EQUAZIONI (fr. équations; sp. ecuaciones; ted. Gleichungen; ingl. equations)
1. Generalità. - La parola "equazione", in latino aequatio, è la traduzione della parola greca ἴσωσις, usata già da Diofanto; ed etimologicamente significa eguaglianza. Ma in matematica viene usata nel senso più ristretto di "eguaglianza di condizione". Per comprendere bene questo concetto, giova risalire ai principî del calcolo letterale o algebrico, nel quale, per trattare le questioni in generale, si conviene di rappresentare con lettere altrettanti numeri, suscettibili ciascuno d'ogni possibile valore. Le proprietà fondamentali delle operazioni elementari (addizione algebrica, moltiplicazione, divisione), e le conseguenze che se ne possono logicamente dedurre, si traducono in eguaglianze, quali ad es.: a + b = b + a, ab = ba, (a + b)2 = a2 + 2 ab + b2, (a + b) (a − b) = a2 − b2, ecc., le quali risultano vere (o, come si suol dire, "sono soddisfatte" o "verificate") comunque si scelgano i valori numerici da attribuire alle singole lettere. Le eguaglianze di questo tipo si dicono identità; e in ogni identità si hanno nei due membri (cioè prima e dopo il segno =) due forme diverse d'una medesima espressione letterale, le quali sono riducibili l'una all'altra con le operazioni del calcolo algebrico. Ma le identità non impongono alcuna condizione ai numeri rappresentati dalle lettere che vi compaiono.
Non così, almeno in generale, per le eguaglianze, cui si è condotti quando si vuole risolvere un problema col sussidio dell'algebra (o, anche, dell'analisi). In ogni problema, p. es. geometrico o fisico, i valori di certe grandezze sono (o si suppongono) conosciuti, cioè, come si suol dire, sono dati, e ci si propone di trovare, tenendo conto delle condizioni esplicitamente enunciate nel problema, i valori incogniti di certe altre grandezze. Ove si denotino queste incognite con lettere (per lo più si usano a questo scopo le ultime lettere dell'alfabeto x, y,...), le condizioni imposte dal problema si traducono in certe relazioni fra i dati e le incognite, le quali costituiscono appunto le "equazioni") del problema. E queste equazioni, in generale, non sono soddisfatte da valori scelti ad arbitrio per le incognite, ma solo da valori particolari, che sono quelli chiesti dal problema. Si può anche dire che nei due membri di un'equazione compaiono due espressioni - implicanti le incognite - le quali, per valori presi a caso per codeste incognite, assumono valori diversi; e si tratta di trovare quei valori particolari delle incognite, per cui codeste espressioni assumono valori eguali.
Mentre le identità sono incondizionatamente vere e affermano ciascuna un fatto generale, le equazioni sono eguaglianze condizionali per certe incognite, ed esprimono, in qualche modo, una domanda.
Bisogna tuttavia aggiungere che in certi casi, per così dire di eccezione, si è condotti a usare la parola equazione anche in un senso un po' più esteso di quello dianzi indicato. Per chiarire la cosa nel caso più semplice possibile, supponiamo che si tratti d'un problema in una sola incognita x, il quale si traduca in una equazione (algebrica) di 1° grado, vale a dire in una equazione riducibile alla forma:
dove a e b denotano due numeri che si suppongono noti, o anche due espressioni letterali comunque complicate, ma pure esse conosciute. Se per e ipotesi stesse delproblema il coefficiente a è diverso da zero, la (1) è soddisfatta dall'unico valore:
e nulla v'è da aggiungere a quanto s'è detto prima. Se invece il coefficiente a è nullo, mentre tale non è il termine noto b, la (1) non può essere in alcun modo soddisfatta, perché, qualunque valore si attribuisca ad x, il suo prodotto per zero dà zero e non mai b; e in tal caso si dice che si tratta d'una equazione impossibile (o assurda). Se, infine, sono nulli insieme a e b, la (1) non è più una vera e propria equazione, bensì un'identità. Tuttavia, per estensione si suol dire che si tratta di un'equazione indeterminata.
2. Le prime equazioni, che si sono presentate allo studio dei matematici, sono quelle algebriche, cioè quelle che si ottengono eguagliando a zero un polinomio nelle incognite. Nel caso d'una sola incognita, la loro forma generale è:
dove x è l'incognita, n è un numero intero e positivo (grado), a0, a1, ..., an-1, an (coefficienti) sono numeri reali o complessi. Le equazioni dei primi quattro gradi si dicono anche rispettivamente lineari, quadratiche, cubiche e biquadratiche. Per quanto concerne la teoria di queste equazioni, nelle sue origini storiche, nei successivi sviluppi, nei risultati conseguiti, rimandiamo alla voce algebra, e, per quello che riguarda più particolarmente le equazioni lineari, alla voce determinanti. Qui ci basti ricordare i nessi profondi, che, in una storia oramai secolare, legano la teoria delle equazioni algebriche da un lato all'evoluzione della geometria (v. coordinate; geometria), dall'altro agli sviluppi della moderna teoria delle funzio1ii (v. abeliano; funzione).
3. Ma il concetto d'equazione doveva acquistare una più ampia portata nei secoli che videro nascere la dinamica e la meccanica celeste, e assurgere la fisica a dignità di vera scienza. Sorsero allora in folla nuovi problemi, che chiedevano di determinare le leggi di certi fenomeni, in cui le incognite non erano più numeri, ma funzioni: determinare il movimento d'un corpo, date le forze che lo sollecitano; trovare la forma che assume un filo pesante sospeso agli estremi; stabilire la curva che si dovrebbe far descrivere a un pendolo perché fosse completamente isocrono. E insieme ai problemi nascevano i metodi per affrontarli; era il momento, in cui veniva alla luce il calcolo infinitesimale, e con esso facevano la loro comparsa nell'analisi equazioni d'un nuovo tipo: le equazioni differenziali (il nome è dovuto a G. W. Leibniz). Per es., considerando il moto rettilineo d'un punto, e supposta data la forza sollecitante F al tempo t come funzione di t e dello spazio percorso x:
la legge del moto, cioè l'espressione di x come funzione di t, si otterrà risolvendo o, come si suol dire, integrando l'equazione differenziale:
dove t è la variabile indipendente, x la variabile dipendente o funzione incognita. Si tratta pur sempre di un'eguaglianza di condizione; ma essa è imposta non già a un numero, bensì a una funzione (cammino come funzione del tempo) e involge, con questa funzione e con la variabile indipendente, la rispettiva derivata seconda (accelerazione).
Qui si presenta un fatto nuovo. La conoscenza della forza non è sufficiente per risolvere completamente il problema. E ciò è evidente. È nota la legge con cui cadono i gravi; ma, a seconda che si fa cadere un grave da un'altezza maggiore o minore, e che gli si imprime, abbandonandolo, una maggiore o minore velocità iniziale, la sua posizione in un dato istante sarà diversa; essa sarà determinata soltanto se conosceremo la posizione iniziale del grave e la sua velocità iniziale. La soluzione, o, come meglio si dice, l'integrale d'una equazione differenziale o d'un sistema di equazioni differenziali, contiene dunque delle quantità indeterminate; esse si dicono costanti arbitrarie, e la loro determinazione esige la conoscenza di certe condizioni iniziali. Molti furono i tipi di equazioni differenziali trattati dai creatori dei nuovi calcoli, I. Newton e G. W. Leibniz, e dai loro allievi Giacomo e Giovanni Bernoulli, Cristiano Huygens e altri, equazioni suggerite a essi da questioni fisiche, meccaniche e geometriche; e l'opera loro fu continuata dagli scienziati che ne seguirono le orme, fra i quali primeggia, nel sec. XVIII, Leonardo Euler.
4. È ovvio che esprimere un fenomeno mediante equazioni differenziali contenenti una sola variabile indipendente significa considerarlo come effetto di un'unica causa. Nell'esempio poc'anzi citato si è supposto che la forza dipendesse tanto dallo spazio quanto dal tempo; ma, poiché alla sua volta lo spazio è funzione del tempo - funzione da principio incognita, ma che è quella appunto che si cerca di determinare -, dal tempo soltanto finisce, in ultima analisi, per dipendere la forza. Ora sono ben pochi i fenomeni naturali che possono veramente considerarsi come dovuti a una sola causa. Quando si stabiliscono le classiche leggi del moto d'un pianeta, si fa l'ipotesi che questo dipenda unicamente dall'attrazione del Sole, ma in realtà v'influisce l'azione di tutti gli altri pianeti; siccome, però, questa è molto debole rispetto a quella del Sole, tenendo conto soltanto di quest'ultima si ottengono, con grande approssimazione, le leggi del moto. Ma non sempre un tale procedimento è lecito. La densità d'un gas dipende dalla pressione a cui è sottoposto e dalla sua temperatura; non si potrebbe calcolarla, neppure approssimativamente, tenendo conto d'uno solo dei due elementi e trascurando l'altro. Così il potenziale d'un punto di un campo elettrico dipende dalle tre coordinate del punto; la deviazione dalla posizione rettilinea d'un punto d'una corda vibrante dipende dalla posizione iniziale del punto e dal tempo. Si presentano quindi problemi, che si traducono in equazioni differenziali contenenti funzioni di più variabili indipendenti (equazioni a derivate parziali). Per esempio, se x è la distanza d'un punto d'una corda vibrante da uno degli estremi, lo spostamento trasversale di quel punto al tempo t soddisfa all'equazione:
dove a è una certa costante. Anche qui, a maggior ragione che per le equazioni differenziali con una sola variabile indipendente (o equazioni differenziali ordinarie), l'equazione non basta a determinare completamente la funzione u di x e di t; occorre conoscere la posizione e la velocità di ciascun punto della corda in un determinato istante, per es. per t = 0, cioè le funzioni f(x) e ϕ(x), alle quali dovranno ridursi per t = 0 la funzione cercata u (x, t) e la sua derivata rispetto a t. Mancando tale conoscenza, la soluzione generale dell'equazione proposta conterrà, non delle costanti arbitrarie come nel caso d'una sola variabile indipendente, ma delle funzioni arbitrarie; essa nel caso nostro è:
dove F e G sono funzioni completamente indeterminate.
Anche le equazioni a differenziali totali rappresentano, come vedremo, problemi in cui figurano più variabili indipendenti.
5. Nel progressivo sviluppo dell'analisi e delle sue applicazioni, il concetto d'equazione ha assunto un'estensione sempre più larga. Problemi di analisi pura, di geometria, di meccanica, di fisica hanno condotto a considerare, accanto alle equazioni differenziali, altri tipi di equazioni funzionali, cioè di equazioni esprimenti, per una o più funzioni incognite, d'una o più variabili, proprietà o condizioni atte a determinarle del tutto o in parte, ma non riducibili a relazioni tra codeste funzioni, le loro derivate, fino ad un certo ordine, e le variabili. Tali sono le equazioni alle differenze finite, per le quali rimandiamo alla voce corrispondente (v. differenze, calcolo delle), limitandoci a ricordare che J. le Rond d'Alembert (1769) ridusse il problema della composizione delle forze all'equazione funzionale:
dove ϕ è la funzione incognita ed a una costante prefissata. La soluzione generale è:
e nel caso speciale del problema dianzi indicato si riduce a ϕ(x) = cos x.
L. Euler, J. L. Lagrange, G. Monge, N. H. Abel indagarono tipi svariati di equazioni funzionali. S. D. Poisson (1811) ridusse a un'equazione funzionale il problema della distribuzione dell'elettricità statica su due sfere influenzantisi a vicenda. C. Babbage (1821) studiò l'equazione caratteristica delle funzioni, la cui n-esima iterata (v. associativa, proprietà) coincide con la variabile indipendente; donde ebbero poi origine interessanti ricerche dí teoria delle funzioni. G. Darboux (1881) mostrò che la dimostrazione del teorema fondamentale della geometria proiettiva (v. geometria) si può fondare sulla discussione dell'equazione funzionale (v. distributiva, proprietà) ϕ (x + y) = ϕ(x) + ϕ(y).
E di equazioni funzíonali, come di potente mezzo sussidiario, si vale la cosiddetta geometria numerativa (v. geometria).
6. Ma in quest'ultimo quarantennio hanno assunto nell'analisi un'importanza prevalente quelle equazioni funzionali, in cui le funzioni incognite figurano sotto segni d'integrazione o anche d'integrazione e, insieme, di derivazione. Le prime (con nome introdotto da P. du Bois-Reymond nel 1888, prima ancora che ne sorgesse la teoria) si chiamano equazioni integrali, le seconde equazioni integro-differenziali.
Storicamente la teoria delle equazioni integrali si riattacca, nelle sue origini, al problema dell'inversione degl'integrali definiti, e qui va ricordata, come uno dei primi e più espressivi esempî di equazioni integrali, presentatisi ai matematici, l'equazione di N. H. Abel, cui questo matematico fu condotto dal problema del moto brachistocrono. Il problema dell'inversione degl'integrali definiti, per le funzioni d'una sola variabile, si può enunciare nei termini seguenti: determinare (anche in base ad ulteriori condizioni accessorie, che possono variare da caso a caso) una funzione ϕ(x), che renda soddisfatta l'equazione integrale:
dove K (x, y) e f(x) sono funzioni date e il cammino d'integrazione l, pur esso prefissato, può essere nel campo reale un intervallo finito o infinito, nel campo complesso una qualsiasi linea, aperta o chiusa. V. Volterra (1896), considerando il caso d'un intervallo d'integrazione reale, a estremi variabili, riconobbe che l'equazione integrale (2) si può considerare come la sintesi limite d'un sistema d'infinite equazioni in infinite incognite, e, guidato da questa veduta, pose le prime basi d' una teoria, cui, traverso una serie di ricerche oramai classiche, egli doveva poi legare il suo nome. D'altra parte I. Fredholm (1903), riprendendo la veduta del Volterra nel caso dell'intervallo d'integrazione a estremi fissi, costruiva di colpo la teoria delle equazioni integrali che portano il suo nome. E sulla base delle scoperte di questi due matematici, per l'opera di tutta una schiera di ricercatori, si è venuto organizzando un corpo di dottrina, che, per l'intrinseco interesse concettuale, per le applicazioni di cui si è mostrato suscettibile, per gl'impulsi che da esso derivarono ad altre correnti d'indagine, specie al moderno calcolo funzionale (v. funzionali), costituisce l'apporto saliente e, in un certo senso, caratteristico, che l'analisi matematica ha ricevuto in quest'ultimo trentennio.
7. Ci limiteremo, nelle pagine seguenti ad accennare, prima per le equazioni differenziali, ordinarie e a derivate parziali, poi per quelle integrali e integro-differenziali, i concetti, i problemi. i risultati fondamentali e, limitatamente ai tipi più semplici di ciascuna di codeste classi di equazioni, i procedimenti risolutivi elementari e le applicazioni e le interpretazioni più espressive.
Noteremo da ultimo che il concetto d'equazione, oltre che nelle matematiche, figura con significato affine in altri campi della scienza: basti ricordare le equazioni chimiche e le equazioni logiche. In astronomia la parola equazione si è mantenuta per tradizione con diversi significati, completamente distinti da quello matematico.
Equazioni differenziali ordinarie.
8. Cominciamo col precisare alcuni termini, già dianzi usati discorsivamente. Si dice equazione differenziale di ordine n ogni equazione, che leghi una funzione incognita y (x) d'una sola variabile x alla variabile stessa e alle derivate della y fino all'ordine n compreso, cioè ogni equazione del tipo:
dove F denota una data funzione degli n + 2 argomenti x, y, y′,..., y(n)). Se la (3) si risolve rispetto alla derivata di massimo ordine, così da darle l'aspetto:
l'equazione si dice ridotta a forma normale.
Più in generale, consideriamo un sistema d'un certo numero r di equazioni, le quali leghino altrettante funzioni incognite y1, y2, ..., yr di una medesima variabile x alla variabile stessa e alle derivate delle y1, y2, ..., yr fino a un certo ordine n1, n2,..., nr rispettivamente. Si chiama ordine di un tale sistema la somma degli ordini n1, n2, ... nr; talvolta si chiama rango questa somma, e ordine il massimo del numeri n1, n2,..., nr. Le equazioni e i sistemi di equazioni, che, come qui si è supposto, implicano soltanto funzioni incognite di un'unica variabile, si chiamano ordinarî, in contrapposto alle equazioni e ai sistemi a derivate parziali, cioè alle equazioni e ai sistemi, che legano una o più funzioni di due o più variabili a queste variabili stesse e alle derivate parziali delle funzioni incognite fino a un certo ordine per ciascuna. Qui per ora, anche senza più avvertirlo, intendiamo parlare di equazioni differenziali ordinarie.
Soluzione o integrale (particolare) di un'equazione (o sistema) differenziale è ogni funzione (o r-pla di funzioni), che, sostituita, con le rispettive derivate, nell'equazione (o sistema), dia luogo ad altrettante identità. Il diagramma d'una tal funzione nel piano (o di una tale r-pla di funzioni in uno spazio ad r + i dimensioni) si dice curva integrale dell'equazione (o del sistema).
Come vedremo fra un momento, ogni equazione (o sistema) differenziale ammette infiniti integrali. Integrare l'equazione (o il sistema) significa trovarne tutti gl'integrali. L'integrazione di un'equazione differenziale, o d'un sistema d'equazioni differenziali, s'intende raggiunta (in senso elementare), quando è ridotta alle quadrature, cioè quando si sono ottenuti gl'integrali espressi come funzioni (esplicite o implicite) delle variabili indipendenti, anche se in tali espressioni figurano integrazioni (eventualmente non eseguibili per via elementare), purché le funzioni integrande siano funzioni note delle sole variabili indipendenti.
9. Il tipo generale delle equazioni differenziali del 1° ordine è
o, sotto forma normale:
Naturalmente, il primo problema che si presenta, è quello di riconoscere se per una tale equazione effettivamente esistano integrali, cioè funzioni y (x) che la rendano soddisfatta. Per persuadersi intuitivamente che a questo problema va risposto in senso affermativo, giova ricorrere all'interpretazione geometrica. Del diagramma d'una qualsiasi funzione y (x) la derivata y′ (x) fornisce, punto per punto, il rapporto direttivo della tangente (v. derivata; differenziale, calcolo). Perciò la (6) costituisce per ogni sua possibile curva integrale un legame fra le coordinate del generico punto e il rapporto direttivo della rispettiva tangente. Se esiste una curva integrale, che passi per un punto (x, y), la sua tangente deve avere ivi come rapporto direttivo il valore locale della f(x, y); e la (6) non richiede nulla di più per essere soddisfatta. S'immagini allora di associare preventivamente a ogni punto (x, y) del piano, o di quella regione dove vale la (6), la direzione di rapporto direttivo f(x, y), e, se si vuole, si supponga realizzata questa direzione per mezzo d'un segmento rettilineo infinitesimo passante pel punto x, y e avente codesto rapporto direttivo (elemento lineare). Pensata la distribuzione di indici di direzione, che così s'ottiene in tutta la regione considerata, vi si fissi un punto P0 (x0, y0) e si immagini un punto mobile, che, partendo da P0, si avvii nella direzione associata a questo punto, e poi, nel suo moto, segua, posto per posto, la direzione dell'indice locale. La traiettoria d'un tal punto soddisfa evidentemente, in tutta la sua lunghezza, la condizione imposta dalla (6); e ci si convince così che non solo esistono per questa equazione curve integrali, ma, nella regione considerata, ne passa una ed una sola per ogni punto.
Il risultato così intuito trova la sua formulazione rigorosa nel seguente teorema di esistenza degli integrali, che in questa forma estremamente comprensiva è stato dimostrato da G. Peano nel 1886: Se f(x, y) è una funzione reale delle due variabili reali x, y, continua in una certa regione del piano xy, e (x0, y0) è un punto di questa regione, l'equazione (6) ammette un integrale ed mo solo, che per x = x0 assume il valore y0.
10. si hanno infiniti integrali particolari della (6), fissando una volta per tutte l'ascissa x0 del punto iniziale P0 e facendo successivamente assumere all'ordinata y0 tutti i possibili valori (sotto la sola condizione che P0 non esca dalla regione indicata). L'insieme di questi ∞1 integrali costituisce l'integrale generale. Esso è rappresentato analiticamente da una funzione di x contenente una costante arbitraria c:
La relazione scritta può anche porsi sotto forma implicita:
Talvolta, per quanto impropriamente, si chiama integrale generale anche la stessa funzione Φ.
Dall'integrale generale si ottengono gl'integrali particolari dando a c valori determinati. Possiamo osservare che, reciprocamente, si riottiene l'equazione differenziale, eliminando la costante arbitraria c fra l'equazione dell'integrale generale e la sua derivata rispetto ad x.
Va infine notato che, oltre a tutti gl'integrali particolari costituenti l'integrale generale, l'equazione ne può avere altri, detti integrali singolari, i quali si ottengono eliminando la costante arbitraria c fra l'equazione dell'integrale generale e la sua derivata rispetto a c. Geometricamente l'integrale singolare è l'inviluppo (v.) delle curve integrali costituenti l'integrale generale (salvo casi speciali in cui esso è un luogo di cuspidi di codeste curve integrali).
11. Equazioni del 1° ordine integrabili elementarmente. - In generale un'equazione del 1° ordine non si può integrare nel senso elementare indicato al n. 8, bensì soltanto ricorrendo a sviluppi in serie (v. serie). Tuttavia esistono alcuni tipi classici di equazioni, la cui integrazione si riconduce alle quadrature. Ne passeremo qui in rapida rassegna alcuni dei più notevoli.
a) Equazioni differenziali esatte. - Hanno la forma:
dove le funzioni A, B sono legate dalla relazione:
Il primo membro è il differenziale esatto d'una funzione (v. differenziale, calcolo); questa, eguagliata a una costante arbitraria, dà l'integrale generale. Si ottiene:
dove la funzione sotto il segno del secondo integrale, in virtù della (8), dipende dalla sola y. Un caso particolare è quello delle equazioni a variabili separate:
o separabili:
Dalla forma (10) si passa immediatamente alla (9); questa ha l'integrale.
Per le equazioni del tipo (7) che non sono differenziali esatte si può qualche volta trovare una funzione λ di x, y tale che l'equazione, moltiplicata per λ, divenga differenziale esatta. Una tale funzione si dice fattore integrante. Un'equazione può ammettere infiniti fattori integranti; il rapporto di due fattori integranti, eguagliato a una costante arbitraria, dà l'integrale generale dell'equazione.
b) Equazioni lineari:
dove P, Q sono funzioni qualunque di x. L'integrale è:
c) Equazioni omogenee. - Sono equazioni del tipo (7), in cui A e B sono funzioni di x, y omogenee dello stesso grado. Ricordiamo che una funzione f (x, y) si dice omogenea, se può porsi sotto forma del prodotto di xm per una funzione di y/x; m è il grado d'omogeneità. Posto dunque:
l'integrale è:
12. Le equazioni sin qui considerate sono tutte di forma normale. Esistono anche tipi di equazioni, che si possono integrare elementarmente senza prima ridurli a forma normale.
d) Equazioni in cui manca x:
Supposta l'equazione risolta rispetto ad y:
l'integrale si ottiene eliminando y′ tra l'equazione stessa e la:
e) Equazioni in cui manca y:
Supposta l'equazione risolta rispetto a x:
l'integrale si ottiene eliminando y′ tra l'equazione stessa e la:
f) Equazioni di d'Alembert. - Hanno la forma:
l'integrazione si riduce a quella d'un'equazione lineare tra la variabile indipendente y′ e la variabile dipendente x, e all'eliminazione di y′ fra l'integrale trovato e l'equazione proposta. Un caso particolare è l'equazione di Clairaut:
il cui integrale generale è dato da:
ed è quindi costituito da ∞1 rette, il cui inviluppo, di equazioni parametriche:
dà l'integrale singolare.
13. Equazioni differenziali lineari a coefficienti costanti. - Per un'equazione di ordine n:
o, sotto forma normale,
vale un teorema d'esistenza degl'integrali, perfettamente analogo a quello enunciato per le equazioni del 1° ordine al n. 9. Ma qui l'integrale generale dipende da n costanti arbitrarie, in quanto, prefissato ad arbitrio, in un campo in cui la (x, y, y′,..., y(n-1)) sia continua, un sistema di valori x0, y0, y0′, ..., y0(n-1), esiste per l'equazione un integrale ed uno solo, che per x = x0 assume, con le sue prime n − 1 derivate, i valori y0, y′0, ..., y0(n-1)0 rispettivamente. Pochi sono i tipi di equazioni d'ordine superiore al 10, che si possono integrare elementarmente. Fra questi il più notevole è, forse, quello delle equazioni differenziali lineari a coefficienti costanti, di eui qui rapidamente ci occuperemo, premettendo qualche definizione generale, di cui ci varremo in seguito. Si dicono lineari le equazioni differenziali (ordinarie), che tali sono rispetto alla funzione incognita y e a tutte le derívate di questa che vi compaiono. Sono dunque del tipo:
dove P0, P1,.... Pn, Q sono funzioni date di x.
Se Q⊄0, cioè se l'equazione è della forma:
si dice omogenea; mentre, per contrapposto, si dice completa in caso contrario.
Di un'equazione omogenea (12) si chiama aggiunta l'equazione, pur essa lineare omogenea:
e qui, per valercene più tardi, notiamo che l'aggiunta dell'aggiunta di un'equazione è l'equazione stessa.
Un'equazione, che coincide con la propria aggiunta, si dice autoaggiunta. La forma generale di un'equazione autoaggiunta del secondo ordine è:
La somma di più integrali di un'equazione lineare omogenea (12), e il prodotto d'un integrale per una costante qualsiasi, sono ancora integrali.
Se y1, y2, ..., yn sono n integrali d'un'equazione lineare omogenea d'ordine n linearmente indipendenti (cioè tali che non esista tra essi una relazione della forma:
dove k1, k2, ..., kn sono costanti non tutte nulle), l'integrale generale dell'equazione è:
dove c1, c2,..., cn sono costanti arbitrarie. Gl'integrali y1, y2, ..., yn si dicono costituire un sistema fondamentale.
Ciò premesso, supponiamo che i coefficienti P0, P1,..., P-1, Pn siano costanti. In tal caso l'integrazione dell'equazione (12) si riduce alla risoluzione dell'equazione algebrica di grado n (equazione caratteristica):
Supposte le P reali, da ogni radice r dell'equazione caratteristica la quale sia reale ed m-pla si deducono gli m integrali:
da ogni coppia di radici complesse coniugate s ± it, le quali siano entrambe m-ple, i 2m integrali:
si ottengono così n integrali linearmente indipendenti, mediante i quali si può formare l'integrale generale. L'integrale generale dell'equazione completa (11) è la somma dell'integrale generale della corrispondente equazione omogenea (12) e d'un integrale particolare della (11); quest'ultimo si ottiene con n quadrature, quando si conosca l'integrale della (12). Ed entrambi questi risultati valgono, non soltanto per le equazioni lineari a coefficienti costanti, bensì anche per quelle a coefficienti dipendenti da x.
14. Sistemi di equazioni differenziali. - L'integrazione d'un sistema di r equazioni, contenenti la variabile indipendente x, le funzioni y1, y2, ...., yr e le loro derivate sino agli ordini rispettivi n1, n2, ...., nr, può ridursi all'integrazione di un'unica equazione differenziale con una sola funzione incognita, dell'ordine:
Essa può anche ridursi all'integrazione d'un sistema di N equazioni differenziali del primo ordine, cioè di N equazioni contenenti la variabile indipendente x, N variabili dipendenti e le loro derivate prime. Come variabili dipendenti figurano le y1, y2, ...., yn e le loro derivate sino agli ordini rispettivi n1 − 1, n2 − 1, . . . ., nr − 1. Un sistema di questa specie Può immaginarsi posto, quando le variabili dipendenti si denotino con y1, y2,...., yN, sotto la forma normale:
o anche:
Il suo sistema integrale è costituito da N funzioni y1, y2, ...., yN di e di N costanti arbitrarie c1, c2, ..., cN; risolto rispetto alle c, esso prende la forma:
15. Applicazioni. - Si è già accennato ad alcuni problemi geometrici e meccanici, che conducono a equazioni differenziali del primo ordine. Le questioni relative a curve piane implicanti la curvatura dànno luogo a equazioni del 2° ordine, e quindi ammettono in generale ∞2 soluzioni. Se insieme alla curvatura figura anche la lunghezza d'un arco o l'area d'una figura piana, si arriva al terzo ordine; e così via. Le questioni relative alle curve sghembe conducono a sistemi di due equazioni differenziali con due funzioni incognite.
Assai più ampia applicazione trovano le equazioni differenziali nel campo della meccanica. Il problema fondamentale della dinamica è la determinazione del moto d'un sistema, date le forze che lo sollecitano e i vincoli a cui è soggetto (v. dinamica). Prendiamo il caso più semplice: il moto d'un punto materiale libero. Se m è la massa del punto, x, y, z sono le coordinate della sua posizione al tempo t, X, Y, Z le somme delle componenti omologhe delle forze che lo sollecitano al tempo t (forze direttamente applicate e resistenze), si hanno le seguenti equazioni, esprimenti la proporzionalità tra l'accelerazione e la forza:
dove gli apici denotano derivazioni rispetto a t. Le X, Y, Z, oltre che da t, possono dipendere anche dalla posizione e dalla velocità dal punto mobile, sicché nel caso generale sono funzioni di t, x, y, z, x′.y′, z′; p. es., per un proiettile che si muove nell'aria la forza applicata (gravità) è costante, mentre la resistenza del mezzo dipende, per grandezza e direzione, dalla velocità. Il sistema integrale del sistema (13) ha la forma:
le 6 costanti arbitrarie si determinano conoscendo la posizione e la velocità iniziali del punto mobile.
Nel caso d'un sistema a N gradi di libertà, le equazioni, anziché 3, sono N cioè tante quanti sono i parametri (coordinate lagrangiane) che bastano a determinare la configurazione del sistema. Numerose poi sono le applicazioni delle equazioni differenziali alla fisica, e anche alla chimica.
Equazioni a derivate parziali.
16. Equazioni a differenziali totali. - Di queste equazioni, che non differiscono sostanzialmente dalle equazioni a derivate parziali, si fa qui soltanto un breve cenno, limitato al caso più semplice, cioè a quello d'una sola equazione, lineare rispetto ai differenziali. Si abbia l'equazione:
dove X1, X2, ...., Xn sono funzioni di x1, x2, ...., xn. Un'equazione di questo tipo si ottiene differenziando un'equazione della forma:
dove c è una costante arbitraria; ma non è sempre vero reciprocamente che, data un'equazione (14), esista un'equazione (15) da cui essa possa dedursi per differenziazione. Affinché ciò abbia luogo, è necessario e sufficiente che per tutte le terne di indici differenti i, h, k abbia luogo la relazione:
In tal caso l'integrazione della (14) si riduce all'integrazione di n - 1 equazioni della forma (7); e la (14) si dice esatta o illimitatamente integrabile.
17. Equazioni a derivate parziali del primo ordine. - Un'equazione a derivate parziali del primo ordine con n variabili indipendenti x1, x2, ...., xn e una sola variabile dipendente z, ha la forma:
dove si è posto ph = ∂z/∂xh, per h = 1, 2,..., n.
Si dice integrale completo della (16) una funzione z di x1, x2, ..., e di n costanti arbitrarie c1, c2, ..., cn:
che con le sue derivate parziali renda soddisfatta la (16) identicamente tanto rispetto alle x quanto rispetto alle c. Dando alle c, o ad alcune di esse, valori speciali, si hanno integrali particolari.
Dalla (17) si ottiene la (16) derivando rispetto ad x1, x2, ..., xn ed eliminando le c. Se si deriva la (17) rispetto a c1, c2,..., cn e si eliminano le c, si ottiene una relazione tra z, x1, x2, ..., xn che definisce l'integrale singolare. Se invece si pongono nella (17) in luogo di c1, c2, ..., ck (i ≤ k 〈 n) altrettante funzioni arbitrarie di ck+1, ..., cn e si eliminano questi argomenti, la relazione risultante tra z, x1, x2, ..., xn, la quale non contiene più costanti arbitrarie, ma dipende da funzioni arbitrarie, definisce ancora un integrale, che si dice integrale generale. Però l'integrale completo e l'integrale generale non sono essenzialmente diversi. Infatti, se nell'integrale generale alle k funzioni arbitrarie si sostituiscono altrettante funzioni determinate contenenti n costanti arbitrarie, si ottiene un nuovo integrale completo della (16); rispetto a questo l'integrale da cui si è partiti assume il carattere d'integrale generale. Un'equazione (16) ammette dunque infiniti integrali completi. Però il procedimento per ottenere l'integrale singolare, applicato a qualunque di questi, conduce sempre al medesimo risultato.
Nel caso in cui le variabili indipendenti sono due, si suole designarle con x e y, e si denotano con p e q le derivate parziali di z rispetto ad esse. Se z = f(x, y) è l'equazione cartesiana d'una superficie, il piano tarigente ad essa nel punto (x, y, z) ha l'equazione:
dove X, Y, Z sono le coordinate correnti. Ne segue che un'equazione:
esprime una proprietà d'una superficie concernente il piano tangente o la normale; e integrare questa equazione equivale a trovare tutte le superficie fornite di tale proprietà. Un integrale completo rappresenta una famiglia doppiamente infinita di superficie aventi la proprietà voluta; l'integrale singolare rappresenta l'inviluppo della famiglia; l'integrale generale rappresenta l'insieme degl'inviluppi di tutte le famiglie semplicemente infinite contenute nella famiglia doppiamente infinita.
18. Un'equazione a derivate parziali del primo ordine si dice lineare, se è tale rispetto alle derivate prime della funzione incognita. Il tipo generale delle equazioni lineari è:
dove X1, X2, ..., X2, ..., Xn, Z sono funzioni di x1, x2, ..., xn, z. Se Z⊄0, l'equazione si dice omogenea.
Se le funzioni z delle x definite dalle:
dove r è un numero qualunque, sono . integrali della (18), è pure un integrale di essa la funzione z definita dalla:
qualunque sia la funzione Φ. Reciprocamente, se le:
definiscono n integrali indipendenti della (18), il più generale integrale di essa è definito dalla:
dove Φ denota una funzione arbitraria. Questo teorema riduce l'integrazione della (18) alla ricerca di n integrali particolari (19) di essa. Tale ricerca si riduce a sua volta all'integrazione del sistema (n. 14):
Se:
è l'integrale di questo sistema, le:
definiscono n integrali indipendenti della (18).
Il metodo esposto è suscettibile di un'immediata interpretazione geometrica per n = 2. Scriviamo l'equazione in questo caso:
e sia:
dove a, b sono costanti arbitrarie, l'integrale del sistema:
Le (21) rappresentano una doppia infinità (congruenza) di linee; e l'integrale generale della (20):
rappresenta una superficie contenente un'infinità semplice di tali linee. Le curve (21) si dicono le caratteristiche dell'equazione (20); esse hanno la proprietà che ciascuna di esse giace su infinite superficie integrali, mentre ciò non accade per alcun'altra linea. Queste considerazioni si possono estendere al caso di n qualsiasi, ricorrendo ai concetti e al linguaggio della geometria degl'iperspazî.
19. Un'equazione (18) non omogenea può trasformarsi in una equazione omogenea i cui coefficienti non contengano la variabile dipendente. Basta perciò considerare z come una (n + 1)ma variabile indipendente, e assumere come variabile dipendente una funzione f (x1, x2, ...., xn, z) tale che l'equazione
definisca un integrale della (18). Si ha allora:
e la (18) diviene:
che è della forma voluta.
Sia dato ora un sistema di r equazioni lineari, che supporren10 già ridotte omogenee e coi coefficienti funzioni delle sole variabili pendente. Il sistema avrà la forma:
dove le ahk: sono funzioni delle x; X1, ..., Xn sono operatori differenziali (lineari), cioè simboli che rappresentano l'insieme delle operazioni che devono eseguirsi sulla f per ottenere le espressioni corrispondenti. Si può supporre che le equazioni proposte siano indipendenti, cioè che non esista nessun sistema di r funzioni k1, k2, ...., kc. delle x, non tutte identicamente nulle, e tali che sia identicamente (cioè per ogni sistema di valori delle x):
Poiché, evidentemente, qualunque sia l'operatore X, è X(0) = 0, le equazioni Xh Xkf = 0, e quindi anche le:
sono soddigfatte da tutti gl'integrali de (sistema proposto. Ora queste ultime equazioni, i cui primi membri si chiamano gli alternati degli operatori Xh, Xk: e si sogliono indicare con (Xh Xk)f, sono della stessa forma di quelle del sistema (22); indicando con:
quelle tra esse che sono linearmente indipendenti dalle (22) e tra loro, il sistema ampliato:
avrà gli stessi integrali di quello proposto. Continuando allo stesso modo, o si giungerà a un sistema di n equazioni linearmente indipendenti, sistema che non ha soluzioni (tranne quella inconcludente f = costante), o si arriverà a un sistema di m 〈 n equazioni non ulteriormente ampliabile, cioè completo, ossia tale che tutte le (Xh, Xk)f siano combinazioni lineari dei primi membri delle equazioni del sistema. Si ha così che ogni sistema lineare o non ha integrali o è equivalente a un sistema completo. Per i sistemi completi valgono i seguenti risultati, che ci limitiamo a enunciare. Un sistema completo di m equazioni con n > m variabili indipendenti ammette n − m integrali indipendenti, e ogni suo integrale è una funzione di questi. Un sistema completo si può trasformare in un sistema Jacobiano, per cui cioè tutte le (Xh, Xk) f sono identicamente nulle. L'integrazione d'un sistema jacobiano può farsi con varî metodi, tra cui quello di A. Mayer, che riduce l'integrazione del sistema a quello di un'unica equazione lineare con n − m + 1 variabili indipendenti.
20. Un sistema d'equazioni del primo ordine di forma qualsiasi si può supporre ridotto, con l'artificio già usato (v. n. 19), a non contenere la variabile dipendente:
e si può anche supporre che nessuna delle equazioni sia conseguenza delle altre.
Si dice parentesi di Poisson di due funzioni P e Q delle due serie di variabili x1, ..., xn e p1, ..., pn l'espressione:
la quale, nel caso in cui P e Q siano lineari nelle p, è l'alternato dei due operatori che da P e Q si ottengono ponendovi ph = ∂f/∂xh.
Ogni íntegrale comune alle equazioni P = 0, Q = 0, appartiene anche all'equazione (P, Q) = 0, che è pure un'equazione del primo ordine. Perciò, se al sistema (23) si aggiungono tutte quelle equazioni (Fh, Fk) = 0 che sono indipendenti tra loro e dalle (23), si ottiene un nuovo sistema equivalente a quello proposto. Così continuando, o si arriverà a un sistema di più di n equazioni, che non ammette alcun integrale, o si otterrà un sistema di m ≤ n equazioni non ulteriormente ampliabile. In questo seeondo caso si può trasformare ulteriormente il sistema in uno di un numero eguale di equazioni, le cui parentesi siano identicainente nulle. Tale sistema si dice in involuzione. Il caso più semplice è quello in cui m = n. In questo caso, ove il sistema, supposto in involuzione, si risolva rispetto a p1, p2,...., pn, sotto la forma:
l'espressione:
risulta un differenziale esatto, e con n quadrature si ottiene z, a meno d'una costante additiva (integrale completo). Se m 〈 〈 n, si possono determinare successivamente n − m funzioni Fm+1 ... Fn, di cui ciascuna sia involuzione con le precedenti e con le F1, ..., Fm. Dopo ciò, aggiungendo al sistema proposto le equazioni:
dove le c1, ..., cn-m sono costanti arbitrarie, si ritorna al caso precedente. L'integrale completo conterrà n − m + 1 costanti arbitrarie. La determinazione delle funzioni Fm+1, ..., Fn richiede la ricerca d'un integrale di ciascuno di n − m sistemi completi formati rispettivamente di m, m + 1,..., n − 1 equazioni.
Il metodo esposto s'applica anche all'integrazione di un'unica equazione non lineare.
Si possono trattare analogamente i sistemi di equazioni contenenti la variabile dipendente, senza la preventiva riduzione di cui al principio di questo n. Qui, in luogo delle parentesi di Poisson, entrano in campo le parentesi di Jacobi:
dove P, Q sono funzioni di x1, x2, ..., xn, z, p1, p2, ..., pn, e:
21. Equazioni a derivate parziali del secondo ordine. - Assai meno progredita dell'integrazione effettiva delle equazioni di primo ordine è quella delle equazioni d'ordine superiore. Qui ci limiteremo a considerare le equazioni del secondo ordine a due variabili indipendenti, e anzi un tipo speciale di tali equazioni, le equazioni di Monge e Ampère (di Monge per U = 0):
dove:
e R, S, T, U, V sono funzioni date di x, y, z, p, q.
Le equazioni di questo tipo sono le sole che possano avere un integrale intermedio, intendendosi con questo nome una relazione:
dove u e v sono funzioni di x, y, z, p, q, tali che, qualunque sia la funzione ϕ, derivando rispetto ad x e ad y ed eliminando ϕ′ (v), risulti l'equazione proposta. Ottenuto un integrale intermedio (con ϕ funzione arbitraria), il quale non è altro che un'equazione a derivate parziali del primo ordine, l'integrazione di questa equazione darà un integrale dell'equazione proposta dipendente da due funzioni arbitrarie. Il metodo d'integrazione di Monge e Ampère ha appunto per scopo la determinazione d' un integrale intermedio, se questo esiste. La ricerca si riduce all'integrazione di due sistemi di equazioni lineari a derivate parziali nelle variabili indipendenti x, y, z, p, q, che coincidono tra loro quando le radici di una certa equazione algebrica di 2° grado non sono distinte. È necessario considerare separatamente i casi U = 0 e U ≠ 0.
Per U = 0 uno dei sistemi è:
e l'altro si ottiene da esso scambiando λ1, λ2, che sono le radiei dell'equazione di 2° grado in λ:
W denota la funziorie incognita. Per U ≠ 0 uno dei sistemi è:
e l'altro si ottiene come sopra; λ1 e λ2 sono qui le radici dell'equazione:
In entrambi i casi il sistema non può essere completo se non è λ1 = λ2. Se esso è completo, ammette 3 integrali indipendenti u, v, w, che sono tra loro in involuzione. Eliminando p e q fra le 3 equazioni:
dove a, b, c sono costanti arbitrarie, si ottiene un integrale della (24)
Ponendo poi:
dove ϕ, ψ sono funzioni arbitrarie, ed eliminando a tra le:
si ottiene un integrale dipendente da due funzioni arbitrarie.
Si ottiene pure un integrBle della stessa natura, se i due sistemi sono distinti, e quindi non completi, ma ammettono eiascuno due integrali. Detti questi, rigpettivamente, u1, v1, e u2, v2, le espressioni di p e q in funzione di x, y, ottenute risolvendo le:
dove ϕ e ψ sono funzioni arbitrarie, renderanno differenziale esatta l'espressione:
Infine si ottiene ancora un integrale dipendente da due funzioni arbitrarie integrando l'equazione:
dove u e v sono due integrali d'uno dei sistemi. Negli altri casi s; ottengono soltanto integrali meno generali.
22. Un caso speciale dell'equazione di Monge è l'equazione di Laplace:
dove A, B, C, P sono funzioni di x e y. Se z è un integrale particola. e della (27), ponendo z = z1 + Z si ottiene per z1 un'equazione della stessa forma in cui P = 0. Si può quindi supporre senz'altro P nullo, cioè limitarsi allo studio dell'equazione:
Per questa equazione i due sistemi (25) sono, posto
Perché uno dei due sistemi ammetta due integrali indipendenti u, v, e quindi l'equazione ammetta un integrale intermedio u = ϕ (v) contenente una funzione arbitraria, è necessario e sufficiente che abbia luogo una delle due relazioni:
H e K sono detti gl'invarianti dell'equazione, perché restano invariati per ogni trasformazione z = λz1, dove λ è una funzione qualunque di x e y. Se p. es. H = 0, l'equazione ha l'integrale:
dove ϕ e ψ sono funzioni arbitrarie, e:
Analogamente se K = 0.
Se H e K sono ambedue ≠ 0, con la sostituzione z1 = q + Az si ottiene una nuova equazione di Laplace:
i cui invarianti sono:
Se H1 = 0, la (29) può integrarsi, e da essa si può risalire alla (28). Così, se dopo un numero finito di passaggi si ottiene un invariante nullo, può farsi l'integrazione. Affinché il metodo di Laplace conduca a un'equazione per cui H = 0, è necessario e sufficiente che l'equazione proposta ammetta un integrale della forma:
dove le u sono funzioni determinate di x e y, e X è funzione arbitraria di x; in questo caso si arriva a un'equazione a invariante nullo dopo r passaggi al più.
23. Alcune delle proprietà delle equazioni di Monge e Ampère si estendono al caso di più di due variabili indipendenti. Così, per es., per un numero qualsiasi di variabili, le sole equazioni del secondo ordine, che ammettano un integrale intermedio generale, sono quelle il cui primo membro è una funzione lineare (a coefficienti dipendenti da z, dalle sue derivate prime e dalle variabili indipendenti) del determinante formato dalle ∂2z/∂xi∂xh e dei suoi minori di tutti gli ordini.
24. Applicazioni delle equazioni a derivate parziali. - In molte questioni, che conducono a equazioni a derivate parziali, non tanto interessa conoscere l'integrale generale quanto conoscere l'integrale che soddisfa a certe condizioni ai limiti. La ricerca di questi integrali particolari, che per le equazioni differenziali ordinarie non presenta difficoltà, costituisce qui la parte più difficile del problema. Per citare un solo esempio, si conosce l'integrale generale dell'equazione delle superficie d'area minima, ma la determinazione della superficie d'area minima avente un dato contorno può farsi soltanto in pochi casi molto semplici.
Questioni di elasticità, di teoria del potenziale, di termologia, ecc. conducono a equazioni della forma:
dove i coefficienti sono costanti, o anche a equazioni analoghe con più di due variabili indipendenti. Queste equazioni hanno la proprietà che la somma di più integrali, e il prodotto d'un integrale per una costante, sono ancora integrali.
È facile trovare integrali particolari della (30); tale è per esempio:
se le costanti α e β soddisfano all'equazione:
Ordinariamente le condizioni iniziali e ai limiti sono rappresentate da equazioni:
dove le Φh sono funzioni lineari di z e delle sue derivate, e le ϕh sono funzioni qualunque di x, y.
In tal caso si cerca di costruire infiniti integrali f1 (x, y), f2 (x, y),... dell'equazione proposta, soddisfacenti alle condizioni:
poi si determinano i coefficienti c1, c2,... della serie:
in modo che questa sia convergente per tutti i sistemi di valori x, y considerati, e che uk soddisfaccia alla condizione:
L'integrale cercato sarà:
In altri casi si procede in modo alquanto diverso. Riprendiamo come esempio l'equazione (n. 4):
d'una corda vibrante, i cui estremi supponiamo fissi. Le condizioni iniziali e ai limiti saranno, ove l sia la lunghezza della corda, e f(x), ϕ(x) denotino due funzioni note:
Cerchiamo anzitutto un integrale che risponda alla seconda condizione. Ponendo
risulta dalla (31) β2 − a2α2 = 0, sicché:
Se ad α si sostituisce ±α, si ottengono i 4 integrali:
di cui soltanto i due primi si annullano per x = 0. Perché si annullino anche per x = l, dev'essere α = nπ/l, dove n rappresenta un numero intero qualunque, che può supporsi positivo. Si hanno così gl'integrali:
mediante i quali si forma la serie:
da cui:
le costanti an, bn si suppongono tali da rendere le due serie convergenti. Perché sia u = f(x), ∂u/∂t = ϕ(x) per t = 0, dev'essere:
da cui, per la teoria delle serie di Fourier (v. fourier, jean-baptiste):
25. Le applicazioni delle equazioni a derivate parziali nella geometria sono numerosissime. Tutte le questioni relative alle superficie e, in generale, agli enti geometrici posti negli spazî ad un numero qualsiasi di dimensioni, si esprimono con equazioni a derivate parziali.
Per es., la curvatura totale d'una superficie z = f(x, y) in un punto è espressa da:
la curvatura media da:
quindi l'equazione delle superficie a curvatura totale costante è K - cost., e in particolare quella delle superficie a curvatura totale nulla (superficie sviluppabili) è:
e così l'equazione delle superficie a curvatura media costante è H = cost., e in particolare quella delle superficie a curvatura media nulla (superficie d'area minima) è:
Non meno numerose sono le applicazioni alla fisica matematica. Oltre all'equazione delle corde vibranti già considerata: citiamo gli esempî seguenti: Propagazione del calore in un corpo solido:
u è la temperatura nel punto (x, y, z) al tempo t. In particolare per la propagazione rettilinea:
Membrana vibrante:
u è lo spostamento laterale del punto (x, y) al tempo t.
Propagazione delle onde in un mezzo elastico:
u è la condensazione o la dilatazione (aumento o diminuzione relativa della densità) nel punto (x, y, z) al tempo t. Potenziale elettrico:
V è il potenziale, ρ la densità elettrica nel punto (x, y, z).
Moto piano irrotazionale d'un fluido incompressibile:
ϕ è il potenziale di velocità nel punto (x, y).
Gruppi continui di trasformazioni e trasformazioni di contatto.
26. Con la teoria delle equazioni differenziali si connette strettamente quella dei gruppi continui di trasformazioni, dovuta al matematico norvegese S. Lie. Limitiamoci qui a considerare i gruppi continui finiti (cioè a un numero finito di gradi di libertà o parametri) e, per semplicità, riferiamoci al caso del piano. È noto (v. gruppo) che un gruppo continuo ∞r di trasformazioni piane è definito da due equazioni della forma:
dove gli ai denotano gli r parametri (per ipotesi indipendenti); e la proprietà gruppale si traduce nel fatto che, ove si eseguiscano, l'una dopo l'altra, due trasformazioni (32), corrispondenti a due quali si vogliano sistemi ai e bi di valori dei parametri, si ottiene ancora una trasformazione della stessa schiera (32), i cui parametri ci sono esclusivamente funzioni degli ai, bi. Sotto opportune ipotesi qualitative per le funzioni ϕ e ψ, che qui si suppongono soddisfatte, il gruppo (32) contiene, insieme con ogni sua trasformazione, la corrispondente inversa, e, quindi anche, per certi valori ai0 dei parametri, la trasformazione identica o identità. Se ai parametri, nelle (32), si attribuiscono valori prossimi agli ai0 dell'identità, per es. i valori ai ai0 + eiδε, dove le ei sono costanti prese ad arbitrio e δε denota un infinitesimo ausiliario, si ottiene una trasformazione prossima all'identità; e questa trasformazione, applicata a una generica funzione f(x, y) del punto x, y corrente nel piano, fa assumere alla f un incremento infinitesimo la cui parte principale è data, a meno del fattore δε (o, in casi eccezionali, d'una sua potenza), da un'espressione:
dove ξ, η dipendono soltanto da x, y (nonché dagli ei, non dalla funzione f considerata. In particolare, considerando l'effetto sulle coordinate del generico punto x, y, si trova, denotando con δt il primitivo δε (o eventualmente, una sua potenza):
È questa propriamente, secondo la n0menclatura del Lie, la generica trasformazione infinitesima del gruppo; ma, per comodità di linguaggio, egli usa questo stesso nome anche a indicare il corrispondente operatore (33). Al variare degli ei si ottiene dal gruppo (32) un insieme lineare ∞r-1 di trasformazioni infinitesime (34), o, se si vuole, di operatori (33), e in quest'ultimo insieme si p0ssono, in infiniti modi, scegliere r operatori:
tali che essi siano linearmente indipendenti (per costanti) e che tutti gli altri se ne deducano per combinazione lineare a coefficienti costanti. Va ancora ricordato che ogni trasformazione infinitesima (34), indefinitamente iterata (per integrazione), genera una semplice infinità di trasformazioni (finite), le quali costituiscono un sottogruppo ∞1 (abeliano) del gruppo (32); e questo s'identifica, almeno in un conveniente intorno dell'identità, con l'insieme di tutti i sottogruppi ∞1 così generati dalle sue ∞r-1 trasformazioni infinitesime. Condizione necessaria e sufficiente affinché r operatori (35) generino, in questo senso, un gruppo continuo ∞r si è che, oltre a essere linearmente indipendenti (per costanti), siano tali che ciascuno dei loro alternati, a due a due (n. 19), sia esprimibile come combinazione lineare a coefficienti costanti degli operatori stessi:
Infine perché un qualsiasi ente sia trasformato in sé stesso dal gruppo (32), cioè sia invariante rispetto a esso, occorre e basta che esso sia trasformato in sé dalle trasformazioni infinitesime del gruppo o anche dai corrispondenti operatori (35)
27. Ciò premesso, consideriamo un'equazione differenziale del 1° ordine, e prendiamola sotto la forma:
Si dice che essa ammette un gruppo continuo di trasformazioni, o è invariante rispetto a esso, se le trasformazioni di questo gruppo fanno corrispondere a ogni integrale dell'equazione un altro integrale (o eventualmente sé stesso); e, perché ciò accada, occorre e basta, per quanto s'è detto or ora, che la (7) sia invariante in senso analogo, rispetto alle trasformazioni infinitesime, cioè rispetto ai corrispondenti operatori. Orbene, affinché la (7) sia invariante rispetto alla trasformazione infinitesima (33), è necessario e sufficiente che, posto:
esista una funzione μ(x, y), tale che sia:
e, sotto questa condizione, l'espressione
è per la (7) un fattore integrante (n. 11, a). Essa è dunque integrabile per quadrature. Il Lie, cui è dovuto questo risultato, osservò che tutti i tipi classici di equazioni del 1° ordine integrabili elementarmente - di cui qualche esempio si è dato ai nn. 11, 12 - rientrano in questa classe delle equazioni che ammettono una trasformazione infinitesima (e quindi un gruppo continuo ∞1 almeno); e in ogni caso il successo del corrispondente metodo elementare d'integrazione è legato appunto all'esistenza di tale trasformazione infinitesima.
Analogamente, dato il sistema di equazioni differenziali
dove le A sono funzioni delle x, la condizione perché esso sia invariante rispetto a una trasformazione infinitesima:
esista una funzione μ delle x, tale che sia
Di qui si deduce, ad es., che, se per un sistema della forma (36) per n = 3 si conoscono due trasformazioni infinitesime, che lo lasciano invariato, l'integrazione del sistema è ridotta alle quadrature, tranne in un caso ben caratterizzato. Similmente, se si conoscono tre trasformazioni infinitesime, che lasciano invariata un'equazione differenziale del 2° ordine, l'integrazione dell'equazione è ridotta alle quadrature, e in certi casi si può addirittura effettuare in termini finiti; e così via.
28. Un cenno dobbiamo pur dare delle geniali vedute, che sulla integrazione delle equazioni differenziali furono introdotte dal Lie, in connessione alla sua teoria delle trasformazioni di contatto. Richiamiamo rapidamente la definizione di queste trasformazioni (v. anche trasformazione), cominciando dal piano. Avemmo già occasione di considerare, incidentalmente (n. 9), l'elemento lineare, cioè la figura costituita da un punto (centro) e da una direzione, rappresentata concretamente da un segmento di retta (che giova pensare infinitesimo) passante per codesto punto. Nel piano si hanno ∞3 elementi lineari, e precisamente ∞1 per ogni punto; e, come coordinate del generico elemento lineare, si adottano le coordinate cartesiane x, y del centro e il rapporto direttivo p della corrispondente direzione. Una qualsiasi curva del piano si può considerare eome una varietà di ∞1 elementi lineari, costituiti ciascuno da un punto della curva e dalla rispettiva tangente. Se y = y(x) è l'equazione della curva, le equazioni della rispettiva varietà di elementi lineari sono:
Se x, y, p è un generico elemento lineare della curva e x + dx, y + dy, p + dp è il suo infinitamente vicino, si riconosce che il centro del secondo giace (a meno di infinitesimi di ordine superiore) sulla retta del primo: come si suol dire i due elementi sono raccordati. La condizione di raccordo per due generici elementi infinitamente vicini x, y, p e x + dx, y + dy, p + dp è espressa dall'equazione
che è manifestamente soddisfatta per identità dalle (37). Orbene, si riconosce immediatamente che le sole varietà di elementi raccordati (nel senso che in esse due elementi infinitamente vicini quali si vogliano siano sempre raccordati) sono le curve e i punti (questi ultimi come centri di tutti gli elementi passanti per essi). Ciò premesso, si dice trasformazione di contatto (piana) ogni trasformazione, che, operando sugli elementi lineari, e, quindi essendo della forma:
faccia corrispondere a ogni varietà ∞1 di elementi lineari raccordati, ancora una varietà ∞1 di elementi raccordati. Perché ciò accada, occorre e basta manifestamente che la (39) trasformi in sé la condizione di raccordo (38), cioè renda soddisfatta l'equazione:
dove ρ denota una conveniente funzione di x, y, p (dipendente dalla trasformazione considerata). Per la sua stessa definizione una trasformazione di contatto fa corrispondere a ogni curva e a ogni punto altrettante curve. Vengono trasformate in punti solo quelle curve, che provengono dai punti nella trasformazione inversa; ma non accade mai che tutti i punti siano trasformati in punti (a meno che si tratti di un'ordinaria trasformazione puntuale, considerata come operante sugli elementi lineari).
29. In base a queste premesse, il Lie considera ogni equazione differenziale del primo ordine, che qui, ponendo y′ = p, scriveremo:
come l'equazione d' una varietà ∞2 di elementi lineari del piano: integrare la (40) vuol dire distribuire codesti ∞2 elementi in ∞1 varietà, costituite ciascuna da 0ci elementi raccordati. Di qui intanto si è condotti a un'estensione del concetto stesso d'integrale, giacché, accanto alle curve integrali, può darsi che vi sia luogo a considerare anche punti integrali (centri di ∞1 elementi lineari soddisfacenti all'equazione). Inoltre va notato che anche un'equazione:
indipendente da p, cioè l'equazione che, nell'insieme dei punti, rappresenta una curva, definisce, nell'insieme di tutti gli elementi, una varietà di ∞2 elementi. Si tratta degli ∞2 elementi che hanno i loro centri nei punti della curva or ora detta. Ma essi sono già automaticamente distribuiti in ∞1 varietà di ∞1 elementi raccordati, onde si può dire che la (41) è un'equazione già per sé stessa integrata. In base a ciò, quando si volga integrare un'equazione differenziale vera e propria (40), si è condotti a cercare se si possa costruire una trasformazione di contatto, che faccia corrisiondere alla (40) un'equazione del tipo (41), cioè indipendente da p. Quando vi si riesca, l'integrazione della (40) è senz'altro effettuata.
30. Le considerazioni precedenti si estendono allo spazio, cioè alle equazioni a derivate parziali del 1° ordine in due variabili indipendenti. Nello spazio, in luogo degli elementi lineari, si considerano gli elementi piani o faccette, costituiti ciascuno da un centro e da un'areola piana passante per codesto punto. Come coordinate della faccetta si assumono le coordinate cartesiane x, y, z del centro e due parametri p, q, tali che la normale al piano della faccetta abbia coseni direttori proporzionali a p, q, − 1. Qui la condizione di raccordo tra una faccetta e la sua infinitamente vicina (cioè la condizione perché il piano della seconda passi, a meno di infinitesimi d'ordine superiore, per il centro della prima) è data dalla:
e a una tale condizione soddisfanno identicamente le ∞2 faccette d'una qualsiasi superficie z = z (x, y), in quanto esse sono definite, nell'insieme di tutte le faccette, dalle equazioni:
Ma se nello spazio si cercano tutte le varietà di ∞2 faccette raccordate, si trovano, oltre i due casi estremi delle ∞2 faccette d'una superficie e delle ∞2 faccette d'un punto, anche le ∞2 faccette d'una curva, cioè le ∞2 faccette, che hanno il centro su codesta curva e il piano passante per la corrispondente tangente. Le trasformazioni di contatto nello spazio si definiscono come quelle trasformazioni, che, operando sulle faccette, cioè essendo della forma:
trasformano in sé la condizione di raccordo (42), cioè rendono soddisfatta l'equazione
dove ρ denota una conveniente funzione di x, y, z, p, q. E una tale trasformazione, applicata tanto a una superficie, quanto a una curva o a un punto, dà luogo in generale a una superficie, in casi speciali a una curva o anche a un punto. Così pure per le curve e per i punti, salvo che non può mai accadere che tutti i punti siano trasformati in punti (a meno che la trasformazione considerata sia un'ordinaria trasformazione puntuale, considerata come operante sulle faccette).
31. Un'equazione a derivate parziali del 1° ordine:
definisce nello spazio una certa varietà di ∞4 faccette; e trovarne un integrale completo vuol dire distribuire queste ∞4 faccette in ∞2 varietà, costituite ciascuna da ∞2 faccette raccordate. Di qui deriva una estensione del concetto stesso d'integrale completo. Si consideri, a es., il caso di un'equazione lineare (n. 18), cioè della forma:
In questo caso esiste un integrale completo, costituito non già da ∞2 superficie (come si è richiesto nella primitiva definizione, n. 17), bensì da ∞2 curve. Si tratta precisamente delle ∞2 curve caratteristiche, onde poi risulta che ogni superficie generata da ∞1 caratteristiche dà un integrale generale. Se poi si tratta di un'equazione:
indipendente tanto da p, quanto da q, cioè dell'equazione d'una superficie, essa rappresenta pur sempre ∞1 faccette; ma queste faccette, invece di essere disposte comunque nello spazio, sono quelle appartenenti agli ∞2 punti della superficie rappresentata dall'equazione. Questi ∞2 punti, considerati come varietà, costituiscono un integrale completo; ogni linea tracciata sulla superficie è un integrale generale; la superficie stessa è l'integrale singolare. Oppure si può assumere come integrale completo una congruenza di linee poste sulla superficie; gl'inviluppi delle famiglie di ∞1 linee contenute nella congruenza sono gl'integrali generali, e la superficie è sempre l'integrale singolare. Reciprocamente, se un'equazione F = 0 ha un integrale completo composto di ∞2 punti, essa non può contenere né p né q; se ha un integrale completo composto di ∞2 curve, non contiene p né q, oppure è lineare, secondoché queste curve giacciono o no sopra una superficie. Quindi, se l'equazione contiene p o q e non è lineare, ogni integrale completo è composto di ∞2 superficie; l'inviluppo di ∞1 superficie, oppure una curva comune a ∞1 superficie, è un integrale generale; se esiste una superficie avente un elemento comune con ciascun integrale particolare, essa è l'integrale singolare.
Notiamo infine che, se si conosce una trasformazione di contatto che muti un'equazione (44) in una della forma (46), un integrale completo della (44) sarà costituito dalle ∞2 superficie che si ottengono applicando ai punti della superficie (46) la trasformazione inversa.
31. In uno spazio a n + 1 dimensioni, in cui x1, x2, ..., xn, z siano coordinate cartesiane, per avere le coordinate d'un elemento a n dimensioni (punto e iperpiano, appartenentisi), bisogna introdurre altri n parametri p1, p2, ..., pn. La condizione di raccordo è dz − p1dx1 − p2dx2 − p2dx2 − ... − pn dxn = 0; e una trasformazione della forma:
dove nei secondi membri compaiono altrettante funzioni dei 2n +1 uindicati, è una trasformazione di contatto sempre e solo quando renda soddisfatta un'equazione della forma:
dove, al solito, ρ denota una conveniente funzione delle coordinate x, z, p d'un generico elemento. Ci limitiamo ad aggiungere che le condizioni analitiche necessarie e sufficienti perché ciò accada si possono scrivere, utilizzando le parentesi di Jacobi (n. 20):
La funzione ρ (moltiplicatore della trasformazione di contatto) è data da:
Si è condotti a un'importante classe speciale di trasformazioni di contatto, supponendo le Xi e Pi; indipendenti da z (trasformazioni di contatto nelle x, p), nel qual caso ρ si riduce a una costante c e Z prende la forma:
Ove, in una tale trasformazione di contatto, si considerino solo le 2n equazioni relative alle x, p, si ottengono le cosiddette trasformazioni canoniche, che hanno un ufficio essenziale nella teoria dei sistemi hamiltoniani della dinamica. Se poi ϑ si riduce a una costante, le Xi e le Pi risultano, rispetto alle p, omogenee dei gradi 0 e 1 rispettivamente, e si ottengono le cosiddette trasformazioni di contatto omogenee, le quali del resto non sono, sostanzialmente, meno generali delle (47), giacché a queste si riducono (con n diminuito di 1) col cambiamento di variabili:
Non possiamo qui dilungarci sulle applicazioni che questi varî tipi di trasformazioni di contatto trovano nelle teorie di classificazione e integrazione delle equazioni e dei sistemi differenziali. Rimandiamo il lettore ai trattati speciali, accontentandoci di aver dato qualche esempio dei più elementari nel caso del piano e dello spazio.
32. Piuttosto riteniamo opportuno accennare un altro concetto, che trova applicazione nel problema dell'integrazione dei sistemi di equazioni a derivate parziali del 1° ordine.
Più funzioni F1, ..., Fr di x1, ..., xn, p1, ...., pn, tra loro indipendenti, e tali che le parentesi di Poisson (Fh, Fk) siano funzioni delle F stesse, costituiscono un gruppo r-plo di funzioni. Ogni sistema di r funzioni indipendenti del gruppo può servire a definirlo; si dice che tali funzioni costituiscono una forma del gruppo. Ogni trasformazione di contatto nelle x, p trasforma un gruppo in un gruppo. Se u1,..., ur,. costituiscono una forma d'un gruppo r-plo, il sistema d'equazioni lineari omogenee a derivate parziali del primo ordine rispetto alla funzione f:
è completo (v. n. 19), e reciprocamente. Il sistema ammette 2n - r integrali indipendenti; detto v1, ..., v2n-r. un sistema di tali integrali, i gruppi definiti dalle forme u1,..., ur e v1, ..., v2n-r. si dicono polari o reciproci. Onni trasformazione di contatto nelle x, p muta gruppi reciproci in gruppi reciproci.
Le funzioni comuni a due giuppi reciproci si dicono funzioni singolari dei due gruppi; esse definiscono un sottogruppo comune a questi. Se r è dispari, esiste almeno una funzione singolare.
Un gruppo r-plo si può sempre mettere sotto la forma canonica:
dove m ≤ r/2, q = r − 2m e:
Le funzioni singolari sono quelle del sottogruppo definito da Xm+1, ..., Xm+q. La condizione necessaria e sufficiente perché due gruppi siano trasformabili l'uno nell'altfo mediante una trasformazione nelle x, p è che i numeri r e q sieno eguali per i due gruppi.
Dato il gruppo (48), possiamo, mediante integrazioni successive di sistemi completi, determinare altre funzioni Pm+1, ..., Pn, Xm+q+1, Xn, in modo che P1, ..., Pn, X1, ..., Xn sia la forma canonica d'un gruppo senza funzioni singolari. Le equazioni:
dove ϑ (x, p) è un'opportuna funzione, costituiscono allora una trasformazione di contatto nelle x, p. Se un gruppo ammette una forma composta di funzioni omogenee rispetto alle p, esso si dice omogeneo. Il reciproco d'un gruppo omogeneo è omogeneo. Un gruppo omogeneo può sempre mettersi sotto l'una o l'altra delle due forme canoniche:
dove le Xi sono omogenee di grado 0, e le Pi di grado 1, rispetto a p1, ..., pr.
33. Come s'è accennato, la teoria dei gruppi di funzioni trova applicazione nel problema dell'integrazione dei sistemi d'equazioni a derivate parziali del primo ordine. Si abbia il sistema in involuzione (v. n. 20):
Il sistema d'equazioni a derivate parziali rispetto alla funzione f:
ammette evidentemente gl'integrali f = u1, ...,.f = ur. Se noi conosciamo altri 2n − 2r integrali, il problema dell'integrazione è completamente risolto. Supponiamo di conoscerne un numero minore, e sieno ur+1, ..., uq (q 〈 2 n − r). Allora le funzioni u1,..., uq definiscono un gruppo contenente le funzioni singolari u1,..., ur. Se esso ne contiene altre, w1, ..., ws, la differenza q − (r + s) sarà pari (o nulla); e il gruppo, indicando codesta differenza con 2 t, si potrà porre sotto la forma canonica:
L'integrazione del sistema proposto sarà ridotta a quella, più facile, del sistema in involuzione:
Cenni sullo studio analitico degl'integrali delle equazioni differenziali.
34. L'impossibilità d'ottenere, nella maggior parte dei casi, l'espressione esplicita degl'integrali delle equazioni differenziali ha indotto i matematici a cercare di riconoscere i caratteri analitici degl'integrali indipendentemente dalla loro forma esplicita. Lo studio analitico degl'integrali delle equazioni differenziali costituisce un ramo molto esteso, e tuttora in via di sviluppo, dell'analisi, al quale si possono dedicare qui soltanto pochi cenni. In questo studio si ammette che tanto le variabili quanto le costanti che figurano nelle equazioni differenziali possano prendere valori anche complessi. Il punto di partenza è il teorema di esistenza degli integrali stabilito da A. Cauchy e completato poi da altri. Se nel sistema:
le fi sono funzioni analitiche dei loro argomenti, regolari per un sistema di valori di essi (punto analitico):
esiste un sistema e uno solo di funzioni analitiche y1, ..., yn di x, che sodddisfano al sistema proposto e per x = x(o) sono regolari e prendono rispettivamente i valori y1(o), ..., yn(o). Le y1, ..., yn(o) sono dunque rappresentate, entro un certo cenhio di centro x(o), da serie di potenze di x − x(o). Da questo teorema segue l'altro: Se l'equazione:
dove y′,..., y(n) denotano le derivate successive di y rispetto a x, è atta a definire y(n) come funzione analitica di x, y, y′, ..., y(n-1) regolare per:
esiste una funzione analitica, e una sola, y di x, che soddisfa all'equazione differenziale proposta, è regolare nel punto x = x(o), e prende in questo punto insieme alle sue derivate i valori y(o), (y′)(o), ...., (y(n-1))(o). Un teorema analogo sussiste per le equazioni e i sistemi di equazioni a derivate parziali.
35. I punti singolari degli integrali possono dipendere solo dalle costanti che figurano nell'equazione o nel sistema di equazioni considerato, o anche dai valori iniziali assunti; i primi si dicono fissi, i secondi variabili.
I punti singolari degl'integrali delle equazioni lineari omogenee (n. 13):
sono tutti fissi, e non possono essere che quelli delle funzioni P1/P0 ,..., Pn/P0, o più semplicemente quelli delle funzioni P1 ,..., Pn se si suppone P0 = 1. Se la variabile gira intorno a un punto singolare c, gli n integrali particolari (linearmente indipendenti) y1, ..., yn d'un sistema fondamentale si trasformano in altri n integrali (pur essi costituenti un sistema fondamentale):
dove il determinante a elementi costanti:
è diverso da zero. Se l'equazione in r
ha tutte le radici distinte, indicandole con r1, r2, ..., rn, si può trovare un sistema di n integrali linearmente indipendenti y1, ..., yn i quali, per un giro della variabile intorno al punto singolare c, si mutano rispettivamente in r1y1, r2y2,..., rnyn. Questi integrali hanno la forma
dove le ϕh (x) sono regolari in c, e:
L'equazione avente per radici le sh dicesi equazione determinante. Meno semplice è il risultato, se le radici r non sono tutte distinte. Così, se r1 è radice m-pla, esistono m integrali linearmente indipendenti y1, y2, ..., ym che, per un giro di x intorno a c, si trasformano negl'integrali:
e analogamente per le altre radici. Questi integrali hanno la forma:
dove:
e le ϕ sono funzioni regolari in c; le ϕ11, ϕ22, ..., ϕmm differiscono tra loro soltanto per fattori costanti. Se in c le ϕ sono regolari o hanno un polo, si dice che gl'integrali y1, ..., ym sono regolari. La condizione necessaria e sufficiente perché gl'integrali di un'equazione (12), in cui P0 = 1, siano regolari in c è che Ph (h = 1, 2, ..., n) sia olomorfa in c oppure abbia in questo punto un polo d'ordine ≤ h (teorema di L. Fuchs). Per le equazioni di questa forma l'equazione determinante è:
dove:
Se un'equazione lineare a coefficienti uniformi ha nel piano un numero finito di punti singolari, la sostituzione lineare, che un sistema fondamentale d'integrali subisce quando x descrive un qualsiasi contorno chiuso, è il prodotto operatorio delle sostituzioni relative ai singoli punti singolari, contenuti nel contorno (o, eventualmente, di potenze di tali sostituzioni); e l'insieme delle sostituzioni relative a tutti i possibili contorni chiusi costituigce un gruppo). Questo gruppo è diverso a seconda del sistema fondamentale d'integrali considerato; ma se G, G′ sono i gruppi corrispondenti a due sistemi fondamentali diversi A, A′, e se S è la sostituzione lineare mediante la quale si passa dal sistema A al sistema A′, si ha G′ = S-1 GS; come si suol dire, i due gruppi G, G′ sono equivalenti.
36. Esistono analogie notevoli fra la teoria delle equazioni algebriche (v. algebra) e quella delle equazioni differenziali lineari omogenee. Se y1, ..., yn sono n integrali linearmente indipendenti dell'equazione (12), le P1, ..., Pn, i sono funzioni razionali delle y1, ..., yn, t e delle loro derivate sino all'ordine n. Il gruppo H di trasformazioni a n2 parametri:
muta gl'integrali in integrali, e perciò lascia invariate le P; reciprocamente ogni funzione razionale delle y e delle loro derivate, invariante rispetto ad H, è una funzione razionale delle P e delle loro derivate. Data una funzione razionale delle y e delle loro derivate, esiste un sottogruppo di H rispetto al quale essa è invariante; e reciprocamente per ogni sottogruppo vi sono funzioni invarianti rispetto a esso. Ogni funzione invariante rispetto a un sottogruppo di H si può esprimere razionalmente mediante una funzione di tal natura e le sue derivate, e mediante le P e le loro derivate. Supponiamo in particolare che i coefficienti Ph siano funzioni razionali di x. In tal caso si dice che l'equazione è irriducibile, se essa non ha integrali comuni (tranne l'integrale y = 0) con alcuna equazione della stessa forma e d'ordine minore. Poniamo
dove le v sono funzioni razionali arbitrarie di x. Deriviamo n2 volte questa relazione, e n2 − n volte le identità:
eliminando tra le equazioni così ottenute le yi e le loro derivate, si ottiene un'equazione lineare omogenea d'ordine n2 in Y; il gruppo di trasformazioni K che lascia invariata questa equazione, o, se è riducibile, una delle equazioni d'ordine minimo a coefficienti razionali aventi con essa integrali comuni, si dice gruppo dell'equazione considerata. Ogni funzione razionale di x, delle y, e delle loro derivate, che è esprimibile razionalmente per x, è invariante rispetto a K, e reciprocamente. La condizione necessaria e sufficiente perché un'equazione lineare omogenea sia integrabile per quadrature è che il suo gruppo sia integrabile, cioè che contenga un sottogruppo invariante K1 con un parametro di meno, che K1 contenga a sua volta un sottogruppo invariante con un parametro di meno, e così di seguito, e che l'ultimo sottogruppo sia un parametro.
Equazioni integrali.
37. Le equazioni integrali più particolarmente studiate finora sono quelle lineari, cioè contenenti linearmente la funzione incognita. I tipi più comuni sono quattro; e cioè, denotando con ϕ la funzione incognita, con f e K due funzioni date:
a) Equazione di Volterra di prima specie:
con i la condizione:
b) Equazione di Volterra di seconda specie:
c) Equazione di Fredholm di prima specie:
con la condizione:
d) Equazione di Fredholm di seconda specie:
La funzione (reale) K (x, y), che si dice nucleo dell'equazione integrale, si suppone definita nel quadrato, che indicheremo con Q, avente i vertici (0, 0), (1, 0), (1, 1), (0, 1); e l'altra funzione data f (x) si suppone definita nell'intervallo (0, 1). Se il nucleo non è finito in tutto il campo Q, l'equazione integrale si dice singolare.
38. Equazione di Volterra di prima specie. - L'equazione di Volterra di prima specie si può ridurre, sotto la condizione:
all'equazione di seconda specie:
dove w (x) è la funzione incognita; trovato w (x), si ha ϕ(x) = w′ (x).
Se K (x, y) è un polinomio di grado n in x, i cui coefficienti siano funzioni finite e continue di y, la risoluzione dell'equazione integrale di prima specie può ridursi all'integrazione di un'equazione differenziale lineare d'ordine n. Ciò è possibile anche se K si annulla in un numero finito di punti di Q, e l'equazione può ammettere anche in questo caso una soluzione finita per x = 0. In casi più generali la soluzione si presenta come limite d'una successione di funzioni. Se il nucleo non è finito in tutto Q, in certi casi l'equazione si può trasformare in un'altra a nucleo finito. Per es., se il nucleo ha la forma:
dove 0 〈 γ 〈 1, si può operare così. Si moltiplichi l'equazione per (t − x)γ-1 e si integri rispetto ad x da o a t; risulta, invertendo nel secondo membro l'ordine delle integrazioni:
Ponendo:
si ha la nuova equazione di prima specie:
dove F1 (t, y) è finita per 0 ≤ t ≤ 1 e 0 ≤ y ≤ 1, e f1 (t) lo è per 0 ≤ t ≤ 1.
39. Equazione di Volterra di seconda specie. - Si suole scrivere:
dove λ è un parametro indeteiminato. Per risolvere l'equazione, si pone:
e si cerca di determinare successivamente le ϕn (x), introducendo l'espressione ora scritta nell'equazione, ed eguagliando a zero i coefficienti delle singole potenze di λ. Si trova:
la serie (48) risulta convergente nell'intervallo 0 ≤ x ≤ 1 qualunque sia λ. Si dicono nuclei iterati le funzioni:
dove K1 (x, y) si identifica con K (x, y); per 1 ≤ h ≤ n − 1 si ha:
Introducendo i nuclei iterati, si ha:
e quindi:
o anche:
la funzione:
si dice nucleo risolvente; essa è una funzione intera di λ per ogni coppia di valori x, y appartenente al quadrato Q. La soluzione (49) è unica. Per le equazioni singolari di seconda specie si può ripetere quanto si è detto nel n. prec. per quelle di prima specie.
40. Equazione di Fredholm di prima specie. - Un'equazione di Fredholm di prima specie non ammette in generale soluzioni; condizione necessaria (ma non sufficiente) perché essa sia risolubile è che f(x) sia esprimibile linearmente mediante un numero finito o infinito di funzioni caratteristiche (v. più innanzi n. 42) del nucleo:
L'equazione può avere più d'una soluzione. Sono state stabilite anche altre condizioni necessarie per la risolubilità.
41. Equazione di Fredholm di seconda specie. - È necessario premettere alcuni cenni sui sistemi di funzioni ortogonali, o biortogonali, e normali.
Due funzioni (finite e continue d'una variabile reale x) ϕ(x), ψ(x) si dicono ortogonali tra loro, rispetto a un intervallo (ab), se:
Una funzione ϕ (x) si dice normale, rispetto a un intervallo (a, b), se:
Un sistema di funzioni si dice ortogonale, se le funzioni di cui è formato sono tra loro a due a due ortogonali; normale, se esse sono tutte normali. Due sistemi di funzioni si dicono biortogonali, se ogni funzione dell'uno è ortogonale a ogni funzione dell'altro. Ogni sistema finito o numerabile di funzioni tra loro linearmente indipendenti può trasformarsi in un sistema ortogonale e normale equivalente. Si dicono equivalenti due sistemi di funzioni, se ogni funzione dell'uno dei sistemi è esprimibile linearmente mediante le funzioni dell'altro; non è escluso che l'espressione lineare possa contenere infiniti termini, ma in questo caso s'intende che la serie sia equiconvergente nell'intervallo considerato. Due sistemi finiti o numerabili di funzioni tra loro linearmente indipendenti (contenenti, se finiti, un egual numero di elementi) possono trasformarsi in due sistemi biortogonali e normali ad essi rispettivamente equivalenti. Un sistema ortogonale ϕ1(x), ϕ2(x),... si dice completo, se, qualunque sia la funzione continua g (x), è
42. All'equazione di Fredholm di seconda specie:
si può applicare il metodo di approssimazioni successive esposto nel n. 39. Posto:
dove K1 (x, y) ≡ K (x, y), e inoltre:
si ottiene:
e la soluzione è unica. Però in questo caso la funzione H (x, y, λ) di λ non è intera, ma in generale è olomorfa soltanto entro un certo cerchio del piano λ, che ha il centro nell'origine e un raggio finito. Essa è il quoziente di due funzioni intere, di cui la funzione denominatore è indipendente da x e y. Si ha cioè:
dove:
essendo:
e le integrazioni essendo, qui e in seguito, estese all'intervallo (0, 1). Pertanto la formula (51) è valida per tutti i valori di λ, esclusi quelli che sono radici della funzione D (λ). Questi valori si dicono valori caratteristici o eccezionali o singolari, o anche, impropriamente, autovalori (falsa traduzione della parola tedesca Eigenwerte). I valori caratteristici di λ sono i soli per i quali l'equazione omogenea:
ammette soluzioni non identicamente nulle; queste si dicono funzioni caratteristiche o eccezionali o singolari, o autofunzioni (Eigenfunktionen). A ogni valore caratteristico corrispondono infinite funzioni caratteristiche, che sono funzioni lineari omogenee d'un numero finito di esse; tale numero, che si dice rango del valore caratteristico, non può superare l'ordine di moltiplicità di questo valore come radice di D (λ). L'equazione:
si dice associata della (52); essa ha gli stessi valori caratteristici della (52) e con lo stesso rango, e le funzioni caratteristiche relative si dicono funzioni associate di quelle corrispondenti della (52). Una funzione caratteristica e una sua associata, relative a due valori caratteristici diversi, sono tra loro ortogonali, rispetto all'intervallo (0,1). Disposti i valori caratteristici in ordine generalmente crescente di modulo:
e, detti r1, r2,...., i loro ranghi, si possono formare due successioni rispettivamente di funzioni caratteristiche e di funzioni associate, prendendo dapprima, in ordine qualsiasi, r1 funzioni linearmente indipendenti corrispondenti a λ1, poi r2 corrispondenti a λ2, e così di seguito. Si possono poi trasformare le due successioni in una coppia di sistemi equivalenti biortogonali e normali (v. n. 41). Se λ è un valore caratteristico di rango r della (52), la condizione necessaria e sufficiente perché la (50) ammetta soluzioni è che f (x) sia ortogonale a tutte le funzioni associate relative al valore j; in tal caso esistono ∞′ soluzioni, che si ottengono da una qualsiasi di esse aggiungendo una funzione lineare omogenea a coefficienti costanti arbitrarî di r funzioni caratteristiche linearmente indipendenti relative a λ. Una soluzione è data da:
dove x1, ..., xr, y1, ..., yr sono arbitrarie, e:
43. Se λ è un valore caratteristico del nucleo K (x, y), e ϕ(x) una funzione caratteristica corrispondente, λn è un valore caratteristico del nucleo Kn (x, y), e ϕ (x) è una funzione caratteristica corrispondente. Reciprocamente, se λ è un valore caratteristico del nucleo Kn (x, y), uno almeno dei numeri
è valore caratteristico del nucleo K(x, y). Di questa proprietà dei nuclei iterati si approfitta per risolvere certe equazioni integrali singolari, il cui nucleo è infinito in qualche punto del campo Q, mentre esistono iterati di esso finiti in tutto questo campo.
Esistono nuclei che non ammettono valori caratteristici. La condizione necessaria e sufficiente perché il nucleo K(x, y) non abbia valori caratteristici è che, posto:
le cn siano tutte nulle da un certo indice in avanti; in tal caso è cn = 0 per ogni n > 2. Segue di qui immediatamente che condizione sufficiente perché non esistano valori caratteristici è che tutti i nuclei iterati, da un certo indice in avanti, siano nulli. La condizione necessaria e sufficiente perché i valori caratteristici siano in numero finito è che, da un certo n in avanti, tra cn, cn+1, ...., cn+m abbia luogo una medesima relazione lineare omogenea, m essendo un numero fisso. In tal caso la relazione sussiste per ogni n > 2.
44. Particolare importanza, specialmente per le applicazioni alla fisica matematica, hanno i nuclei simmetrici (cioè quelli che sono funzioni simmetriche di x e y). Gl'iterati d'un nucleo simmetrico sono simmetrici, e nessuno di essi è identicamente nullo; i numeri cn di indice pari sono tutti positivi, donde segue che ogni nucleo simmetrico ammette valori caratteristici. Questi sono tutti reali. Le funzioni caratteristiche coincidono con le loro associate; quindi si può formare un sistema ortogonale e normale di funzioni caratteristiche, tra loro linearmente indipendenti, e tali che ogni funzione caratteristica è una loro combinazione lineare. Indicando con λ1, λ2,... i valori caratteristici, dove ciascuno di essi s' intende ripetuto tante volte quante unità contiene il suo rango, e con ϕ1(x), ϕ2 (x),... le funzioni caratteristiche corrispondenti, ha luogo la formula:
purché la serie sia equiconvergente in Q (o in particolare abbia un numero finito di termini). È sempre equiconvergente in Q la serie:
per s ≥ 2; essa ha per somma Ks (x, y).
Ogni funzione f (x) rappresentabile sotto la forma:
dove K (x, y) è simmetrico e g (x) è continua, può svilupparsi in serie secondo le funzioni caratteristiche di K (x, y):
dove:
Un nucleo simmetrico K (x, y) si dice definito o semidefinito, se per ogni funzione continua g (x) l'integrale:
è > 0 o 〈 0, oppure > 0 o ≤ 0; si dice chiuso, se per ogni funzione continua g (x) è:
Ogni nucleo chiuso ammette infiniti valori caratteristici. Ogni nucleo definito è chiuso, e quindi ammette infiniti valori caratteristici. I valori caratteristici di un nucleo definito o semidefinito sono tutti positivi.
45. Più generali dei nuclei simmetrici sono i nuclei simmetrizzabili. un nucleo K (x, y) si dice simmetrizzabile, se esiste un nucleo simmetrico definito G (x, y) tale, che una delle due funzioni:
sia simmetrica. Gl'iterati di un nucleo simmetrizzabile sono simmetrizzabili. Un nucleo simmetrizzabile ammette sempre valori caratteristici, e questi sono tutti reali. Costituiscono un caso speciale dei nuclei simmetrizzabili i nuclei polari, cioè quelli che hanno la forma:
dove L (x, y) è un nucleo simmetrico definito.
46. La risoluzione dell'equazione (50) a nucleo non simmetrico può ridursi a quella dell'equazione a nucleo simmetrico:
dove:
Analogamente quella dell'equazione associata:
può ridursi a quella dell'equazione a nucleo simmetrico:
dove:
I nuclei:
sono simmetrici e semidefiniti, e hanno gli stessi valori caratteristici (reali e positivi) con lo stesso rango. Indicando con λ2 uno di questi, con μ (x), ν(x) due funzioni caratteristiche ad esso corrispondenti per i nuclei M (x, y), N (x,y), hanno luogo tra le μ (x), ν(x) le relazioni:
Se μ1 (x), μ2 (x), ... e ν1 (x), ν2 (x), ... sono due sistemi ortogonali e normali di funzioni caratteristiche dei due nuclei, è:
purché la serie sia equiconvergente in Q.
47. Sistemi d'equazioni integrali. - La risoluzione di un sistema di equazioni integrali (di Volterra o di Fredholm) di seconda specie può ridursi a quella di un'unica equazione. Si abbiano p. es. le n equazioni di Fredholm:
In luogo delle funzioni fh (x), ϕh (x) definite nell'intervallo (0,1) e dei nuclei Khi (x, y) definiti nel quadrato Q, s'introducono le funzioni F(x), Φ (x) definite nell'intervallo (0, n) e il nucleo K (x, y) definito nel quadrato di vertici (0, 0), (n, 0), (n, n), (0, n), mediante le relazioni:
si ha allora l'unica equazione:
48. Accenniamo brevemente ad alcune estensioni della teoria delle equazioni integrali. a) Si è parlato più volte di equazioni singolari, il cui nucleo cioè non è finito in tutto il campo Q.Sii dicono pure singolari le equazioni in cui il campo d'integrazione è infinito; esse possono trasformarsi in equazioni del tipo precedente. b) L'estensione della teoria alle equazioni contenenti funzioni di più variabili è immediata. c) Oltre le equazioni di prima e di seconda specie, furono considerate anche le equazioni di terza sperie:
Con la trasformazione:
si ottiene un'equazione di seconda specie:
il cui nucleo è finito in Q, purché g (x) non si annulli per o ≤ x ≤ 1.d) La teoria delle equazioni integrali è stata estesa anche a equazioni a funzioni complesse. e) Sono state pure studiate certe equazioni non lineari.
49. La teoria delle equazioni integrali si connette strettamente con quella dei sistemi infiniti di equazioni lineari (in senso algebrico). Infatti l'equazione:
è equivalente al sistema:
dove t1, t2,... sono le incognite, e:
le w1 (x), w2 (x),... costituiscono un sistema ortogonale, normale e completo di funzioni. Note le t, si ha:
e viceversa, nota ϕ (x), risulta:
La serie
è convergente, e così la serie
L'arbitrarietà nella scelta del sistema delle w (x) permette di sceglierlo in modo da facilitare la risoluzione del sistema. Una condizione più larga della convergenza della serie
è che la forma bilineare a infinite variabili uh, vk:
sia completamente continua (vollstetig); ciò significa che, posto:
si possa trovare per ogni ε un n tale che, per due indici quali si vogliano n1, ed n2, maggiori di n, e per tutti i valori delle u, v per cui:
sia ∣Sn1 − Sn2∣ 〈 ε.
Se la forma considerata è completamente continua, il sistema lineare si comporta come un sistema finito. Cioè: o esso ammette un'unica soluzione, tale che
sia convergente per ciascun sistema di valori dei secondi membri per cui
è convergente, oppure il sistema, ridotto omogeneo, ammette un numero finito (> 0) di soluzioni linearmente indipendenti tali che
converga.
50. Applicazioni; alla teoria delle equazioni differenziali. - Se
è un'equazione del 2° ordine autoaggiunta (n. 13), e P ≠ 0 in tutto l'intervallo (a, b), si dice funzione di Green della (53) relativa a un punto ξ di questo intervallo un suo integrale continuo G (x, ξ) avente le seguenti proprietà: a) la sua derivata ha una discontinuità di ampiezza − 1/P (ξ) in ξ; b) posto G (x, η) =y, G (x, ζ) = z, dove η, ζ sono due punti qualunque dell'intervallo (a, b), la funzione P(yz′ − y′z) prende lo stesso valore nei due estremi di questo intervallo.
La G è funzione simmetrica dei suoi due argomenti.
Nota una funzione di Green G (x, ξ) della (53), si ottiene una funzione di Green Γ (x, ξ) della:
dove λ è un parametro indeterminato, risolvendo l'equazione integrale:
Si ha anche:
cioè Γ è, a meno del segno, il nucleo risolvente del nucleo G.
Gl'integrali della (54) a derivata continua sono le funzioni caratteristiche del nucleo G, relative al valore caratteristico λ.
Ρισυλτατι αναλοηθι σι θαννο περ ι σιστεμι δι εςυαϕιονι δελ 2° ορδινε αυτοαηηιυντε, ε ανγθε περ λε εςυαϕιονι α derivate parziali del 2° ordine della forma:
51. Applicazioni alla fisica matematica, meccanica, e altre. - Le applicazioni delle equazioni integrali alla fisica matematica e alla meccanica sono numerosissime. Eccone alcune: problema di Dirichlet; problema di Neumann; potenziale di una distribuzione di masse o di un semplice o doppio strato; potenziale di velocità del moto irrotazionale di un liquido; oscillazioni elettriche; teoria cinetica dei gas; oscillazioni f0rzate di una corda; vibrazioni di una membrana; movimento del calore in un'asta o in una lamina; equilibrio termico, tenendo conto dell'irradiazione; propagazione delle onde sonore; moto ondoso dei laghi (seiches); questioni varie di meccanica applicata, tra cui per es. la teoria degli alberi rotanti. Le equazioni integrali trovano anche applicazioni nella matematica finanziaria e nella statistica matematica.
Equazioni integro-differenziali.
52. Lo studio delle equazioni integro-differenziali si fonda sulla teoria della composizione delle funzioni. In questa teoria, mentre si mantiene alla somma di due funzioni il significato ordinario, si definisce prodotto di due funzioni f (x, y), g (x, y) la funzione:
il prodotto si dice di prima o di seconda specie, secondo che l'integrazione è estesa all'intervallo (x, y) oppure a un intervallo costante. Il prodotto ha le proprietà associativa e distributiva, ma in generale non ha la proprietà commutativa; se questa ha luogo, le due funzioni si dicono permutabili (di prima o di seconda specie). Si definiscono conseguentemente la potenza, il polinomio e la serie di potenze di composizione. Si possono anche estendere i concetti di quoziente, di potenza a esponente reale qualsiasi e di logaritmo.
Se la serie di potenze
ha raggio di convergenza 2 > 0, la serie di potenze di composizione di prima specie:
dove f (x, y) è una funzione limitata, è convergente per tutti i valori di z. Il teorema può estendersi alle serie di potenze di più variabili. Esso sussiste anche per la composizione di seconda specie; in questo caso, se P è intera, lo è pure Q; se P è meromorfa, lo è pure Q. Alcune equazioni integro-differenziali possono ridursi mediante un certo numero d'integrazioni successive a equazioni integrali; tali per es. le equazioni della forma:
dove a e b sono costanti. Altre sono riducibili a sistemi meno semplici di equazioni; così la risoluzione dell'equazione:
si riduce all'integrazione d'un sistema simultaneo di due equazioni integrali e di un'equazione a derivate parziali del secondo ordine.
Un teorema suscettibile d'importanti applicazioni è il seguente, che qui si enuncia per semplicità per n = 2, ma che sussiste per ogni valore di n. Sia:
un'equaziione algebrico-differenziale d'ordine qualunque, e sia:
un suo integrale. A z1, z2, ϕ sostituiamo nell'equazione rispettivamente z1ξ1, z2ξ2, ψ/ξ0 dove le ξ sono indipendenti dalle z; l'equazione, ridotta a forma intera, diverrà:
e sarà soddisfatta da:
Se ora in luogo di ξ0, ξ 1, ξ 2 poniamo tre funzioni f0 (x, y), f1 (x, y), f2 (x, y) tra loro permutabili di prima specie, e intendiamo i prodotti nel senso della teoria della composizione di prima specie, risulta un'equazione integro-differenziale:
di cui un integrale è:
Il teorema può estendersi ai sistemi di equazioni integro-differenziali. Risultati analoghi si hanno per la composizione di seconda specie.
Le equazioni integro-differenziali trovano una delle principali applicazioni nello studio dei fenomeni fisici detti ereditarî (v. ereditarietà meccanica), i quali cioè non dipendono soltanto dallo stato attuale del corpo e dalle condizioni iniziali, ma anche da tutti gli stati precedenti, come l'isteresi magnetica. Così l'equazione di una corda vibrante (n. 5), tenendo conto dell'eredità, diviene (supposto per semplicità a = 1):
dove K (t, τ) è una funzione nota, che si dice coefficiente d'eredità. Ad applicazioni analoghe dà luogo lo studio di fenomeni biologici, come la convivenza di più specie organiche in uno stesso ambiente.
Bibl.: Sarebbe impossibile, e anche inutile, presentare una bibliografia vera e propria degli argomenti trattati in questo articolo. Basti osservare che la teoria delle equazioni differenziali risale alla fine del '600, e che quella delle equazioni integrali e integro-differenziali, sebbene di data assai più recente, ha formato l'oggetto di qualche migliaio di opere e memorie. Ci limiteremo qui a indicare alcuni trattati, cui potrà ricorrere chi voglia approfondire i singoli argomenti a) Per le equazioni differenziali, oltre i trattati citati nella bibl. della voce integrale, calcolo: A. R. Forsyth, Trattato sulle equazioni differenziali (trad. di A. Arbicone), Livorno 1901; E. Goursat, Leçons sur l'intégration des équations aux dérivées partielles du premier ordre, 2ª ed., Parigi 1921; id., Leçons sur l'intégration des équations aux dérivées partielles du second ordre, voll. 2, Parigi 1896, 1898; É. Picard, Traité d'analyse, 3ª ed., III, Parigi 1928. - b) Per la teoria dei gruppi di trasformazioni puntuali e di contatto, v. la bibl. della voce gruppo. - c) Per la teoria delle equazioni integrali e integro-differenziali: T. Lalesco, Introduction à la théorie des équations intégrales, Parigi 1912; D. Hilbert, Grundzüge einer allgemeinen Theorie der linearen Integralgleichungen, Lipsia 1912; V. Volterra, Leçons sur les équations intégrales et les équations intégro-différentielles, Parigi 1913; G. Vivanti, Elementi della teoria delle equazioni integrali lineari, Milano 1916; H. B. Heywood-M. Fréchet, L'équation de Fredholm et ses applications à la physique mathématique, 3ª ed., Parigi 1923.