EPICURO ('Επίκορουρος, Epicūrus)
Filosofo greco, nato, secondo la datazione di Apollodoro, nel 341 a. C. a Samo, dove il padre Neocle, ateniese, era cleruco, e morto tra il 271 e il 270 ad Atene. Già in Samo, ancora ragazzo, poté ascoltare le lezioni del platonico Panfilo: ma gliene derivò soltanto l'avversione, non più abbandonata, per la filosofia platonica. Più tardi, a Teo, fu scolaro del democriteo Nausifane: e questa volta l'influsso, egualmente stabile, fu invece positivo, e fece di E. un convinto atomista. A diciott'anni si recò ad Atene per compiervi il suo servizio da efebo: forse ascoltò, all'Accademia, Senocrate, ma l'idealizzata religiosità di lui non fece presa sul suo animo. A trentadue anni cominciò la sua carriera di maestro di filosofia: prima a Mitilene, poi a Lampsaco (dove già, quasi un secolo prima, si era rifugiato Anassagora dopo esser stato costretto ad allontanarsi da Atene), e infine, dal 307-6 in poi, ad Atene, donde non si mosse più. Qui fondò la sua scuola, che ebbe il nome dal giardino in cui amava trattenersi coi discepoli: onde gli stessi epicurei furon poi chiamati "quelli del giardino" (οἱ ἀπὸ τοῦ κήπου, o ἀπὸ τῶν κήπων). Al pari dell'Accademia e del Liceo, anche il Giardino ebbe il carattere di un'associazione religiosa (ϑίασος); ma come non dispose mai dei larghi mezzi posseduti dalle altre due, così conservò il carattere di possesso privato di E.: secondo il suo testamento (Diog. Laerzio, X, 16 segg.), il Giardino passava ai suoi eredi, per quanto questi dovessero lasciare l'uso alla scuola e provvedere alle necessità di quest'ultima. Caratteristico era poi nel Giardino il fatto che il culto religioso non era reso a divinità (p. es. alle Muse, come nell'Accademia o nel Liceo), ma allo stesso E., e secondo prescrizioni lasciate da lui medesimo. Ciò derivava, d'altronde, dalla fondamentale irreligiosità dell'epicureismo, e favoriva a sua volta quel dogmatismo reverente che (anche se talora esagerato dalla tradizione) distinse in ogni modo da tutte le altre filosofie quella del Giardino.
La dottrina epicurea (per le sue fonti cfr. più oltre) si divideva, come la stoica, in tre parti: l'una concernente le forme della nostra conoscenza del reale, l'altra la natura di questo stesso reale, e la terza il modo in cui rispetto ad esso convenisse praticamente comportarsi. Alla logica, fisica ed etica stoiche corrispondevano così la canonica, fisica ed etica epicuree. La canonica (dottrina del canone, cioè del criterio della verità) è in sostanza un empirismo, che si tien lontano dalle preoccupazioni oggettivistiche degli stoici nell'intenzione di schivare egualmente le confutazioni scettiche. Criterio fondamentale di verità è per esso l'evidenza (ἐνάργεια), posseduta in primo luogo dalle sensazioni (αἰσϑήσεις): e queste sono provocate da specie di emanazioni delle cose (εἴδωλα "immaginette", o anche ρεύματα "efflussi"). Se i ρεύματα riecheggiano le empedoclee ἀπορροαί, la concezione degli εἴδωλα è democritea: caratteristico, quindi, che in questa primitiva concezione gnoseologica E. non abbia avvertito neanche quegli elementi scettici che pure erano palesi nel pensiero dell'Abderita, e che poi vennero in luce nell'epicureismo più tardo. Tra le sensazioni, vanno distinte quelle che provengono da un diretto e costante afflusso di εἴδωλα, e che testimoniano quindi della reale esistenza delle cose (οἰσϑήσις propriamente dette) e quelle che invece derivano da combinazioni, saltuarie e arbitrarie, di εἴδωλα erranti: sensazioni fantastiche, ϕανταστικαὶ. Così la logica epicurea, nel suo materialismo antiidealistico, cerca di giustificare oggettivamente anche l'immaginazione. In questa conoscenza sensibile è d'altronde la fonte d'ogni sapere: ché quella stessa conoscenza concettuale e ideale, che tanto aveva impegnato il pensiero di Socrate, Platone e Aristotele, non è per E. che un prodotto secondario della sensazione, memoria del percepito e previsione del percepibile (μνήμη τοῦ πολλάκις ἔξωϑεν ϕανέτον e πρόληψις). S'intende quindi come con questa svalutazione del concetto, nella canonica epicurea non esista propriamente né una logica né una dialettica, allo stesso modo che non vi si trova la giustificazione della retorica, considerata come inutile: una gnoseologia strettamente empiristico-materialistica non poteva ripor fiducia nel potere del logos, comunque considerato. Caratteristico è che vi siano invece teorizzati, e nell'aspetto di "criterî", quei sentimenti (πάϑη) del piacere (ἡδονή) e del dolore (ἀλγηδών) che stanno a fondamento dell'azione: chiaro segno che i criterî epicurei della verità non hanno altro scopo che quello d'introdurre alla scelta pratica.
Verso la pratica è infatti orientato tutto il sistema epicureo, in cui la fisica mira all'etica più ancora di quanto la canonica miri alla fisica. Quest'ultima è nella sostanza una ripetizione dell'atomismo democriteo per quanto E abbia poi voluto, insistendo sulle modificazioni arrecatevi, rivendicare la sua originalità anche in questo campo, come poi si preoccuparono di fare anche i suoi successori, p. es. Diogene di Enoanda (v.). La modificazione sostanziale, che E. apporta all'atomismo di Democrito (v.), concerne il principio del moto atomico, dall'Abderita attribuito al vortice originario e da E. invece considerato come semplice caduta verso il basso per forza di gravità: al materialismo di E., insofferente del divino e di tutto ciò che, principio assoluto e autonomo, potesse somigliare al divino, il misterioso vortice democriteo doveva apparire sospetto. D'altronde, ammessa la semplice caduta verticale degli atomi, e concepite (come soltanto potevano esser concepite allora) le loro traiettorie verticali come parallele, quale urto, generatore di combinazioni atomiche e quindi di determinate realtà, avrebbe potuto nascerne? È qui che E. avanza il suo tipico concetto della "declinazione" (παρέγκλισις, nella traduzione di Lucrezio clinamen), quale motivo deviante, gli atomi, senza alcuna causa o ragione predeterminata, dalla loro caduta verticale. Un concetto, che assai male si accorda col rigido meccanismo causale del sistema: ma che era d'altronde strettamente logico come rimedio disperato della contraddizione in cui veniva conclusivamente a cadere il sistema stesso rispetto alla sua più genuina intenzione. E. aveva infatti costruito il suo mondo sullo schema del meccanismo puro, per esser sicuro che esso non fosse in balia d'alcuna superiore volontà e per liberar quindi gli uomini dal terrore del divino: allo stesso modo in cui aveva voluto liberarli dal timore della morte, esprimendo nella forma più rigorosa l'argomento, che già doveva esser stato presente a Socrate, secondo cui la morte non è nulla per noi, perché, finché ci siamo noi, la morte non c'è, e, quando c'è la morte, non ci siamo più noi, l'anima dissolvendosi negli atomi originarî. E se non aveva negato addirittura l'esistenza degli dei (forse per evitare probabili accuse d'empietà), li aveva comunque esclusi dal mondo e relegati negli oziosi paradisi degli intermundia, basandosi per ciò, del resto, sul più classico e universale concetto etico-teologico del mondo antico, che chi è perfetto non ha bisogno di nulla e quindi non fa nulla. E dell'entusiasmo che dové suscitare questa dottrina si ha testimonianza nella poesia di Lucrezio. Ma, liberato il mondo e l'uomo da Dio, e costituita la natura come sistema assolutamente autonomo e meccanico, l'uomo diveniva, a sua volta, schiavo del mondo, che nella sua ferrea causalità escludeva ogni libertà. Al fato stoico si sostituiva un altro fato, non meno insofferente di ogni libertà individuale: e se il primo era, almeno, razionale, nel secondo non appariva che la brutalità indifferente del meccanismo. Di qui la necessità del ripiego disperato dell'eccezione: la libertà concepita come può esser concepita in seno a un sistema causale, cioè come mera negazione della causa, realtà che accade senza alcuna ragione che accada, arbitrium indifferentiae, caso. "Democrito, che il mondo a caso pone" non è che il Democrito trasformato da E., quale Dante conosceva attraverso Lucrezio.
Questo ripiego è tuttavia quello che permette a E. di trovare, in questo mondo che alterna l'indifferenza della causa all'irrazionalità del caso, un posto per l'uomo, il quale d'altronde tanto più sarà felice quanto meglio riuscirà a mantenersene immune. Qui è l'ascetismo epicureo, che corregge l'edonismo cirenaico addirittura con motivi cinici. Resta, certo, a fondamento dell'azione il movente cirenaico della ἡδονή: ma non più come l'aristippea ἡδονὴ ἐν κινήσει ("piacere in movimento"), bensì come ἡδομὴ καταστηματική ("piacere stabile"), soddisfazione che deriva più dalla serenità astinente dell'animo che dall'improvviso e saltuario appagamento. Di qui una critica e una distinzione dei bisogni, che per quanto non miri al supremo ideale cinico dell'assoluta autosufficienza individuale e provveda soltanto alla migliore attuazione di quell'unica virtù che è il calcolo dei piaceri, trova comunque utile, per il raggiungimento dell'atarassia, la maggior possibile riduzione dei bisogni stessi. E concorde con le attenuazioni utilitaristiche dell'edonismo che attuarono i cirenaici più tardi, come p. es. Anniceride, era la grande valutazione dell'amicizia. Ma anch'essa doveva apparire come una sorta d'alleanza difensiva, d'associazione di mutuo soccorso contro la realtà: ché mai E. avrebbe potuto comandare di occuparsi seriamente degli altri, e le cure dello stato erano da lui respinte allo stesso modo che dai cinici e dai cirenaici. Κρύπτε τὸν σὸν βίον, λάϑε βιώσος, "vivi nascosto". All'ombra del suo hortus conclusus, l'epicureo assisteva, estraneo, alla decadenza del mondo antico.
Fonti ed Edizioni: Il corpus epicureo classico comprende le tre lettere (a Erodoto, a Meneceo, a Pitocle: quest'ultima probabilmente compilazione scolastica), le κύρια δόξα, (tarda scelta di massime, di contenuto però autentico) e la copiosa serie dei frammenti. Raccolta fondamentale quella di H. Usener (Epicurea, Lipsia 1887); più ampia,e criticamente ottima, quella, tradotta, di E. Bignone (Epicuro, Bari 1920), nella quale sono anche compresi alcuni dei resti dei papiri ercolanesi, lasciati fuori dall'Usener. Manca però ancora una completa edizione dei frammenti del περι ϕύσεως contenuti in quei papiri: v. per ora, l'edizione di A. Vogliano (Epicuri et Epicureorum fragmenta in Hercul. papyris servata, Berlino 1928), primo volume d'una raccolta completa. La più recente edizione delle lettere e delle massime è quella di P. von der Mühll, Epistulae tres et ratae sententiae, ecc., Lipsia 1922. Per le indicazioni di edizioni parziali di frammenti, come per quelle concernenti i testi degli altri epicurei (che, dato il prevalente carattere dogmatico della scuola, testimoniano quasi sempre anche del pensiero del maestro: particolarmente da ricordare, a questo proposito, sono Filodemo e Lucrezio), v. F. Ueberweg e K. Praechter, Grundr. d. Gesch. d. Philos., I, 12ª ediz., Berlino 1926, pp. 436-42. E v. anche, per il piu tardo epicureismo classico, diogene di Enoanda.
Bibl.: Per una caratteristica generale della figura di E., vedi E. Schwartz, Charakterköpfe a. d. antiken Literatur, II, 3ª ed., Lipsia 1919, pp. 24-43. Tra gli scritti italiani: G. Trezza, E. e l'epicureismo, 2ª ed., Milano 1885; A. Tilgher, in La visione greca della vita, 2ª ed., Roma 1926, pp. 79-88. Per l'ampia bibliografia particolare, sia intorno a E. sia intorno all'epicureismo, v. Ueberweg e Praechter, op. cit., pp. 133*-140*.