ENRICO
Di questo vescovo di Bologna (1129-1145) non sono noti né l'origine - anche se il Masini lo indica come cittadino bolognese - né la famiglia, né l'eventuale carica ecclesiastica da lui ricoperta in precedenza. Non compare, ad esempio, fra i canonici del capitolo della cattedrale. Secondo il Sigonio, il Ghiraradacci, il Faleoni e il Masini egli sarebbe stato eletto e avrebbe assunto il governo della Chiesa bolognese per rinuncia del suo predecessore Vittore, che lo avrebbe cooptato e designato a succedergli, e dopo la sua morte (27 sett. 1129) E. sarebbe stato confermato da Onorio II all'inizio del 1130. Ma sono supposizioni non comprovate. Questi autori si sono forse avvalsi della notizia riportata dalla Cronaca Villola (p. 14), che tuttavia non dà adito a troppe congetture dicendo semplicemente che, alla morte di Vittore, E. fu eletto nell'episcopato.
Fu consacrato il 13 apr. II 30 da Gualtiero arcivescovo di Ravenna, a San Giovanni in Persiceto, in territorio diocesano bolognese, poiché i chierici e i laici di Bologna che dovevano accompagnarlo alla solenne cerimonia si erano rifiutati di recarsi a Ravenna, temendo per la loro incolumità, a causa della guerra in atto fra le due città.
Infatti nel terzo decennio del XII secolo lo scontro armato fra i due Comuni, per la supremazia nell'area romagnola, era stato duro e prolungato, coinvolgendo i Faentini alleati dei Bolognesi e i Forlivesi e gli Imolesi alleati dei Ravennati. Improvvisamente, nel 1130, il gioco delle alleanze cambiò per breve tempo e uni Ravenna a Bologna nel tentativo di conquista di Imola e per proteggere il vescovo imolese. Questi brevi cenni sul contesto politico, in cui E. fin dall'inizio si trovò immerso, sono indicativi, non già di una cornice condizionante - né tantomeno estranea - ma di un ruolo attivo specifico.del vescovo nella politica del Comune bolognese, particolarmente in quella estera. È in questa veste che va rivisto il giudizio riduttivo del suo episcopato, ricordato principalmente, se non esclusivamente, per il ritrovamento del corpo di s. Petronio.
Durante l'esame canonico che precedette la cerimonia religiosa della sua consacrazione, fatto in forma solenne alla presenza dell'arcivescovo Gualtiero, dei suoi vescovi suffraganei e di cardinali, arcidiaconi, canonici, presbiteri, diaconi e suddiaconi, del priore di S. Maria in Porto, dell'abate di Nonantola, del priore di S. Vittore di Bologna, di Gerardo Caccianemici, bolognese, cardinale romano e futuro papa Lucio II, di numerosi ecclesiastici e di molti potenti laici bolognesi, fu sollevata una questione "ex parte boloniensium". Si chiedeva che E. fosse consacrato "condicionaliter, salva iusticia boloniensis Aecclesiae"; mentre l'arcivescovo di Ravenna pretendeva da lui e dalla Chiesa bolognese una "onmimoda obedientia" (Sarti- Fattorini, II, p. 248). Si discusse a lungo e animatamente sui diritti di giurisdizione dell'episcopato bolognese. Prevalse la rivendicazione dei diritti della Chiesa metropolitana di Ravenna, anche per l'intervento decisivo del cardinal Gerardo, e caddero definitivamente le aspirazioni dei Bolognesi a un'autonomia ecclesiastica.
Benché non citati espressamente nella contesa, esistevano importanti privilegi papali che, sottraendo il vescovo bolognese alla giurisdizione metropolitica ravennate, gli conferivano anche la prerogativa di farsi consacrare dal papa a Roma. Cosi era avvenuto per il predecessore di E., Vittore. Ma tali privilegi risultarono superati da altri di segno opposto. Nel sinodo di Guastalla (1106) Pasquale II aveva inteso ridurre il potere ecclesiastico della metropoli ravennate, già sede di un arcivescovo scismatico e antipapa, Guiberto/Clemente III, sottraendo alla sua giurisdizione le diocesi di Bologna, Modena, Reggio, Parma e Piacenza. Esplicitamente poi, nel 1114 - il giorno è incerto fra 2, 6 marzo, 30 aprile - lo stesso papa concedeva al vescovo Vittore che secondo la vecchia consuetudine della Chiesa bolognese, i vescovi eletti di Bologna sarebbero sempre stati consacrati dal pontefice. Tale consuetudine non era però tanto antica, anche se i vescovi Bernardo e Gerardo, durante lo scisma guibertino, erano stati di nomina e di consacrazione papale. Ma il 7 ag. 1118 papa Gelasio II restituiva all'arcivescovo Gualtiero, che aveva ristabilito l'obbedienza romana in Ravenna, la supremazia metropolitica sulle diocesi della sua provincia ecclesiastica, e quindi anche su Bologna, compresi i diritti di consacrazione e di obbedienza perpetua del vescovo. La disputa - come si deve correttamente ritenere - sulle consuetudini e sui rispettivi privilegi vide soccombere l'opinione dei Bolognesi: la consuetudine più antica era quella ravennate, e il privilegio papale più recente era favorevole all'arcivescovo. La riserva dei Bolognesi venne perciò ritirata.
Del resto la questione non venne più ficonsiderata su un piano teorico; cosi Lucio II, il 13 maggio 1144, nel confermare ad E. gli antichi privilegi papali a favore dei vescovi bolognesi, ignora la concessione fatta da Pasquale II nel 1114. E su un piano disciplinare E., in nessuna occasione, sembra essersi messo in contrasto con il metropolita, ma piuttosto sembra avere adempiuto i compiti imposti dall'obbedienza dovutagli. Lo ritroviamo cosi, ad esempio, al sinodo provinciale di Ravenna nel 1133, e in seguito fra il 1133 e il 1139, in più occasioni, sottoscrisse diplomi dell'arcivescovo Gualtiero seguendolo nei suoi spostamenti. C'è perfino un caso in cui l'arcivescovo scelse E. - beninteso in accordo con la controparte e insieme con Pietro Traversari di Ravenna e Azzone di Pizzocalvo, ma la personalità più importante era il vescovo bolognese, tanto è vero che il lodo definitivo viene indicato dal notaio come Arbitrium episcopi - come arbitro in una lite fra l'arcivescovo stesso e Raniero abate del monastero camaldolese di S. Michele di Castel dei Britti, circa un fondo detto Marmorta posto nel distretto di Ravenna, la cui proprietà era rivendicata da entrambi. Il compromesso fu fatto nella pieve di S. Giorgio di Argenta il 3 marzo 1136 e la sentenza definitiva fu emessa a Bologna l'8 luglio successivo. Benché si trattasse di un compromesso, sembra tuttavia che l'arcivescovo sia stato favorito: non gli venne riconosciuta la proprietà del fondo, ma ne mantenne il possesso mediante contratto di enfiteusi, valido per sessant'anni e poi rinnovabile, al canone esiguo di 12 denari di lucchesi all'anno.
Alcune sue sottoscrizioni di diplomi arcivescovili - conferma dei privilegi ai canonici di S. Vittore e di S. Giovanni in Monte (30 apr. 1133); conferma dei possessi e delle immunità ai canonici di S. Maria di Reno (febbraio 1136); reintegrazione dei canonici della cattedrale di Faenza nei loro diritti e possessi (5 apr. 1138-16 febbr. 1139) - ci fanno supporre che E. vi abbia avuto parte attiva, caldeggiando l'intervento favorevole del metropolita, in particolare nei confronti delle tre comunità canonicali bolognesi. Infatti, subito dopo quelli sottoscritti, rilasciò due diplomi perfettamente corrispondenti: uno ai canonici di S. Vittore e S. Giovanni in Monte il 9 maggio 1133; l'altro ai canonici di S. Maria di Reno nel febbraio 1136 in cui concesse al priore Guido "libertates et immunitates … et iura", che verranno poi confermati dai pontefici Lucio III (3 maggio 1182), Urbano III (27 genn. 1186), Clemente III (17 marzo 1188). Il fatto però che la sua firma non è mai posta all'inizio dell'elenco dei sottoscrittori (eccetto il caso del diploma ai canonici di S. Maria di Reno) ma quasi sempre verso la fine ci induce a credere che E. non avesse personalità di spicco, si da emergere dal gruppo dei confratelli vescovi; al contrario ci conferma che la diocesi bolognese, nella provincia ecclesiastica ravennate, non aveva ancora acquisito particolare importanza.
La maggior parte dei documenti di E. che si sono conservati riguardano i rapporti con le istituzioni monastiche e canonicali della città e della diocesi, alle quali vengono riconosciute le loro proprietà e i diritti immunitari, e i privilegi di una varia autonomia giurisdizionale ecclesiastica; autonomia, che, ad ogni avvicendamento ai vertici della diocesi, dell'Impero e del Papato, ha bisogno di nuovi riconoscimenti formali. Tutti questi aspetti sono per di più potenziati e dilatati, non semplicemente subiti dall'ordffiario diocesano, "preter episcopale jus", "salva nimirum diocesani episcopi debita reverentia" (Savioli, I, 2, pp. 192, 194). Basterà una succinta esemplificazione. Il 4 ott. 1130 E. concesse al monastero di S. Giorgio Maggiore di Venezia la chiesa di S. Pietro in Funo, in perpetuo con decime e primizie. Lo stesso anno consacrò la chiesa di S. Cristina del monastero camaldolese femminile di Settefonti e fece dono ai monaci camaldolesi della chiesa dei Ss. Cosma e Damiano di Bologna. Il 13 genn. 1131 confermò all'abbazia vallombrosana di S. Salvatore di Fontana Taona la chiesa di S. Michele posta nella Selva di Bombiana, il 16 luglio 1137 confermò allo stesso monastero le decime "de vico Casi", già concesse il secolo precedente dal vescovo Lamberto. Il 5 luglio 1139 concesse al priore di S. Trinità di Prabarato, chiesa posta nella pieve di Samoggia, annessa poi a S. Maria di Roffeno, i diritti di sepoltura e le decime sui frutti delle terre coltivate a spese sue, il 15 nov. 1139 al monastero di San Benedetto di Polirone una chiesa in Dalmanzatico, una in Lambriano ed una in Bologna, intitolata a S. Maria e posta in luogo detto "Claveca" (Cencetti, p. 11, n. 7). Il 3 ott. 1140 - a conclusione di una lite con il già menzionato Raniero abate di S. Michele di Castel dei Britti, per la quale avevano fatto ricorso a papa Innocenzo Il che a sua volta aveva incaricato il cardinale Longino di definirla - fu costretto a rinunciare, in favore del monastero camaldolese, alla chiesa di S. Giovanni in Isola, al potere di giurisdizione sul prete Ugo che vi risiedeva e che era converso del monastero, e doveva dare disposizioni di demolire l'altra chiesa esistente nella stessa "curia" e dare assicurazioni di non edificare più alcuna altra chiesa in tutta la "curia" di Castel dei Britti, e doveva infine rinunciare al "placitum et bannum et omne ius et actionem quam in predieta curia vel in suprascripto monasterio causabat" (Annales Camaldulenses, III, App., p. 389).
Nulla invece si sa della sua attività pastorale o di una sua partecipazione attiva ai grandi problemi religiosi e politici del tempo (furono gli anni del grande scisma papale tra Innocenzo Il e Anacleto II e della compilazione a Bologna del Decretum di Graziano), eccezion fatta per la sottomissione al Comune di Bologna dell'abbazia di Nonantola e per il ritrovamento della tomba e dei corpo di s. Petronio.
I possedimenti nonantolani erano sparsi in territorio bolognese, ma in forma ben più massiccia incombevano sul versante modenese, e la città di Modena con l'appoggio del proprio vescovo tentò, nei primi decenni del XII sec., di assoggettare il monastero che le impediva o quanto meno ne condizionava la vitale espansione nel contado. L'assenza di una protezione imperiale e l'incertezza di quella papale indussero i Nonantolani (populus e milites), per evitare l'isolamento politico militare, ad accettare la protezione offerta dal Comune di Bologna nel dicembre 1131 a condizioni molto gravose: carichi fiscali, tributo annuo, obbligo di fornire armati, accettazione dei consoli di Bologna - che operavano con due soli consoli di Nonantola - quali giudici nelle cause fra bolognesi e nonantolani, impegno a non far pace separata con Modena, impegno dell'abate di accettare in perpetuo dal vescovo di Bologna l'olio santo e il crisma e conseguente diritto perpetuo del vescovo bolognese di consacrare chiese e chierici dipendenti dal monastero, il tutto in cambio di aiuto militare e protezione, che Bologna si obbligava a fornire con la clausola di non far pace separata con Modena. La guerra fra le due vicine città fu favorevole inizialmente a Bologna e a Nonantola: nel 1135 i Modenesi rinunciarono solennemente a combattere contro Nonantola e riconobbero i nuovi diritti del vescovo bolognese sulle chiese dell'abbazia, forse indotti dalla scomunica che Innocenzo II aveva comminato ai consoli modenesi. Anche nel 1142 e nel 1144 Bologna riportò vittorie considerevoli sull'esercito modenese, ma dovendo poi utilizzare gran parte delle truppe in Romagna lasciò sguarnita Nonantola. E questo segnò la fase di pericolo maggiore, che permise ai Modenesi di distruggere il castello di Nonantola (1150). In tutta la vicenda, quel che preme notare è la concordia politica fra il Comune e il vescovo di Bologna. Se i consoli agivano a nome della città e del vescovo tenendo conto del fatto che il vescovo era ancora l'unica autorità legittima in città, questi si faceva garante della loro azione politica soprattutto nei confronti delle Comunità del contado, alle quali veniva chiesto di assoggettarsi a Bologna e ai cives bolognesi. Non per nulla nel giuramento dei Nonantolani il "populus Bononie" è unito all'"ecclesia Bononiensis" e il giuramento dei capitani è riferito ad entrambi, ed è significativo che Innocenzo II, sempre nell'ambito della guerra fra Bologna e Modena, si rivolga unitamente ad E., vescovo, e ai consoli bolognesi perché facciano restituire all'abate del monastero di S. Benedetto in Polirone il bottino di guerra che i cives bolognesi hanno fatto a danno della chiesa di S. Cesario sul Panaro. Va pertanto attribuito ad E. un ruolo di prestigio politico e di coesione all'interno delle componenti divergenti dell'istituzione comunale, che viveva ancora fasi d'incertezza e di collaudo politico.
L'altro fatto, per il quale E. è rimasto famoso, è il ritrovamento delle reliquie di s. Petronio. Il 1ºag. 1141 - ilSigonio (p. 78) e il Ghirardacci (I, p. 71) indicano il 1131 - un violento incendio aveva distrutto completamente l'antica cattedrale di S. Pietro, che per oltre trent'anni restò in fase di ricostruzione prima di essere riconsacrata nel 1184. È probabile che in seguito a questo incendio E. abbia trasferito la sede episcopale in S. Stefano, come già era avvenuto nel secolo precedente, al tempo dello scisma episcopale. Due mesi più tardi, il 4 ott. 1141, come riferisce il Sermo de inventione sanctarum reliquiarum scritto da un monaco benedettino di S. Stefano poco prima del 1180 (Lanzoni, S. Petronio, p. 243), il vescovo E. ritrovò, insieme con i monaci, tre casse di reliquie di santi martiri e confessori e la tomba e il corpo di s. Petronio vescovo i Bologna. Senza entrare nella complessa questione delle Vite, per quel che riguarda la loro connessione con la storia cittadina del tempo basta qui illustrare l'importanza attribuita al fatto dai monaci di S. Stefano, e, maggiormente, dal vescovo Enrico.
Nella caccia alle reliquie e negli sventramenti del 1141la ricognizione fatta da E. avvenne nello stupore euforico dei benedettini. Il vescovo intese subito dare al ritrovamento il massimo rilievo pubblico, e non soltanto in ambito ecclesiastico. Tutta la città e la diocesi, informata per "sacras legationes", era invitata a partecipare alla gioia collettiva di una festa solenne, istituita "in perpetuum" - e l'autore del Sermo conferma, a distanza di quasi quarant'anni, la persistenza di un culto che comvolgeva l'intera comunità cittadina - con processione e con la fruizione per i partecipanti di due anni d'indulgenza.
E proprio per il particolare ruolo politico che E. giuocava all'interno del Comune ottenne un solenne giuramento, dai consoli e dai cives, secondo cui in occasione di tale festa, da otto giorni prima a otto giorni dopo, tutti i partecipanti avrebbero goduto di una particolare protezione, mentre i mercanti sarebbero stati sollevati da dazi e gabelle. Il Comune favoriva, come in nessun'altra occasione, l'istituzione e il radicamento di un culto propriamente bolognese "a cui il sentimento civico poteva fiduciosamente richiamarsi" (Pini, p. 149), premessa essenziale a che la figura di s. Petronio vescovo si trasformasse in quella del patrono della città.
Nel 1144, in visita "ad limina apostolorum", E. si fece confermare (13maggio) da Lucio II gli antichi privilegi concessi da Agapito, Pelagio e Gregorio VII ai vescovi bolognesi sui loro possessi e immunità.
Mori nel 145, secondo il Tomba (p. 66) il 19 luglio; il Lanzoni (p. 79) avanza delle riserve, essendo - a suo dire - ancora vivo il 7 ottobre, ma non cita il documento a conferma della sua osservazione.
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