equo canone
Espressione con cui il legislatore ha designato l’ammontare massimo del corrispettivo che il conduttore di un immobile urbano adibito a uso di abitazione può versare al locatore (l. 392/1978, art. 12 e segg.; ➔ affitto). L’intenzione era quella di garantire agli inquilini un fitto tendenzialmente stabile e proporzionato al reddito e ai locatori un’‘adeguata’ remunerazione per il capitale investito, eliminando allo stesso tempo il precedente regime di doppio mercato tra gli immobili soggetti alla legislazione vincolistica e quelli locati sul mercato libero. In base alla norma prevista, il canone di locazione e sublocazione degli immobili adibiti a uso abitativo non poteva superare il 3,85% del valore locativo dell’immobile. Questo sistema generale di prezzi amministrati, da un lato, è distorsivo in termini di efficienza, imponendo una tassa sugli immobili locati, dall’altro porta a risultati effettivi opposti a quelli auspicati dal legislatore. Infatti, l’e. c. implica un razionamento (➔) sul mercato delle abitazioni diponibili per l’affitto; di conseguenza, si crea un mercato nero, dove non solo è più facile trovare dimora alle categorie sociali privilegiate, ma dove in aggiunta, e soprattutto per le classi più modeste, l'eguaglianza tra la domanda e l'offerta di abitazioni si realizza attraverso prezzi di fatto molto superiori a quelli amministrati. Anche per tale motivo, questo sistema di prezzi amministrati è stato prima allentato dalla l. 359/1992, che ha aggiunto la possibilità dei ‘patti in deroga’ per gli immobili urbani a uso abitativo, e poi abrogato dalla l. 431/1998, che ha invece introdotto due forme di contratto di locazione di immobili a uso abitativo, quello ‘libero’ e quello ‘convenzionato’, ma la liberalizzazione del mercato delle abitazioni è ancora in Italia molto parziale.