorpione – quanto nel Glauco – il pescatore che nella sua quête avventurosa giunge a ottenere l’immortalità ma, trovata defunta l’amata al suo ritorno, comprende la vanità di ogni cosa – non è difficile tratteggiare l’immaginario antieroico e crepuscolare dello scrittore. Nocquero a Morselli per due volte le sperticate lodi cui tennero dietro dimenticanza e oblio: caduto come una meteora nel mondo teatrale d’allora, il suo destino rammenta tal quale quello di Un marziano a Roma di Ennio Flaiano, la malinconica pièce autobiografica in cui si passa dallo sgomento e dalla curiosità, che inizialmente suscita l’apparizione del marziano Kunt atterrato a villa Borghese, all’incuria e al disinteresse finale in cui resterà invischiato.
Tornato a vivere nel Pesarese all’indomani della morte di Annetta, nell’autunno del 1920 coi proventi del Glauco, poté finalmente acquistare una villetta a Colle San Bartolo. Ma già sul finire del gennaio successivo, l’ennesimo peggioramento lo costrinse al ricovero d’urgenza presso la clinica Morgagni di Roma.
Qui morì il 16 marzo 1921 e, dal 26 maggio 1927, la salma riposa nel Campo Verano.
Morselli s’inscrive entro la parabola del teatro ‘lirico’, fortemente connotata dal linguaggio dannunziano, ma la sua opera rammenta in colori e fantasia le «fiabe defunte delle sovrapporte» di Guido Gozzano: contraria dunque al residuo purtroppo cospicuo del peggiore d’Annunzio (Benelli, Chiarelli, Rosso di San Secondo), non fu gravata da eccessiva verbosità o da orpelli decorativi e simbolici. Anche la rivisitazione del mito, in Morselli, è operazione compiuta dal basso: le sue figure, che sembrano trascorrere sulla terra senza calcarla, prendono vita non per sapienza di filologo ma per intimità di spirito, in piena libertà creativa e fuori da secche erudite. Pancrazi scrisse, a ragione, di «disarmato candore» (1937, p. 206). La cifra di Morselli – nostalgica, crepuscolare, sognante, circoscritta di emotività stupita – risiede nelle sue favole senza morale, nel doppio registro (già appartenuto a Oscar Wilde) del sublime-prezioso e del cinico-paradossale: «due aspetti, solo in apparenza diversi, del medesimo atteggiamento di là dal bene e dal male» (De Michelis, 1939, p. 131).
Fonti e Bibl.: Le carte dello scrittore sono conservate a Pesaro, presso la Biblioteca Oliveriana, nel Fondo Morselli: v. la Presentazione di A. Brancati (pp. XIII-XV), nell’accurato studio di V. Bertoloni Meli - L. Ferrati, E.L. M.: vita e opera, Scandicci 1993 (che si avvale con cura del materiale ivi conservato). R. Piccoli, E.L. M., in La Voce, II (1910), 35, pp. 373 s.; U. Fracchia, Glauco scrittor comico, in L’Idea nazionale, 29 febbraio 1920; Gaio, E.L. M., in Il Marzocco, 27 marzo 1921, p. 3; G.M. Felici, E.L. M., in Picenum, XVIII (1921), 4, pp. 112-114; A. Tilgher, Voci del tempo…, Roma 1921, pp. 89-100; G. Calza Bedolo, Il poeta del «Glauco», in Il Giornale d’Italia, 1° giugno 1923; L. D’Ambra, M. sepolto nel cielo, in Rassegna italiana politica letteraria e artistica, s. 2, X (1927), giugno, pp. 563-565 (seguito da I fratelli d’arte per il Poeta e La commemorazione, pp. 565-569); A. Della Massèa, E.L. M.: la vita e gli scritti, Foligno 1928; M.L. Fiumi, Favole e fantasie, in Rassegna nazionale, s. 3, L (1928), 3, pp. 128 s.; P. Gorgolini, Italica, III, Torino 1928, pp. 1326-1332; C. Pellizzi, Le lettere italiane del nostro secolo, Milano 1929, ad ind.; Valutazioni di M. - Un giudizio poco noto di Giovanni Papini sul poeta di «Glauco», in Rass. italiana…, s. 3, XIII (1930), aprile, pp. 346-348; S. D’Amico, M. e il «Belfagor», in Pègaso, II (1930), 4, pp. 450-454; R. Rugani, E.L. M., Firenze 1931 (con bibl.: pp. 107-109); S. D’Amico, Il teatro italiano, Milano-Roma 1932, pp. 88-97; G. Papini, E.L. M. (1921), in Id., Ritratti italiani (1904-1931), Firenze 1932, pp. 325-347; A. Marpicati, Il «Glauco» di E.L. M., in Id., Saggi di letteratura, Firenze 1933, pp. 370-373; A. Cecchi, «Belfagor» di E.L. M., in Rass. italiana…, s. 3, XVI (1933), maggio, pp. 434-437; A. Bocelli, Scrittori d’oggi, in Nuova Antologia, 1° agosto 1937, pp. 347-349; P. Pancrazi, Un romantico: E.L. M., in Id., Scrittori italiani dal Carducci al D’Annunzio, Bari 1937, pp. 201-207; E. Bona, Appunti biografici su E.L. M., in Riv. italiana del Dramma, III (1939), 1, pp. 380-382; E. De Michelis, Il mito del M., ibid., 2, pp. 129-154; L. Russo, M. E.L., in Id., I narratori, nuova ed., Milano-Messina 1951, pp. 212 s.; L. Ferrati, Il poeta del teatro e della vita: E.L. M., Pesaro 2010; G.M. Masselli, Glauco, dio ‘in erba’: da Publio Ovidio Nasone a E.L. M., Foggia 2011.