ERCHEMPERTO
Di questo monaco cassinese del sec. IX, scrittore e poeta in latino, la cui opera cronistica è stata a buon diritto definita dalla Westerbergh "the chief historical source ... from Arechis up to Adelchis", possediamo purtroppo solo notizie assai scarse e frammentarie: appunto quelle poche ed occasionali che egli stesso fornisce di sé nei suoi scritti. Ignoriamo dove e quando nacque, il nome dei suoi genitori, il rango sociale della famiglia cui appartenne. Non conosciamo né l'epoca né il luogo in cui entrò in religione, né il centro in cui compì la sua formazione culturale e monastica.
Che suo padre fosse un nobile teanese di nome Adelgario e che egli "apud Teanum cum oblationibus" fosse stato offerto "beato Benedicto" quand'era ancora un "docilis ingenii puer" sono notizie date per la prima volta dai Chronica monasterii Casinensis (I, 47) di Leone Ostiense: esse nascono tuttavia da un errore del futuro cardinale vescovo di Ostia, il quale - come si trae dal manoscritto monacense che ci ha conservato la più antica redazione di quel testo - con ogni probabilità ha frainteso il materiale d'archivio da lui utilizzato. Che E. abbia fatto parte della comunità monastica cassinese è provato, come rilevò il Falco (p. 265 n. 1), non solo da vari passi della sua opera storica, ma è affermato esplicitamente dall'incipit del così detto MartyrologiumErchemperti nella redazione conservataci dal codice 19. A. 16 della Bibl. nacional di Madrid. La tesi del Klewitz, secondo cui E. fu estraneo alla comunità cassinese, è stata confutata con buone argomentazioni dal Meyvaert (Erchempert, moine du Mont-Cassin), il quale fa propri alcuni dei rilievi del Falco.
La prima volta che E. dice qualcosa di sé è nel cap. 46 della sua Ystoriola, dove, dopo aver narrato dell'improvviso attacco condotto con l'appoggio di milizie napoletane dal principe di Capua Pandonolfo contro il castrum Pilanum, un borgo fortificato presso Conca della Campania (Caserta), e dopo aver riferito della caduta per tradimento del castrum nelle mani degli attaccanti, ricorda che in quella occasione anch'egli fu fatto prigioniero, spogliato di tutti i beni da lui posseduti fin dalla fanciullezza e deportato a Capua il 23 ag. 881. Le parole di E. vibrano ancora per l'umiliazione dell'onta patita in quell'occasione, specie nell'amaro accenno all'avvilente marcia compiuta allora a piedi, sospinto dai reparti a cavallo del vincitore, per coprire la distanza dal castrum Pilanum sino a Capua. Da esse, tuttavia, sembra lecito trarre in sede biografica alcune conclusioni: quando, nell'estate dell'881, Pandonolfo di Capua compì il suo colpo di mano, E. era ormai adulto, aveva la sua residenza nel castrum Pilanum e non era ancora entrato in religione. Possedeva infatti, non sappiamo a quale titolo, beni, di cui ignoriamo la natura, "a pueritia acquisiti", e di essi disponeva a proprio piacimento.
E. venne in seguito in contatto con la comunità cassinese, della quale entrò a far parte allorché abbracciò la vita religiosa. Non conosciamo né le motivazioni, né l'epoca in cui egli maturò e mise in pratica tale decisione: ignoriamo se ciò fu prima del saccheggio e della distruzione della celebre abbazia operata dai Saraceni il 4 sett. 883, o dopo di essa, quando quella comunità si rifugiò a Teano, inizialmente, e in seguito a Capua. Perciò non possiamo nemmeno sapere dove abbia vestito l'abito monastico. Certo è, ad ogni modo, che già intorno alla metà del nono decennio del secolo, quando più aspra si combatteva tra Napoletani e Capuani la lotta per il dominio sulla Terra di Lavoro, egli appare membro rilevante della comunità cassinese, come dimostra un episodio ricordato dallo stesso E. al cap. 61 della sua Ystoriola e relativo all'886. In quell'anno gli venne affidato il compito di guidare, insieme con un "preceptor", un convoglio di tre carri, che doveva trasportare da Teano a Capua un grosso quantitativo di vettovaglie e "multae opulentiae". Nei pressi di Anghiena la piccola colonna fu bloccata da un reparto di soldati greci che combattevano al servizio del vescovo e duca di Napoli Atanasio II: E., il "preceptor", gli addetti ai carriaggi vennero costretti a scendere di sella e furono fatti prigionieri; il carico venne confiscato, insieme con le cavalcature. A prezzo di un'ingente somma di danaro si poterono, in un secondo tempo, riscattare gli uomini e solo cinque dei loro cavalli; ma E. ed il "preceptor" dovettero compiere a piedi il tragitto sino a Capua. Se E. ed i suoi avevano potuto riacquistare la libertà pagandola, per il carico non ci fu nulla da fare. È vero che E. venne inviato a Napoli per presentare al vescovo e duca Atanasio II le proteste dei monaci cassinesi contro l'attacco banditesco ed esigere la restituzione del maltolto. È anche vero che la missione si risolse in un fallimento e che egli tornò a Capua a mani vuote.
La delicatezza degli incarichi e delle funzioni da lui svolte nell'886, se da un lato provano il rilievo che E. aveva ormai acquistato all'interno della comunità cassinese, concorrono dall'altro a far apparire improbabile che egli fosse allora - come pure è stato affermato - un semplice converso, e che suo maestro fosse quel "preceptor" così indefinibile nella sua personalità, del quale si passano sotto silenzio il nome e l'ufficio da lui ricoperto, ed a proposito del quale il Falco avanza con prudenza l'ipotesi che, invece di un "preceptor", egli fosse un "perceptor", "incaricato della riscossione dei censi spettanti al monastero" (Falco, p. 266).
Ancora un ruolo di primo piano svolse E. l'anno seguente, quando Atenolfo di Teano, impadronitosi di Capua (7 genn. 887), "continuo se comitem appelari iussit" ed, espulsi i monaci cassinesi dalla città, ne confiscò i beni: "omnia quacque Benedictus infra civitatem Capuanam possedit". In un simile frangente E. ricevette dall'abate, che era allora Angelario, un importante incarico: quello di recarsi a Roma, presso il papa Stefano V (VI), per protestare contro l'usurpazione compiuta dal nuovo padrone di Capua, "postulaturus pro rebus nostris ablatis", ed ottenere che il pontefice intervenisse in favore della comunità cassinese. E. svolse egregiamente la sua missione, che raggiunse gli effetti sperati. Stefano V, infatti, non solo gli affidò una lettera, da consegnare ad Atenolfo, nella quale invitava quest'ultimo a restituire i beni usurpati, ma gli affidò anche il compito di portare ai suoi confratelli "et benedictionem ... et privilegium nostri coenobii". Atenolfo, sia pure a malincuore, per ragioni di ordine politico si indusse ad ottemperare con sollecitudine alle esortazioni del papa. Trovò tuttavia anche il modo per far intendere all'abate Angelario ed al di lui inviato quanto la loro iniziativa lo avesse contrariato. Non potendo rifarsi sul primo, il quale aveva dimostrato di aver dalla sua il pontefice, colpì il secondo, che meno poteva reagire: E., appunto. "Dominicalis res ablata reddita est", annota infatti E. subito dopo aver dato notizia, nel cap. 69, del felice esito della sua missione romana; ma aggiunge immediatamente, con amarezza: "mea autem ex toto subtracta" spiegando come, all'indomani del suo rientro a Capua, "in proximo", gli fosse stata confiscata la "cella", che il suo abate gli aveva accordato, ignoriamo a quale titolo.
Questo laconico e dolente accenno, con cui si conclude il cap. 69 della Ystoriola di E., ha posto in imbarazzo la critica storica, che non è riuscita sinora a dare una risposta veramente soddisfacente ai problemi che esso pone. Innanzi tutto il cronista non dice esplicitamente dove si trovasse la "cella", che gli era stata sottratta da Atenolfo (ma il contesto sembra giustificare l'ipotesi che essa fosse sita nella stessa città di Capua o nelle sue immediate vicinanze). In secondo luogo E. connette immediatamente tra loro la "res mea" che gli fu in quel frangente "ex toto subtracta" e la "cellam mihi abbate traditam": il che sembra urtare contro i capitoli della regola di s. Benedetto, che vietano al monaco il possesso di beni che non siano quelli di uso strettamente personale. "Con spirito poco benedettino", osserva il Falco a questo proposito (p. 267, nota 1), E. "parla della cella come di cosa sua: ciò che per un "praepositus" parrebbe non giustificato: meno ingiustificato se egli avesse gli ordini sacri e fosse incaricato, oltre che dell'amministrazione patrimoniale della cella, anche della celebrazione del culto. Ma nulla - salvo quei beni 'a pueritia acquisitis' - potrebbe confermare una simile supposizione".
Le fonti a noi note nulla più riferiscono circa gli eventi della vita di E. posteriori all'887.
Delle opere composte da E., cronista e poeta, conosciamo:
a) la Ystoriola Langobardorum Beneventum degentium, conservataci dal solo cod. Vat. lat. 5001 (secc. XIII-XIV), ff. 106 ss., del quale conosciamo numerosi apografi seriori. L'Ystoriola è stata pubblicata più volte a partire dal secondo quarto del sec. XVII; la sua edizione critica più recente, tuttavia, resta sempre quella data da G. H. Waitz, in Mon. Germ. Hist., Script. rer. Lang. …, I, Hannoverae 1878, pp. 224-264.
b) Il breve carme (diciassette distici elegiaci) "Vir bonus, dulcis, amans, mitis, serenissime princeps", che precede immediatamente nel cod. Vat. lat. 5001, f. 105r, la Ystoriola. Esso fu pubblicato per la prima volta da G. H. Pertz, in Mon. Germ. Hist., Scriptores, III, Hannoverae 1839, pp. 560 s. Lo studioso tedesco, equivocando sull'interpretazione del secondo verso, che così trascrisse: "armis, aio, Dei auxiliove potens", lo ritenne dedicato a Landolfo, principe di Capua, Benevento e Salerno († 981), lo attribuì ad un anonimo poeta della seconda metà del sec. X e lo credette parte integrante del Chronicon Salernitanum (il cui testo è contenuto nei ff. 1-104r dello stesso cod. Vat. lat. 5001). In queste conclusioni del Pertz consentì anche K. Strecker, che dette la seconda edizione critica del carme in Mon. Germ. Hist., Poëtae Latini Medii Aevi, V, 2, Lipsiae 1939, pp. 413 s. L'edizione più recente del carme è quella data da U. Westerbergh, in Erchempert, a Beneventan poet and partisan, pp. 8 s. In questo saggio, tuttavia, la studiosa svedese, correggendo l'errore del Pertz, non solo ha dimostrato che il carme era stato in realtà indirizzato al principe di Benevento Aione II († 890), ma, sulla base di un'approfondita indagine di critica interna e di confronto filologico, ha potuto provare che esso è opera di E. e costituisce l'introduzione dedicatoria della stessa Ystoriola.
c) Il Martyrologium, ampliamento in esametri del Kalendarium metricum Eboriacense già attribuito al venerabile Beda, conservatoci dai codici: Vesp. B. VI Cotton, della British Library di Londra; Fonds Lat. 7418 della Bibl. nationale di Parigi; Bibl. Nac. 19. A. 16 di Madrid, già citato. Pubblicato per la prima volta da A. Cordoliani, Un manuscrit de comput ecclésiastique mal connu de la Bibliothèque Nationale de Madrid, in Revista de Archivos, Bibliotecas y Museos, LVII (1951), App., pp. 74-90, l'edizione critica più recente del Martyrologium è quella che la Westerbergh fornisce alle pp. 77-80 del suo studio The so-called Martyrologium Erchemperti.
La YstoriolaLangobardorum Beneventum degentium, che abbraccia gli anni dal 787 all'889, narra avvenimenti fondamentali per la storia dell'Italia medievale, soprattutto riferita alle vicende del Mezzogiorno. Le lotte tra i Franchi e i Longobardi di Benevento; gli assedi longobardi a Napoli e ad Amalfi; la rottura dell'unità beneventana; le incursioni saracene; la discesa nell'Italia meridionale di Ludovico II; le lotte all'interno della contea di Capua e l'affermarsi della dinastia capuana; l'esaltazione del capuano Atenolfo contro il duca Atanasio, vescovo di Napoli, ma anche la sua erroneità, comune a tutti i nemici dell'Ordine cassinese, almeno nei giudizi degli storiografi benedettini. Questi sono i temi dominanti della storiografia di E., testimone consapevole del modificarsi d'un mondo dove i potenti esprimono una mutevolezza di condotte e di durate che pone continuamente in crisi le strutture stesse dello schema di scrittura perseguito da chi, come E., insegue un personale modello, senza troppo illudersi di poter emulare l'altezza stilistica e morale di Paolo Diacono.
All'inizio dell'Ystoriola E. dichiara il proprio atteggiamento: fin da questo esordio possiamo scoprire l'individualizzante componente autobiografica, intermittente ma vitale, che percorre tutta l'opera. Si tratta della famosa perorazione-denuncia sul malessere del presente. Paolo Diacono - vi si afferma -, uomo di grande sapienza, ha narrato in modo succinto ma compendioso, semplice e acutissimo, gli episodi riguardanti l'origine dei Longobardi, la figura di Gambara e i suoi due figli, Ibor e Aione, fino al regno di Rachi. Paolo ha detto il loro peregrinare dalla Scandinavia alla Pannonia e, di lì, in Italia.
Accanto a questa illustre tradizione E. pone la necessità della propria testimonianza, così intrisa di dolore, dedicata alla storia, scritta per la posterità, dei Longobardi residenti a Benevento: storia "piccola" (ystoriola) rispetto alla storia "maggiore" di Paolo, storia in cui nulla si trova di lodevole e degno per questo suo popolo. Non il suo dominio, ma il suo tramonto; non la felicità, ma la miseria; non il trionfo, ma la rovina; storia che dice non come i Longobardi abbiano progredito, ma come siano caduti; non come sconfissero gli altri popoli, ma come dagli altri furono sopraffatti e sconfitti. E., che ha visto e sentito tutto questo, racconta con un complessivo accento di partecipe ed elegante mestizia.
Cosi, la straordinaria ouverture dell'Ystoriola non è soltanto il suo programma storiografico e l'ammissione d'una personale cifra mentale "in levare", ma rappresenta anche la fortissima presa di coscienza d'un obbligo d'essere dentro le cose per spiegarle a chi verrà dopo, allineandosi nella grande eredità di Paolo Diacono come un momento ulteriore di in progress storiografico. Formidabile affermazione in positivo di farsi scrittore quando vi siano cose, pur al negativo, di cui scrivere; scrittore con un io dominante. Sul finire del IX secolo, dunque, il longobardo e benedettino E. narra il collasso del proprio mondo, la sua "storia di lutti", come mirabilmente la definisce Giorgio Falco. Per nascere così, non possiamo non aspettarci che lo stesso E. indichi percorsi su cui ritrovare la sua (auto)biografia. Non abbiamo infatti testimonianze più esaurienti, a parte quelle ricordate in apertura, che ci dicano la sua provenienza familiare o la sua pur prevedibile formazione monastica.
L'Ystoriola s'interrompe con la promessa di raccontare le imprese di Guido e di Berengario. Ma non accade più nulla: E. "scompare silenziosamente, come, oscuramente, era apparso sulla scena della storia" scrive Falco, e la forza dell'EgoErchempert all'attacco dell'Ystoriola, che sembrava poter reggere il confronto con Paolo Diacono, definito historiographus doctor, resta un altissimo connotato d'una fisionomia di intellettuale coinvolto nelle cose della vita e nei fatti del tempo suo fino a rimanerne cancellato; ma non nell'originalità e nell'unicità della sua testimonianza, che fanno di E. un caso tutto differente nel bilancio della letteratura mediolatina in Italia. Perché la piccola storia del principato di Benevento, dalla difesa di Arechi e Grimoaldo contro Carlo Magno e Pipino fino alla divisione ed all'affermarsi di Atenolfo di Capua e della dinastia capuana, copre circa un secolo che l'autore vive in parte "in diretta" e in parte raccogliendo, come dice, l'ampio arco delle tradizioni orali che su episodi tanto significativi per le società meridionali dovevano avere una circolazione assai ricca.
Per come si è formato il tessuto dell'Ystoriola non abbiamo molto spazio da dare alle fonti dell'opera, ma occorre sottolineare di cosa sia fatta la cultura di Erchemperto. Autore di versi, tra cui un Carme dedicato ad Aione di Benevento, ben attento alle etimologie, E. cita Orazio e probabilmente conosce Livio e Sallustio, almeno attraverso i fiorilegi che circolavano nelle scuole monastiche. Ma proprio nel Carme per Aione egli dimostra di possedere nozioni di teologia più sofisticate (la dottrina della gerarchia celeste, secondo Dionigi l'Aeropagita, trasmessa da Giovanni Scoto) o di saper frequentare con qualche confidenza la letteratura carolingia (Alcuino, Ermoldo Nigello, Rabano Mauro, Valafrido Strabone, Versus Galcaudi, Ecloga Nasonis) o di saper usare tecniche versificatorie (allitterazione, chiasmo, parafrasi metrica), che distinguono certo un uomo di cultura al di sopra della media.
Nell'opera in prosa l'autore non fa sfoggio particolare di questi arredi e l'impianto della narrazione non risente mai dei modelli classici che talvolta la critica vuole ad ogni costo ritrovarvi: le "intonazioni" sallustiane o liviane non sfiorano mai la prosa dell'Ystoriola dove ogni fatto o personaggio è seguito nell'esercizio della prassi quotidiana. Una prassi che prende lo stesso E. il cui carattere affiora bene da quel che scrive.
Più disposto a comprendere i laici che gli ecclesiastici, E. ha opinioni oscillanti sui papi: Niccolò I è inteso in tutta la sua grandezza. Stefano V giudicato non più che devoto; Giovanni VIII detto estraneamente "papa". Sull'opposto versante dell'istituzione temporale l'imperatore Lodovico II è visto come un uomo pio, benevolo con tutti, candido di cuore, protettore di sudditi e di sopraffatti; quando Lodovico o i Franchi si allontanano da questo tracciato di bontà protetta da Dio è l'opera del diavolo che prevale ed essi ne sono, come tutti, povere vittime. L'imperatore di Bisanzio è inteso con minor carisma, eppure E. è educato a riconoscere come proveniente da Dio l'autorità: rispetto, dunque, verso quel sovrano, ma odio feroce verso i Greci, cristiani solo nel nome ma più nefandi dei Saraceni e bugiardi solo al pari dei Napoletani.
Tuttavia E. è l'unica fonte per la storia dell'Italia meridionale e l'importo di questi suoi assensi o dissensi punteggia l'intero quadro mentale che ci facciamo di lui. Come è profonda la sua convinzione che la corruttibilità degli individui abbia il suo teatro migliore nell'amore e nella sua fragilità. Esempi: la principessa bizantina Evanzia, sposa di Grimoaldo I, protagonista insieme col marito d'un amore che com'era stato irruento si tramuta in un violento odio; o Atanasio, vescovo duca di Napoli, che cerca di sedurre i nipoti del conte di Capua servendosi della propria nipote. Fino a sfociare nell'umorismo amaro, come gli accade quando giudica il non amato Landolfo, vescovo conte di Capua (836-879), il quale era molto superstizioso e tanto avverso ai monaci che soltanto la vista d'uno di loro gli rovinava la giornata.
In questa sensibilità tutta pratica ed oggettuale l'autore, pur monaco, si conferma come ben lontano dal vedere la storia in modo monastico: solo di tanto in tanto - le miracolose guarigioni dei fedeli presso la tomba dell'abate Deusdedit, l'immane chioma di fuoco scagliata da Dio in mezzo alle navi dei Saraceni - E. si ferma su questo effimero provvidenzialismo più agiografico che storico. La sua chiave resta quella d'una visione civile e nazionale dei fatti, con un forte etnos longobardo da difendere tra tanta disparità delle cose.
Il punto problematico della psicologia di E. sta nel continuo passaggio di Arabi, Spoletini, Greci, Napoletani, Beneventani, Capuani persi fra le devastazioni, gli assedi, i soprusi, i saccheggi, ed in mezzo a questa bufera di presenze e sentimenti tentare sempre di capire il comportamento dei principi di Benevento, di Salerno, dei gastaldi e dei conti di Capua; sullo sfondo o, di volta in volta, in primo piano il ruolo delle altre forze in campo: Napoli, il Papato, l'Impero d'Oriente e d'Occidente. Attraverso la somma di queste posizioni possiamo fabbricarci un'immagine abbastanza fedele d'un individuo che, coinvolto negli intrecci del suo tempo, è tanto flessibile, pur nelle sue fedi, da accettare i non-sensi della storia: la corruzione, la potenza dei ruoli, il potere del danaro, le uccisioni eseguite o mancate, il disincantamento e il disincanto anche di fronte a fatti mistici o estatici, come accade narrando l'estasi profetica di Landolfo per poi aggiungervi una testimonianza dei presenti che vanifica l'ispirazione con cui l'episodio è raccontato. Tutto ciò che narra E. è sottoposto al doppio registro della sua irruenza di giudizio (di longobardo, di cassinese, di rancori e risentimenti molto più che comprensioni e perdoni) e alla fallibilità della tradizione orale. Questo giustifica la presenza di numerosi "fattori emotivi" della storia, come sono le battaglie, i duelli; ed anche se vi si riscontra qualche reminiscenza classica, è l'occhio di chi ha visto o l'ascolto di chi ne è stato informato a fissare le scene. Atanasio di Napoli vuole impadronirsi di Capua: di mezzo ci sono Landone II e il malizioso, ambiguo suo cugino Atenolfo; "Prendi i figli di Landone" dice ad Atenolfo Atanasio "così tu solo comanderai!". Ma quello e quelli mai si faranno la guerra tra consanguinei, anzi si fanno il segno della croce! Quando, però, Landone sa che Atenolfo è andato a Napoli per consultarsi ancora con Atanasio, gli spedisce appresso due messaggeri. Niente da fare: Landone rinuncia a tutto e torna a Teano a curarsi i propri acciacchi; Atenolfo, d'accordo con Atanasio, s'impadronisce di Capua.
La storia è un niente, cambia come vuole, le parole servono poco, il sangue non sempre, le malattie progrediscono, gli uomini si accordano contro ogni logica. E. annota e riferisce. E c'è anche la certezza ch'egli capisca la violenza irrazionale di tutto questo. Ecco, allora, perché tante piccole interruzioni, nell'Ystoriola, dedicate al sicuro e divertente gioco dell'etimologia, dei grecismi, d'inutili ma funzionali precisazioni erudite che hanno il compito di 'staccare' sul quadro degli avvenimenti; e quando accade di veder fatto monaco addirittura un assassino (Radelchi, uccisore di Grimoaldo IV) allora è giusto perfino ricorrere alla presenza in carne ed ossa del diavolo che si aggira nel monastero di Montecassino, egli stesso lamentandosi con s. Benedetto: "Ahimé, Benedetto! Perché mi tormenti in ogni modo? Prima mi scacci ingiustamente da qui, e adesso ti prendi le mie membra!", ove Radelchi è giudicato un pezzo del corpo del diavolo stesso!
E. costretto ad affidare le sue certezze soltanto all'etnos longobardo, a rivolgersi ai Beneventani che nelle persone di Arechi e Grimoaldo sono vissuti come un autentico mito storiografico, fuori dalle caducità. Oltre c'è il nulla o il disordine, semmai incarnato nelle figure di Sicone e Sicardo, principi "neri" di Benevento: l'uno feroce ed ingiusto, l'altro superbo, lussurioso, bestiale. Quando lo schema padre-figlio, così sacro al germanesimo longobardo di E., si flette verso la colpa e la nefandezza nessuna storia e più possibile: per questo l'Ego Erchempert, del prologo, è intriso di sconforto.
Il Falco, che ha scritto il più bel saggio che la bibliografia sullo scrittore dell'Ystoriola possa annoverare, rintraccia in lui "qualcosa di primitivo, di sano, di vigoroso, un male e un dolore che non sono disfacimento e corruzione", i cui personaggi sono "angustiati nel particolare, nell'episodico, senza passato e senza avvenire, dotati di una volubilità malvagia, di una forza di simulazione e di dissimulazione quasi inconcepibili; mossi alle loro azioni da alcune grandi passioni elementari, permanenti o improvvise: odio, ambizione, avidità, paura. Tale fu, di fatto, la società dell'Italia meridionale".
Com'è questa società, così sono i giudizi di E., tutti rivolti più facilmente all'odio, ove si condannano i cattivi sacerdoti e si salvano i forti guerrieri (è il caso di Landolfo, il vescovo conte di Capua, di Landone I, di Landone II). Qualche incertezza nei confronti di Atenolfo di Capua che, vivente mentre E. scriveva, interseca la sua biografia con quella, appesa ad un filo, dell'autore. Soltanto la coscienza di longobardo tiene in piedi lo scrittore: sarà l'eredità di Paolo Diacono, ma è solo questa, perché sul piano storiografico assistiamo davvero alla cronaca d'un fallimento etnico. Il modo d'essere longobardo di E. è davvero tutto vissuto nel suo "dentro" più che in un "fuori" senza speranza e senza domani. Fisionomia drammatica, dunque, che il Medioevo a lui successivo cerca d'attenuare.
La fortuna medievale dell'Ystoriola è derivata dal fatto che essa è la sola cronaca esistente riferentesi a questo periodo: così vive l'Ystoriola Leone Marsicano, che ne riporta molti passi nella parte iniziale dell'opera sua; così soprattutto nasce il confronto-recensione che ce ne offre l'Anonimo autore del Chronicon Salernitanum. L'Ystoriola è ilsecondo momento della triade longobarda costituita, nella storiografia, dall'Historia Langobardorum di Paolo e, al terzo stadio, dal Chronicon. L'Anonimo si appoggia fiducioso all'opera del confratello E., scrittore una sessantina d'anni prima di lui. L'Anonimo avverte l'incalzante casistica dei personaggi, la fiera parzialità di E.: gli piace quella teoria di conti, duchi, gastaldi, invasori, sopraffattori. La storia del Chronicon e occupata in massima parte dalle vicende che riguardano Salerno e Benevento e, per tal verso, possiamo dire che l'Anonimo adotta una doppia tecnica nell'uso della sua fonte: finché il confronto tra Benevento e Salerno resta diretto, la narrazione di E. interpunge quella del Chronicon; quando poi sorge e si afferma la dinastia capuana ecco che la testimonianza di E. si fa primaria e l'Anonimo è egli stesso coinvolto in una adesione di odi, consensi, passioni. Ma il Chronicon non possiede l'acume storico, la capacità di analizzare condotte politiche secondo il modulo erchempertiano: la sua "stravaganza" è fatta di una differente utilizzazione della tradizione orale e, probabilmente, d'una maggiore lontananza dagli avvenimenti d'un minore coinvolgimento autobiografico. Il germanesimo e la latinità che ispirano il dramma autobiografico di E. si attenuano nella soluzione letteraria offerta dal Chronicon Salernitanum dove meno forte è l'empito dell'etnos, ma ben più maturo il livello di "disponibilità" a interessarsi di cose ed uomini. Nel Chronicon Paolo Diacono è vissuto nella tradizionale continuità longobarda, ma dopo lui c'è il malessere di tutte quelle sventure di cui solo E. resta testimone, ed è con questo che il Chronicon fa i conti. Conti che tornano a tratti per nessuna somma conclusiva. Il Chronicon Salernitanum rimane tuttavia un illuminante tentativo di "normalizzazione" d'un testo come l'Ystoriola, che mai è "normale", mai disinnescabile dalle sue interne deflagrazioni emotive. Questo fa di E. uno scrittore difficile da inserire in un quadro in progress a meno che non si decida, com'è giusto fare, di accettare la sua proposta storiografica negativa e leggere l'Ystoriola nell'unico modo possibile: l'autobiografia d'un testimone ribelle al tempo suo.
Fonti e Bibl.: Erchemperti Historia Langobardorum Beneventanorum, a cura di G. Waitz, in Mon. Germ. Hist., Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum..., I, Hannoverae 1878, capp. 1, p. 254; 44, p. 254; 61, p. 259; 69, p. 261; Chronica Sancti Benedicti Casinensis, a cura di G. Waitz, ibid., p. 488; Chronica monasterii Casinensis, a cura di H. Hoffmann, ibid., Scriptores, XXXIV, ibid. 1980, 1, 47, pp. 124 s.; Petri Diaconi Liber de viris illustribus Casinensibus, in Migne, Patr. Lat. ..., CLXXIII, cap. 16, coll. 1003-1062; Chronicon Salernitanum, a cura di U. Westerbergh, in Studia Latina Stockholmiensia, III, Stockholm 1956, ad Indicem; W. Wattenbach, Deutschlands Geschichtsquellen, Berlin 1893, p. 307; U. Balzani, Le cronache italiane nel Medio Evo, Milano 1909, pp. 115 ss.; M. Manitius, Geschichte der lateinischen Literatur des Mittelalters, I, München 1911, pp. 709 s.; M. Schipa, Il Mezzogiorno d'Italia anteriormente alla monarchia, Bari 1923, ad Indicem; H. W. Klewitz, Petrus Diaconus und die montecasin. Klosterchronik, in Archiv für Urkundenforschung, XIV (1936), pp. 414-453; D. Bianchi, Da Paolo Diacono all'Anonimo Salernitano, in Mem. stor. forogiuliesi, XXXIII-XXXIV (1937-1938), pp. 27-64; G. Falco, E., in Albori d'Europa. Pagine di storia medioevale, Roma 1947, pp. 264-292; C. G. Mor, La storiografia italiana del secolo IX: da Andrea da Bergamo ad E., in Atti del II Congresso internazionale di studi sull'Alto Medioevo ... 1952, Spoleto 1953, pp. 141-147; U. Westerbergh, Erchempert, a Beneventan poet and partisan, in Beneventan nineth century poetry, in Studia Latina Stockholmiensia, IV, Stockholm s. d. [ma 1957], pp. 8-29; Id., The so-called Martyrologium Erchemperti, ibid., pp. 75-87; P. Meyvaert, Erchempert, moine du Mont-Cassin, in Revue bénédictine, LXIX (1959), pp. 101-105; Id., Erchempert, in Dict. d'hist. et de géogr. ecclés., XV, Paris 1963, coll. 685 ss.; N. Cilento, I cronisti della Longobardia minore, in Id., Italia meridionale longobarda, Milano-Napoli 1966, pp. 51-56; Id., La storiografia nell'Italia meridionale, in La storiografia altomedievale, Spoleto 1970, pp. 521-556; M. Oldoni, Anonimo Salernitano del X secolo, Napoli 1972, pp. 87-93 e passim; Id., Intellettuali cassinesi di fronte ai Normanni, in Miscellanea di storia italiana e mediterranea, Genova 1978, pp. 95-153, in particolare pp. 106-115.