EPITAFIO (ἐπιτάϕιος)
Con e senza λόγος o ἀγών, si adopera grecamente a denotare un discorso in onore di estinti; equivale dunque alla laudatio funebris dei Romani. Negli spiriti però s'identificano epitafio e laudatio solo in quanto ivi si esprime il culto dei morti; per il resto, l'epitafio è un portato dell'anima civica della πόλις, la laudatio dell'orgoglio della gens, del patriziato romano. L'uno è detto da un oratore a ciò pubblicamente deputato, in celebrazione d'un eroe o degli eroi della patria; l'altra dal figlio o, comunque, da un agnato del defunto, a esaltazione di lui e della gens; solo più tardi, col nascere del funus publicum nell'ultimo secolo a. C., anche da un magistrato. La costumanza del discorso funebre greco si fa risalire dalla tradizione storica al periodo delle guerre persiane, mentre la festa stessa, che a quello diede poi occasione, è certamente assai più antica; si riallaccia ai threnoi o lamentazioni per i morti, di cui il primo esempio per noi è quello in onore di Ettore nell'Iliade (XXIV, 720 segg.). Un magnifico saggio di simile eloquenza si legge in Tucidide (II, 35 segg.): è l'orazione di Pericle per gli Ateniesi morti sul campo di battaglia nel primo anno della guerra del Peloponneso. Con quale esattezza lo storico l'abbia riprodotta, non si può dire; è presumibile, comunque, che egli l'avesse udita, ed aveva poi modo di interrogare testimonî auricolari. Ma o che l'orazione dello storico sia molto vicina alla periclea, o che Tucidide vi abbia aggiunto motivi che pur sapeva di Pericle, e altri che da Pericle in questa occasione furono realmente pronunziati abbia svolti per conto suo, ciò che conta qui è lo spirito che vi parla. Pericle è l'oratore designato dalla pubblica legge, è il simbolo e l'incarnazione dell'idea di stato: l'eredità avita importa un obbligo morale, ed ecco che la mente va anzi tutto ai maggiori che prima difesero la libertà della loro terra e poi l'ingrandirono e crearono la maniera di governo e le arti, per cui Atene arrivò alla grandezza. Questo di Pericle è il modello classico d'un epitafio greco. L'unico rimastoci di autore indiscusso nella forma originaria, quello di Iperide, pronunziato nel 322 in onore dei caduti in guerra presso la città di Lamia in Tessaglia, risente, in uno scrittore semplice quale Iperide, della pompa che questa forma letteraria acquistò con la sofistica, a cominciare da Gorgia. Una simile impronta è già in Lisia, nell'orazione a lui attribuita per i morti della guerra corinzia, la quale sembra però essere una falsificazione, come autentico non era per gli antichi né è per i moderni l'epitafio, l'orazione sessantesima, di Demostene che si riferisce al momento dopo la vittoria di Filippo il Macedone sugli Ateniesi a Cheronea. D'altro genere e d'altri spiriti è la lode che Platone fa dire a Socrate o piuttosto ad Aspasia nel Menesseno (236 segg.) per i morti della guerra corinzia. Finita la πόλις, subentrano nell'uso interessi privati, e l'epitafio diventa una declamazione di parata; finché i Greci, e più tardi i cristiani, fan propria la maniera della laudatio funebris romana, e laudationes, vere o finte, entrano nel dominio della letteratura. Possediamo, dell'età imperiale, orazioni funebri di Dione Crisostomo, di Elio Aristide, di Gregorio Nazianzeno, di Ambrogio; di latine (v. anche elogio) altresì, ma solo frammentarie, quella di Adriano per la suocera Matidia, la laudatio Murdiae del sec. I d. C., e umanamente e storicamente importantissima la laudatio Turiae dell'età augustea, se le due ultime erano proprio laudationes, come è probabile.
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