VILLENA, Enrique de
Scrittore spagnolo, nato nel 1384, morto nel 1434; fu della stirpe reale d'Aragona per parte di padre e di quella di Castiglia per parte di madre. Avrebbe potuto salire alle più alte cariche e avere i più alti onori, se insieme con la vasta e profonda cultura avesse avuto più scienza del mondo e delle cose umane: "Aieno y remoto a los negocios del mundo... algunos burlando decían - scrisse di lui il suo contemporaneo Fernán Pérez de Guzmán - que sabía mucho en el cielo e poco en la tierra". Vero è che anche la sorte gli fu sempre avversa. Non ebbe mai il possesso effettivo, o per breve tempo, dei titoli nobiliari che o gli venivano di diritto o gli erano stati conferiti: non di quello di marchese con cui si suole chiamare indebitamente, non di contestabile di Castiglia come il padre suo, non di conte pur concessogli da Enrico III, né dell'altro di Gran Maestro dell'Ordine di Calatrava presto revocatogli nel 1414 e che aveva accettato da questo stesso re in compenso della sua vergognosa acquiescenza a che Maria de Albornoz sua moglie ne divenisse l'amante. Privato d'ogni prestigio, umiliato, si ritirò in quest'anno 1414 a vivere nelle sue terre di Iniesta e a Torralba, in quelle della moglie, con la quale per ordine del papa dovette riunirsi, ed ivi condusse una vita più tranquilla e attese a scrivere non poche delle sue opere.
Assetato del sapere, preso come dalla febbre di tutto conoscere, si applicò anche agli studî dell'astrologia giudiziaria, dell'alchimia, delle scienze occulte, tanto che si creò gran fama di mago e intorno al suo nome si formò una persistente leggenda di stregone, che aveva, nuovo Fausto, stretto un patto infernale col demonio del quale pur era riuscito a burlarsi; leggenda che si rispecchia nella letteratura dell'età classica e della moderna, come nel Libro di chistes (sec. XVI) dove Luis de Pinedo narra che avrebbe fatto servire a tavola il famoso Suero de Quiñones dal diavolo in veste di maggiordomo. Torna la sua misteriosa figura in La cueva de Salamanca di J. Ruiz de Alarcón, in Lo que quería ver el Marqués de V. del Rojas Zorrilla, in La visita de los chistes del Quevedo, in La redoma encantada di J.E. Hartzenbusch. Il mistero di cui fu come avvolta la strana sua personalità di cavaliere sventuralo e di sapiente, fece del V. un personaggio rappresentato ed esaltato da illustri scrittori del suo tempo: così il marchese di Santillana scrisse in suo onore la Defunción de Don Enrique de V. piangendone la morte, e Juan de Mena, nel poema allegorico El Laberinto, lo esalta qualificandolo "honra de España y del siglo presente".
Maggiore importanza che non il Libro del aojamiento ó fascinología del 1425, circa il malocchio, che non, se è suo, un trattato di astrologia o uno sulla lebbra, hanno il Libro de los trabajos de Hércules e il curioso libro di gastronomia, il più antico che si conosca nella letteratura spagnola, interessante per la storia del costume, intitolato Arte cisoria ó tratado del arte del cortar del cuchillo, vale a dire, del perfetto scalco alla mensa di re e di gran signori, in venti capitoli, in cui si sente il fine buongustaio, quale realmente fu E. de V., secondo testimonianze sincrone, il gaudente della buona mensa. Il Libro de los trabajos de Hércules fu scritto in catalano nel 1417 e presto tradotto in castigliano dal V. stesso. Fu pubblicato la prima volta nel 1482. Si direbbe un tentativo di racconto mitologico con scopo didattico, in quanto ad ogni fatica di Ercole è dato un significato allegorico ed esposto l'insegnamento morale che se ne ricava. Lo sfoggio di erudizione, il periodare latineggiante ne rendono pesante anche la forma. E non meno pesanti sono le traduzioni che fece, le prime in lingua castigliana, dell'Eneide di Virgilio e della Divina Commedia, amnbedue del 1427, dedicate al marchese di Santillana. Scrisse anche un trattato, giuntoci frammentario, di precettistica poetica d'origine provenzale intitolato Arte de trobar, suggerito forse dal ricordo personale di avere presieduto i Giuochi Florali celebrati nel concistoro di Barcellona del 1414, a imitazione di quelli ben noti di Tolosa.
Neanche dopo la morte il destino gli fu meno avverso. La nomea che si era acquistata di mago indusse re Giovanni II a far bruciare le sue opere incaricandone il frate domenicano e suo confessore Lope de Barrientos che fu poi vescovo di Cuenca, di Ávila e di Segovia. Questi ne fece bruciare alcune, ma più altre ne riserbò per sé, valendosene per il suo Tractado de la divinanza et sus especies queson las especies de la arte mágica, e per l'altro Tractado del dormir y despertar y del soñar y de las adivinanzas y agüeros y profecías.
Ediz. e bibl.: Arte de trobar, ediz. di M. Menéndez y Pelayo, nella sua Antologia, V; ed. Sanchéz Cantón, Madrid 1923; Arte cisoria, ed. F. B. Navarro, Madrid-Barcellona 1879; Libro del aojamiento, in Rev. Contempor., IV (1876); El libro de la Guerra, ed. L. de Torre, in Revue Hispanique, XXXVIII (1916). Da consultare: E. Cotarelo y Mori, Don E. de V., Madrid 1896; M. Schiff, La première traduction espagnole de la Divine Comédie, in Homenaje a Menéndez y Pelayo, I, p. 269 segg.; D. Méndez Rayón, La Eneida de Virgilio, traducida por D. E. de V., in Rev. Ibérica, I, p. 443.