entusiasmo
Dal gr. ἐνϑουσιασμός, der. di ἐνϑουσιάζω «essere ispirato», da ἔνϑεος, comp. di ἐν «in» e ϑεός «dio». Termine che presso i Greci indicava la condizione di chi era «invaso da una forza o furore divino» (ἔνϑεος) e si veniva quindi a trovare a diretto contatto con le forze sacre: è la condizione della profetessa di Delfi, dell’indovino, del sacerdote, dell’iniziato che passa a una nuova vita, ma anche del poeta, che si pensava ispirato da un dio. Il termine si trova la prima volta in Platone (Timeo, 71 e; Fedro, 249 d-e) e designa lo stato di chi è dominato da una forza divina: è uno stato di esaltazione (o follia), che toglie a chi la prova il controllo dei propri atti e gli dà la coscienza di essere intimamente unito con il dio, che è colui che veramente opera. Dal momento che «posseduti dal dio» (cioè in uno stato di ἐνϑουσιασμός, in contrapposizione con la «possessione demoniaca», δαιμονισμός) erano considerati soprattutto i seguaci dei misteri, il termine può essere giunto a Platone attraverso gli orfici. Platone distingue (Fedro, 265 b) quattro tipi di «follia divina» riconducibili alle quattro divinità che la ispirano: attribuisce l’ispirazione divinatoria ad Apollo, quella iniziatica a Dioniso, quella poetica alle Muse e la follia amorosa ad Afrodite e a Eros. Per Platone, tuttavia, ἔνϑεοι sono, almeno in un primo tempo, tipicamente i poeti (Ione, 533 e), in quanto, come Omero, essi compongono bei poemi non per tecnica ma grazie all’ispirazione della Musa; per questo sono in grado di attrarre gli altri con un potere che è simile a quello del magnete sui pezzi di ferro. La stessa cosa vale per i rapsodi, che, nell’ideale catena dell’e. poetico, sono gli anelli di congiunzione tra il poeta e gli ascoltatori (Ione, 538). Il termine assume anche, in Platone, un significato mistico-teologico, per indicare la condizione di coloro (i filosofi) che sono a contatto diretto con la verità e con il divino. In un senso affine, il termine fu usato dai neoplatonici, i quali però sottolinearono maggiormente la necessità di una separazione tra l’anima e il corpo, avvicinando l’e. a quello stato che viene più propriamente designato come estasi (Plotino, Enneadi, V, 6, 4). Nell’epoca della Riforma furono detti entusiasti, con una punta di spregio, gli adepti di alcune sette religiose (anabattisti, quacqueri, mormoni, e altri) che pretendevano di essere ispirati direttamente dallo Spirito Santo. Nel Rinascimento Bruno designa l’e. con vari nomi («eroico furore», «raptus mentis», «contractio mentis») e lo pone alla base della sua etica; questa inizia con la liberazione dai vizi e dai pregiudizi e, in una prospettiva del tutto mondana e antiascetica, culmina nell’eroico furore come consapevolezza della radicale unità del tutto: allora, l’uomo si converte tutto in Dio («doviene un Dio dal contatto intellettuale di quel nume oggetto») con un impeto di passione, e conquista la sua libertà. Bruno distingue tra un e. naturale, cioè un «fervore» intellettuale che, acuendo i sensi e accendendo il lume razionale, dà al pensiero una potenza superumana, e un e. religioso proprio di coloro che, posseduti dalla divinità, dicono e operano cose straordinarie (De gl’heroici furori, dialogo 3°). Locke, fissando i limiti conoscitivi propri dell’uomo («non accogliere nessuna proposizione con sicurezza maggiore di quanto non lo autorizzino le prove su cui è costruita»), critica tale e. perché, spingendosi oltre questa misura, fornisce un fondamento indebito all’assenso; l’e. «procede dalla presunzione di un cervello acceso o pieno di sé, tuttavia, una volta che prenda piede, opera più potentemente sulle persuasioni e azioni degli uomini che non la ragione o la fede». Locke presenta quindi essenzialmente l’e. in termini di fanatismo: la luce da cui sono abbagliati coloro che sono colti da e. è «un ignis fatuus che li farà girare di continuo dentro questo circolo» (Saggio sull’intelligenza umana, IV, 19). Successivamente, l’e. ricevette piena rivalutazione con Shaftesbury (Lettera sull’entusiasmo, 1708), che, distinguendolo dal fanatismo e dalla superstizione, sue forme degenerate, lo pose alla base delle più alte manifestazioni della cultura umana, intendendolo come dote della creatività, tipica di artisti, filosofi e oratori. Su questa linea di distinzione fra un ‘e. ragionevole’ e un ‘e. fanatico’ si mantennero sostanzialmente gli illuministi: Voltaire, nella voce dedicata a questo tema nel Dizionario filosofico (1765), afferma che l’e. «è soprattutto il retaggio della devozione male intesa» e attribuisce solo ai poeti un e. «ragionevole». Diderot invece nel Paradosso sull’attore (1773) lo ritiene del tutto inutile, sia sul piano estetico sia su quello etico. Nella filosofia del Novecento, Jaspers ha ripreso il concetto di e., valutandolo positivamente: nell’atteggiamento entusiastico l’uomo viene afferrato, e toccato nella sua dimensione più intima, dal sentimento della totalità, sostanzialità ed essenzialità del mondo (Psicologia delle visioni del mondo, I C, 1919).