TORTORA, Enzo Claudio Marcello
TORTORA, Enzo Claudio Marcello. – Nacque a Genova il 30 novembre 1928, primogenito di Salvatore e di Silvia Mariano, originari della provincia di Napoli ma emigrati al Nord.
Già da giovanissimo collaborò con la compagnia goliardica Mario Baistrocchi, scrivendo i testi, ma per mantenersi all’università, prestò il suo volto anche a parecchi fotoromanzi e si esibì con l’orchestra di Totò Ruta in qualità di percussionista. Poi realizzò alcuni spettacoli con Paolo Villaggio, all’epoca ancora sconosciuto. Conseguita all’Università di Genova la laurea in giurisprudenza a 23 anni, cominciò a collaborare con la sede RAI della stessa città. Il 26 dicembre 1953 sposò a Rapallo la sua fidanzata, Pasqualina Reillo: il matrimonio, dal quale nacque la figlia Monica, fu successivamente annullato dalla Sacra Rota.
Nel 1954, dalla sede RAI di Milano, esordì come presentatore radiofonico. La trasmissione si chiamava Campanile d’oro, un torneo a squadre per regioni in cui venivano presentati vari numeri dilettantistici. Nel 1956 affiancò come valletto, in smoking verde pisello, Silvana Pampanini (a cui subentrò poi nella conduzione) nel programma Primo applauso, suo debutto in video e primo successo. Nel 1957 divise la conduzione di Telematch con Silvio Noto e Renato Tagliani, ma fu Campanile sera di Mike Bongiorno (dal 1959) a rappresentare la sua consacrazione; curatore dei collegamenti con i paesi dell’Italia settentrionale, Tortora ebbe occasione di mostrare la sua affabilità e capacità di dialogo con il mondo della provincia. Un errore fatale gli costò il primo allontanamento coatto dal video: colpevole di non aver impedito la bruciante caricatura di Amintore Fanfani a opera dell’«inimitabile imitatore» Alighiero Noschese (così Tortora presentava l’artista), dovette riparare alla Radiotelevisione svizzera di lingua italiana per un triennio, presentando Terzo grado. Il 19 dicembre 1964, a Fiesole, si unì in matrimonio a Miranda Fantacci, un’insegnante ventisettenne incontrata tre anni prima a Firenze. Da questa unione nacquero Silvia, nel 1962, e nel 1969 Gaia (in seguito giornalista e conduttrice del TG La7).
Al suo rientro, la RAI gli affidò due trasmissioni, che con Campanile sera hanno fatto la storia del buon gusto radiotelevisivo: Il gambero (1967-69), gioco a quiz radiofonico di cui Tortora fu magistrale conduttore, e dal 1965 al 1969 la Domenica sportiva, che il presentatore ebbe il merito di trasformare in un brillante programma di intrattenimento. Un altro ‘incidente’ ai margini di una puntata della trasmissione – definì la RAI «un jet colossale guidato da un gruppo di boy-scout che si divertono a giocare con i comandi» – gli costò un nuovo confino che si protrasse per otto anni, durante i quali ritornò al giornalismo (collaborando a La Nazione e Il Resto del Carlino) e si impegnò con le nascenti emittenti commerciali (Antenna 3 Lombardia e Telealtomilanese).
Il rientro, voluto dal direttore di RAI 2 Massimo Fichera, avvenne con Accendiamo la lampada (febbraio 1977, accanto a Raffaella Carrà), ma l’occasione del grande riscatto arrivò con Portobello (maggio 1977): il programma del venerdì sera, che nelle edizioni successive sfiorò la soglia dei 26 milioni di spettatori, divenne una punta di diamante nella programmazione RAI.
Il ‘mercatino del venerdì’ si apriva con il simbolico pappagallo Portobello al quale ogni settimana un concorrente doveva tentare in qualche modo di far pronunciare il nome della trasmissione. Portobello andò in onda dal 1977 al 1983, e venne poi interrotto per cinque anni a seguito del clamoroso arresto del conduttore. Il cuore del programma era rappresentato dagli inserzionisti che proponevano ai telespettatori le loro invenzioni più curiose: il gelato antisgocciolo, la scheda elettorale circolare, il progetto di spianare il colle del Turchino per far defluire la nebbia dalla Valpadana sono solo alcune delle tante idee di un’Italia quasi irreale che Portobello rinchiudeva in claustrofobiche cabine provviste di telefono per l’inevitabile contrattazione. La grande trovata fu quella di considerare la provincia come l’ideale ‘bacino d’utenza’ dell’audience televisiva e di smettere di rivolgersi al pubblico della metropoli. Dai giornali di provincia Portobello prese a prestito molti temi, ma la novità mediologica fu un’altra: il mezzo televisivo faceva sì che la messa in scena fosse a suo modo spietata, svuotando lo sprovveduto inserzionista di ogni parvenza umana. Al grido «Big Ben ha detto stop!» gli inserzionisti lasciavano la postazione, in cui avevano ricevuto le offerte dei telespettatori interessati ad acquisire i brevetti delle invenzioni proposte, e tornavano a casa con i loro bottini, inebriati per aver conseguito lo status di personaggi pubblici. Il programma riscosse un grandissimo successo nelle sette edizioni andate in onda fino al 1983 (in media 20 milioni di spettatori in tutto il ciclo, con punte di 25 nel 1978 e nel 1979).
Portobello fu la più popolare trasmissione inventata dalla RAI. Come ha scritto uno dei suoi curatori, Mario Carpitella, «il mondo provinciale venne di nuovo assunto a oggetto di spettacolo in una delle poche formule di (enorme) successo prodotte dalla frenetica ricerca di novità sollecitata dalla riforma: Portobello. La novità di questo programma consisteva a mio avviso nel presentare, per la prima volta dopo tanto tempo, spezzoni di realtà provinciale sotto l’aspetto oggettivato, reificato, di una serie di annunci economici che, partendo dalle cose, risalivano automaticamente a persone e a vicende solitamente ignorate dai mezzi di comunicazione di massa (eccetto forse La domenica del Corriere). Era una provincia inaspettata e a volte bizzarra, sovente strappalacrime e mammista, ma abbastanza genuina da dare ogni volta al pubblico il senso di una scoperta: ragione forse non ultima del suo successo. Portobello fu l’ultima occasione in cui la provincia venne a fare spettacolo, agghindata e in bell’ordine, davanti alla platea nazionale» (in Televisione: la provvisoria identità italiana, Torino 1985, p. 134). Senza Portobello sarebbe difficile capire la nascita e l’iniziale programmazione delle televisioni commerciali, di cui lo stesso Tortora fu uno dei protagonisti.
Nel 1982 condusse su Rete 4 Cipria, un rotocalco rosa, un assemblaggio di varie rubriche, condotto con ironica cerimoniosità e affettazione.
All’alba del 17 giugno 1983 (in quel periodo era impegnato con Pippo Baudo nella conduzione della rubrica elettorale Italia parla), venne arrestato su richiesta dei procuratori Francesco Cedrangolo, Diego Marmo e del giudice istruttore Giorgio Fontana.
Con queste parole del TG2, quel giorno, l’Italia seguì le immagini che mostravano il celebre presentatore in manette: «Enzo Tortora è stato arrestato in uno dei più lussuosi alberghi romani, il Plaza; ordine di cattura nel quale si parla di sospetta appartenenza all’associazione camorristica Nuova camorra organizzata (NCO), il clan cioè diretto e capeggiato da Raffaele Cutolo: un’associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga e dei reati contro il patrimonio e la persona». L’accusa si basava su un’agendina, trovata nell’abitazione di un camorrista, con sopra un nome scritto a penna e un numero telefonico: in seguito le indagini calligrafiche provarono che il nome non era Tortora bensì Tortona e che il recapito telefonico non era quello del presentatore. Le prime supposizioni riguardo al suo arresto, intanto, furono due: era stato coinvolto per uno ‘sgarro’ di 40 milioni con dei trafficanti di droga, oppure era stato coinvolto dall’organizzazione camorristica di Francis Turatello, detto Faccia d’angelo, con il quale sarebbe entrato in rapporti di amicizia.
Il primo a fare il nome di Tortora fu Giovanni Pandico, in carcere da 13 anni dove era diventato lo scrivano e il segretario di Cutolo. Fece il nome di Tortora solo al quarto interrogatorio quando, in un elenco di malavitosi, lo citò al sessantesimo posto con il titolo di camorrista ‘ad honorem’. Le perizie psichiatriche descrissero poi Pandico come «uno schizoide affetto da paranoia, uno psicopatico abnorme, una di quelle persone che a causa della loro anormalità soffrono e fanno soffrire la società». Al diciottesimo interrogatorio anche Pasquale Barra, nativo di Ottaviano, portavoce di Cutolo, definito il «boia delle carceri» o «’o animale», per la crudeltà con cui uccideva le sue vittime, cambiò idea e fece il nome del conduttore. Poi fu la volta di Gianni Melluso, detto «il bello», e di altri pregiudicati. Il numero dei pentiti che fece il nome di Tortora arrivò a 19, e se le accuse inizialmente furono generiche e piene di contraddizioni, con il tempo si fecero sempre più dettagliate: questo a causa del fatto che i pentiti potevano parlare tra di loro, scambiarsi opinioni durante i processi, per esempio, quando si ritrovavano tutti nella stessa cella.
Secondo queste dichiarazioni, quindi, Tortora controllava lo spaccio di stupefacenti a Milano. Per lui l’incubo più grande fu quello di non conoscere il motivo dell’arresto. Raffaele Della Valle, suo avvocato difensore, ricordava: «Solo dopo alcuni giorni, il 23 giugno, veniamo a conoscenza di alcune notizie: si parla di Tortora che avrebbe contatti con il mondo carcerario, allora si scopre che non Tortora, ma la direzione di “Portobello” aveva avuto contatti con il carcere, di natura prettamente commerciale» (cit. tratta da La Storia siamo noi. Il caso di Enzo Tortora. Un uomo innocente, programma andato in onda martedì 2 ottobre 2012 su Rai Storia). Alle testimonianze accusatorie, si aggiunse quella del pregiudicato Domenico Barbaro, molto risentito per dei centrini, ricamati in carcere, inviati a Tortora perché ne parlasse a Portobello e che si erano persi negli uffici della RAI.
Dopo quattordici mesi dall’arresto, nell’agosto del 1984 fu eletto come eurodeputato nelle file del Partito Radicale; per questo quando il 4 febbraio 1985 iniziò a Napoli il maxi processo contro la NCO, poté seguirlo da uomo libero. Giulio Andreotti allora aveva una rubrica, Bloc notes, sull’Europeo e commentando questo fatto scrisse: «Alcuni detenuti evadono con la lima e altri con la scheda elettorale». Il maxi processo durò sette mesi; le udienze furono sessantasette.
Il 17 settembre 1985 Tortora venne condannato a dieci anni di carcere su richiesta dei due pubblici ministeri del processo, Lucio Di Pietro e Felice di Persia. Rinunciando all’immunità parlamentare l’ex presentatore restò agli arresti domiciliari. Nelle motivazioni del suo arresto, si affermava: «Tortora ha dimostrato di essere un individuo estremamente pericoloso, riuscendo a nascondere per anni le sue losche attività e il suo vero volto, quello di un cinico mercante di morte, tanto più pernicioso perché coperto da una maschera di cortesia e savoir faire. L’appartenenza di Tortora alla Nuova Camorra Organizzata è stata provata attraverso le dichiarazioni di Giovanni Pandico, Pasquale Barra e altri [...]. Tutte queste accuse hanno trovato adeguati e convincenti motivi di riscontro; nei confronti di Tortora non è stato posto nessun complotto, nessuna macchinazione, nessuna vendetta personale, non si è voluto coprire nessun omonimo, non vi è stato nessun accordo dei dissociati diretto a ottenere benefici speculando sulla persona di Tortora, il quale non ha fornito nessuna soddisfacente spiegazione alla sua estraneità ai fatti. L’imputato non ha saputo spiegarci il perché di una congiura contro di lui».
La sentenza del processo di secondo grado arrivò solo nove mesi dopo. L’innocenza di Tortora fu dimostrata e riconosciuta il 15 settembre 1986, tre anni dopo il suo arresto. La Corte di Appello di Napoli lo assolse con formula piena, incolpando i suoi accusatori di false dichiarazioni nella speranza di una riduzione della loro pena, oppure al fine di trarre pubblicità dalla vicenda, come nel caso del pittore Giuseppe Margutti, il quale mirava ad acquisire notorietà per vendere i propri quadri (come risulta dalla sentenza d’appello).
Il 20 febbraio 1987, Tortora ritornò sugli schermi RAI ancora con Portobello; questo il suo discorso in apertura del programma: «Dunque dove eravamo rimasti [...] potrei dire moltissime cose e ne dirò poche [...] una me la consentirete: molta gente ha vissuto con me, ha sofferto con me questi terribili anni, molta gente ha offerto quello che poteva, per esempio ha pregato per me e io questo non lo dimenticherò mai, e questo grazie a questa cara buona gente; dovete consentirmi di dirlo. L’ho detto e un’altra cosa aggiungo: io sono qui anche per parlare per conto di quelli che parlare non possono, e sono molti e sono troppi; sarò qui, resterò qui anche per loro [...]. E ora cominciamo come facevamo esattamente una volta».
La sentenza di terzo grado arrivò il 17 giugno 1987, esattamente quattro anni dopo l’arresto.
Morì di cancro il 18 maggio 1988.
Negli ultimi anni della sua vita, al fianco di Tortora ci fu la giornalista Francesca Scopelliti, sua compagna durante la vicenda processuale e successivamente impegnata nella valorizzazione della sua memoria. A quasi trent’anni dalla morte di Tortora, Scopelliti ha consegnato alla memoria degli italiani una selezione delle lettere che il celebre giornalista e presentatore televisivo le scrisse dall’inferno del carcere.
Fonti e Bibl.: E. Tortora, Per una giustizia giusta, a cura di L. Palazzolo, Milano 2006; V. Pezzuto, Applausi e sputi. Le due vite di E. T., Milano 2008; D. Biacchessi, Dalla luce del successo al buio del labirinto, Roma 2013; A. Grasso, Storie e culture della televisione italiana, Milano 2013; P. Mieli, E. T. Almeno un dubbio per un uomo per bene. Il caso giudiziario e il caso giornalistico trent’anni dopo, Roma 2013; E. Tortora, Lettere a Francesca, Pisa 2016; L. Steffenoni, Il caso Tortora, Milano 2018.