ENRICO VI di Svevia, imperatore, re dei Romani e di Sicilia
Nacque verso la fine del 1165 (tra l'ottobre e il dicembre) a Nimega in Gheldria (od. Paesi Bassi), secondogenito dell'imperatore Federico I Barbarossa e di Beatrice di Borgogna. Il fratello maggiore Federico, duca di Svevia, morto nel 1169, fu escluso dalla successione a causa della debole costituzione fisica. Nel giugno del 1169 a Bamberga il Barbarossa fece eleggere re il figlio minore, che nell'agosto successivo fu incoronato dall'arcivescovo di Colonia. E. compare nei diplomi dei padre come testimone a partire dal 1173, ma per il resto non si sa quasi nulla della sua fanciullezza.
Konrad von Querfurt e Heinrich von Kalden sono considerati i suoi educatori e forse era suo maestro anche Goffredo da Viterbo (ne dubita però il Baaken, Zur Beurteilung, p. 379). E. sapeva il latino ed era istruito in diritto romano e canonico; nutriva interesse per l'arte e le scienze e scrisse in gioventù alcuni Minnelieder (se ne conservano tre). I Minnesinger Friedrich von Hausen, Bligger von Steinach e Ulrich von Gutenburg facevano parte del suo entourage. Goffredo da Viterbo e Pietro da Eboli gli dedicarono le loro opere, con Gioacchino da Fiore E. intratteneva rapporti personali. Secondo l'inglese Gervase of Tilbury l'eloquenza e la munificienza di E. compensavano la sua scarsa pratica delle armi (p. 380). Burchard von Ursperg lo descrive come "saggio ed eloquente, piacevole di viso ma piuttosto magro, con un corpo gracile e debole, ma con lo spirito acuto" (Chronicon, p. 75).
Dal 1174 al 1178 il giovane E. partecipò alla quinta spedizione del Padre in Italia, nel corso della quale l'undicenne re assistette alla gravissima disfatta dell'esercito imperiale presso Legnano (1176), che impose al Barbarossa un ripensamento radicale della sua politica. Ben presto si arrivò ad un nuovo modus vivendi con le città lombarde, con il papa e con i suoi alleati siciliani (1176-77), ma molti problemi riguardo ai loro rapporti reciproci rimanevano ancora aperti. Negli accordi fu incluso esplicitamente anche E., il quale si dovette impegnare a rispettarli.
Dopo il ritorno in Germania troviamo E. VI solamente al seguito del padre e insieme con lui, nel 1183 a Costanza, rinnovò la pace con la Lega lombarda. Nel 1184, durante la solenne Dieta celebrata a Magonza il giorno di Pentecoste, E. VI fu armato cavaliere, insieme con il fratello minore. Federico I, ormai all'apice del suo regno e circondato dal rispetto di tutta la Cristianità, ricevette molte ambascerie a Magonza ed è probabile che in questa occasione (se non già prima) fosse concordato il fidanzamento di E. VI con Costanza d'Altavilla, figlia del defunto re Ruggero II di Sicilia e zia del re allora regnante Guglielmo II (è questa l'affermazione degli Annales Stadenses, p. 350), reso pubblico il 29 ott. 1184. Le nozze furono celebrate a Milano, nella chiesa di S. Ambrogio, il 27 genn. 1186 - cioè un lunedi non giorno festivo - ma significativamente in una città che fino a poco tempo prima era stata la protagonista della politica antimperiale in Italia. Il papa, dimostrativamente, non presenziò alla cerimonia.
Il dissenso cosi manifesto del pontefice, direttamente interessato a questo matrimonio, ha influito sul giudizio degli storici fino al giorno d'oggi. Dagli storici tedeschi il matrimonio milanese è considerato di solito il punto culminante di una politica perseguita con coerenza, mentre tra gli storici italiani ancora oggi qualcuno deplora la scelta di Guglielmo II come "incomprensibile" (Cilento, p. 233). La scarsezza delle fonti lasciava infatti spazio a qualsiasi interpretazione e permetteva di individuare in ognuno dei tre protagonisti - l'imperatore, il papa, il re di Sicilia - l'artefice di questo accordo matrimoniale cosi carico di conseguenze sul piano politico. L'iniziativa è stata attribuita recentemente addirittura a Guglielmo II, che si sarebbe servito della mediazione della corte inglese. Ma tutte queste interpretazioni restano sul piano delle ipotesi e dipendono dall'immagine che il singolo studioso si è fatto della situazione politica globale.
Secondo Scheffer-Boichorst il fidanzamento fu un capolavoro della diplomazia segreta siciliana e sveva, un'abile mossa che, quando se ne sparse la notizia, nel 1184 portò alla rottura delle trattative in corso a Verona tra Federico I e Lucio III. Haller invece ha ritenuto, sulla base di un passo variamente interpretato di Pietro da Eboli e approfondendo una tesi già espressa dall'editore del testo E. Rota, che fosse Lucio III a combinare il matrimonio; ma questa ipotesi può essere considerata definitivamente confutata dalle ricerche del Baaken, (Unio Regni… ). Secondo Baaken il partito, svevo si rese chiaramente conto delle prospettive politiche del matrimonio, le previde e le fissò nel contratto matrimoniale con il sostanziale consenso di Guglielmo II, il quale già nel 1184 non contava più sulla nascita di un erede e voleva perciò regolare in tempo la successione, nella convinzione di farlo nel modo migliore appoggiandosi all'Impero - un'interpretazione data già più o meno nella stessa forma da G. Fasoli.
Recentemente la stessa tesi è stata avanzata anche da H. Wolters con un'argomentazione diversa. Egli sostiene che la corte siciliana aveva preso da tempo in considerazione un legame matrimoniale con la dinastia imperiale sveva, ma aveva accantonato il progetto per non mettersi in conflitto con il papa, signore feudale del Regno, e con il re inglese, suocero di Guglielmo II. Questi riguardi sarebbero caduti nel momento in cui Tancredi di Lecce avanzò pretese sul trono siciliano. Allora sarebbe stato cercato il contatto con gli Hohenstaufen con la mediazione del re inglese, il quale in cambio avrebbe chiesto la grazia per suo genero Enrico il Leone, esiliato in Inghilterra. A prima vista la tesi di Wolters appare convincente per vari aspetti, ma un esame più approfondito rivela che parte da premesse sbagliate ed è contraddetta dal silenzio delle fonti, soprattutto di quelle inglesi; altri dubbi riguardano i fatti e la cronologia (Kölzer, Regno di Sicilia, passim).
Non si può dire con sicurezza se l'iniziativa parti da Federico I (cosi il Chron. reg. Col. e Ottone di St. Blasien) o da Guglielmo II, come affermano Gislebert di Mons e Riccardo di S. Germano. Federico 1 comunque già nel 1173-74 aveva tentato un approccio, ma senza successo. Ora la volontà dell'imperatore di giungere ad un accordo (documentata anche per il 1176-77 e nel 1183) offriva vantaggi non solo a lui e al re siciliano, ma anche al papa. Per la prima volta, dopo anni di lotta accanita, si presentava la possibilità concreta di equilibrare i rapporti di forza in Italia, e questa possibilità veniva facilitata dal fatto che, dopo la catastrofe di Miriocefalo (1176) e la morte dell'imperatore Manuele I (1180), Bisanzio era uscita dal gioco delle forze politiche italiane. Non si hanno notizie di una protesta del papa contro il matrimonio, neanche dopo il fallimento delle trattative di Verona. Il papa quindi non fu ingannato - questo è certo - ma non fu neanche il mediatore di questo legame che poteva diventare pericoloso per lui.
I vantaggi per le due parti erano ovvi: il matrimonio rafforzò lo status quo ancor più che la pace concordata nel 1177. Pienamente consapevole che il problema siciliano non poteva essere risolto con le armi, l'imperatore legò a sé più strettamente il re di Sicilia. Questo è l'exquisitumconsilium di cui parla Gervasio di Tilbury (p. 381)! Gli accordi sulla successione siciliana riaccesero inoltre la speranza che le pretese sveve sull'Italia meridionale, cioè quell'antiquum ius imperii, potessero infine realizzarsi per via ereditaria. Per il momento comunque l'imperatore aveva guadagnato maggiore libertà d'azione per la sua politica nell'Italia settentrionale.
Per Guglielmo II il matrimonio fu più di un effimero aumento di prestigio: fece cadere definitivamente da un canto l'accusa di usurpazione "dell'antico diritto dell'Impero" che gli veniva mossa dagli Svevi e alla quale, peraltro, nell'accordo non si era accennato; dall'altro confermò e rafforzò la politica di "demediterraneizzazione" o "continentalizzazione" della politica siciliana che, secondo F. Giunta (Il regno) si sarebbe sviluppato dall'accordo di Benevento (1156) all'alleanza matrimoniale del 1184-86. Considerando gli eventi in questo modo, non c'era nessun bisogno della mediazione inglese, di cui del resto le fonti tacciono.
In occasione del suo matrimonio, Costanza fu incoronata regina da un vescovo tedesco. A sua volta E. VI fu incoronato dal patriarca Goffredo di Aquileia, "e da allora fu chiamato caesar", secondo la testimonianza di un contemporaneo, l'inglese Radulf de Diceto (Ymagines…, p. 39). Dubbio è il valore da assegnare alla cerimonia: E. VI fu incoronato re d'Italia o assistette semplicemente all'elevazione della moglie? Probabilmente nessuna delle due interpretazioni coglie nel segno, poiché questo atto solenne deve essere interpretato alla luce della notizia riportata da Radulf. l'appellativo di caesar, che peraltro E. VI non usò mai, sarebbe stato una sorta di palliativo in sostituzione di quella associazione di E. VI all'Impero, durante la vita del padre, che Federico I aveva richiesto da molto tempo, ma che caparbiamente il papa aveva rifiutato. L'atto solenne si deve quindi considerare come la dimostrazione di una pretesa, sulla quale si era ancora trattato inutilmente nel 1184 a Verona.
Nell'estate del 1186 il Barbarossa, dopo il trattato di pace con Cremona, affidò al figlio l'amministrazione del Regno d'Italia, in modo da potersi dedicare agli urgenti problemi tedeschi. Non si trattava tuttavia della prima prova per il successore al trono. Già nel luglio 1184, immediatamente dopo la splendida festa di corte tenutasi a Magonza, E. VI aveva intrapreso una spedizione contro i Polacchi che in poco tempo si era conclusa con un trattato di pace. Verso la fine dell'autunno 1184 era intervenuto nello scisma di Treviri, facendo distruggere a Treviri e a Coblenza le case dei seguaci di Folmar, il candidato alla cattedra arcivescovile poco gradito all'imperatore. Questa azione violenta, che fu deplorata davanti al papa dallo stesso Federico I, aveva contribuito alla rottura delle trattative di Verona. La spedizione militare, concordata nel 1184 per l'autunno del 1185 da E. VI con il conte delle Fiandre contro il re di Francia, era stata annullata poco prima dall'imperatore, per calcolo politico.
Con la alleata Lega lombarda alle spalle E. VI riusci in breve tempo ad affermare efficacemente l'autorità e la sovranità imperiale nell'Italia centrosettentrionale. Le forze fedeli all'Impero furono rinvigorite, ogni opposizione fu soffocata. A funzionari regi appartenenti al nuovo ceto dei ministeriali dell'Impero fu affidato il compito di mantenere l'ordine e di riscuotere le imposte. Quando Urbano III, da poco eletto pontefice, riconobbe Folmar nel 1186 come arcivescovo di Treviri, Federico I ordinò al figlio di occupare militarmente le terre della Chiesa. Anche questo provvedimento era a lungo termine, significava più della semplice conquista di un pegno per rendere docile il papa. I provvedimenti di E. VI indussero infatti la Curia a riprendere nuovamente le trattative con la corte imperiale, dopo che le speranze poste nell'opposizione tedesca guidata dall'arcivescovo di Colonia si erano dissolte. I successori di Urbano III, Gregorio VIII e Clemente III continuarono le trattative, anche in considerazione del fatto che la caduta di Gerusalemme (1187) costringeva a nuove priorità. Nel 1189 si giunse alla stipula di un trattato, il cui testo non è pervenuto, dopo che Clemente III già nel 1188 aveva acconsentito all'incoronazione imperiale di E. VI e della sua sposa. In risposta E. VI ordinò la restituzione dei territori della Chiesa occupati, anche se "con la riserva dei diritti imperiali", fatto che in fin dei conti lasciò in sospeso l'intera vicenda.
Federico I aveva preso la croce nella primavera del 1188, nel corso di una Dieta celebrata a Magonza. Per la durata della crociata la reggenza dell'Impero fu affidata ad Enrico VI. Quest'ultimo aveva appena condotto una guerra contro Enrico il Leone, di ritorno dal suo esilio inglese, allorché giunse in Germania la notizia della morte di re Guglielmo II di Sicilia (18 nov. 1189). L'avvenimento creò prospettive del tutto nuove, poiché dal matrimonio di Guglielmo con Giovanna, figlia del re d'Inghilterra, non erano nati figli. Doveva essere considerata legittima erede del Regno la moglie di E., Costanza, la cui eventuale successione era stata confermata dal giuramento, sollecitato da Guglielmo II, dei baroni siciliani nell'estate del 1185. Tuttavia il partito antisvevo, guidato dal vicecancelliere Matteo di Aiello, trasse vantaggio dalla paura suscitata dal furor teutonicus ed ottenne l'elevazione a re del conte Tancredi di Lecce (18 genn. 1190), un nipote illegittimo di re Ruggero II. E. VI accettò questa sfida: nel luglio del 1190 raggiunse un'intesa con Enrico il Leone e fece preparativi per una spedizione in Italia che fu rimandata all'inizio dell'anno seguente, a causa della morte del padre (10 giugno 1190). Sorsero nuove difficoltà con il successore di Clemente III, Celestino III, il quale non si sentiva vincolato dagli accordi presi dal suo predecessore. Il papa rinviò l'incoronazione imperiale, ritardando la propria consacrazione vescovile, e si rese disponibile solo il lunedi di Pasqua. E. VI si era garantito l'appoggio dei Romani grazie all'abbandono di Tuscolo, fedele all'Impero, che fu subito rasa al suolo. Il differimento dell'incoronazione concesse però a Tancredi il tempo sufficiente per organizzare la difesa. La campagna di E. VI si arrestò davanti a Napoli che resistette al tentativo imperiale. La flotta pisana, il cui aiuto E. si era assicurato mediante la concessione di un ampio privilegio al Comune toscano, fu neutralizzata da Margarito, ammiraglio di Tancredi. La presa in ostaggio di Costanza ad opera dei seguaci di Tancredi a Salerno e lo scoppio di un'epidemia nella truppa costrinsero infine l'imperatore a levare l'assedio e porre fine all'intera campagna e a ritornare in Germania. Lo aveva preceduto il figlio di Enrico il Leone, che E. VI aveva portato con sé come ostaggio a garanzia della buona condotta del padre, e che allora aveva lasciato segretamente il campo imperiale. In quel momento anche Celestino III assunse un atteggiamento più chiaro, riconoscendo Tancredi con il quale nel 1192 concluse a Gravina un concordato che sopprimeva i privilegi del re di Sicilia in materia ecclesiastica all'interno dei Regno. Inoltre apparve già chiaramente che il conflitto non si sarebbe limitato a uno scontro tra E. VI e Tancredi, ma avrebbe coinvolto tutto l'insieme delle potenze europee. Nel 1190-91 Riccardo Cuor di Leone, sulla strada per la Terrasanta, si fermò a svernare in Sicilia stringendo un patto con Tancredi, poiché quest'ultimo aveva prontamente soddisfatto le enormi richieste finanziarie che il re d'Inghilterra aveva presentato in favore della sorella, vedova di Guglielmo II. Dall'altra parte re Filippo Augusto di Francia, con il quale Riccardo era entrato in attrito, rinnovò l'alleanza svevo-capetingia. In Germania si era diffusa la voce della morte dell'imperatore. Da più parti si levarono gli avversari degli Svevi e crebbe l'opposizione contro la loro politica volta a costituire un regno ereditario, del quale l'eredità di Guelfo VI (morto nel 1191), che Federico I aveva potuto assicurare alla propria casa, costituiva un'importante componente.
Alimentata da vecchi conflitti territoriali si stava di nuovo formando intorno all'arcivescovo di Colonia l'opposizione antisveva nel Basso Reno, quando E. VI respinse la doppia elezione vescovile, avvenuta a Liegi (uno degli eletti era Alberto di Rethel, zio dell'imperatrice Costanza), conferendo invece l'episcopato al proprio candidato, Lotario di Hochstaden. Con l'aiuto di questo e della sua famiglia egli sperava di controbilanciare efficacemente l'azione di rafforzamento tentata dall'arcivescovo di Colonia. Con questo provvedimento E. VI si inimicò le forze più influenti della regione, che da parte loro erano coinvolte sia nel conflitto anglo-francese sia in quello svevo-guelfo. Si prospettò già allora la situazione che si sarebbe verificata subito dopo la morte di E. VI con l'elezione di due re, uno svevo e uno guelfò. Tantopiù che anche il papa aveva assunto una posizione chiara: egli prese le parti dell'opposizione e confermò il candidato scelto dalla maggioranza del capitolo del duomo, un fratello del duca di Brabante, che immediatamente fu consacrato vescovo a Reims per iniziativa dell'arcivescovo di Colonia. A novembre, quando il vescovo fu assassinato da alcuni cavalieri tedeschi, tutti erano convinti della responsabilità di E. VI, e ritennero poi di trovarne conferma nel fatto che gli assassini seguirono più tardi l'imperatore in Italia, dove non solo non vennero puniti ma furono addirittura investiti di contee. Lo sdegno nei confronti dell'imperatore raggiunse l'apice, e di fronte ad una tale situazione neanche la liberazione di Costanza e il suo ritorno in Germania poterono cambiare gli umori. Le truppe tedesche avevano liberato l'imperatrice sulla strada per Roma, dove si stava recando accompagnata da legati pontifici, dopo essere stata rilasciata da Tancredi grazie alle pressioni del papa.
Solo un caso fortunato salvò l'imperatore dalla difficile situazione: il duca Leopoldo d'Austria gli consegnò nel febbraio 1193 Riccardo Cuor di Leone, che egli per vendetta privata aveva catturato vicino Vienna, mentre il re inglese ritornava dalla crociata (21 dic. 1192). L'imperatore non si fece scrupolo di approfittare di questo ostaggio piovutogli dal cielo, minacciò di consegnare Riccardo al re di Francia, con cui trattava contemporaneamente, e fissò un enorme riscatto di 100.000 marchi d'argento. Inoltre Riccardo doveva riconoscere l'imperatore suo signore feudale contro il pagamento di un censo annuo di 5.000 libbre d'argento (E. VI rinunciò, invece, a richiedere la partecipazione personale del re d'Inghilterra alla spedizione di Sicilia, come in un primo tempo aveva prospettato). Solo al principio di febbraio del 1194 Riccardo Cuor di Leone fu rilasciato. L'opposizione antimperiale, privata dell'appoggio inglese e paralizzata per l'intenzionale protrarsi della prigionia del re, si era nel frattempo dispersa. Quanto al contrasto con Enrico il Leone un accordo in marzo pose termine al conflitto che si concluse in modo definitivo l'anno seguente con la morte del duca avvenuta a Brunswick (6 ag. 1195).
Dopo il fortunato superamento delle difficoltà interne, che non avevano consentito una politica di governo regolare, E. VI, rinforzato finanziariamente dal riscatto inglese, poté nuovamente dedicarsi alla conquista della Sicilia. Le premesse sembravano favorevoli; Tancredi. che aveva dovuto difendere la propria supremazia in continui scontri con i potenti della terraferma, era morto a Palermo il 20 febbr. 1194, poco dopo il suo primogenito; già l'anno precedente aveva visto la morte del cancelliere Matteo di Aiello, il maggiore sostenitore di Tancredi. La reggenza per il successore al trono, Guglielmo III ancora minorenne, fu assunta dalla madre Sibilla. In questa situazione la conquista del Regno di Sicilia non presentava particolari difficoltà.
Alla metà di maggio del 1194 E. VI mosse verso Sud. L'armata e la flotta pisano-genovese che operava contemporaneamente non incontrarono una resistenza degna di nota: già il 20 novembre E. VI entrò da trionfatore a Palermo, dove a Natale fu incoronato re di Sicilia. Il giorno dopo l'imperatrice diede alla luce a lesi (presso Ancona), dove si era fermata durante il viaggio verso Sud, il tanto atteso erede, chiamato inizialmente Costantino, ma poi battezzato con i nomi dei suoi nonni, Federico Ruggero. E. VI sembrava aver realizzato tutti i suoi desideri, ma proprio nel momento in cui sembrava trionfare, sorsero le difficoltà. Come si sarebbe potuto governare questo paese lontano e diverso con le insufficienti possibilità offerte dall'epoca? Questioni territoriali controverse nell'Italia centrale tra papa e imperatore necessitavano di una pronta soluzione, perché la parte sveva doveva assolutamente rendere sicuro il passaggio verso l'Italia meridionale. Ultima, ma non meno importante, era la questione dei futuri rapporti tra papa e imperatore, poiché il papa era sempre signore feudale del re di Sicilia.
Il comportamento che assunse l'imperatore si sarebbe potuto definire "machiavellico": dopo aver investito a dicembre il figlio di Tancredi, quasi a volerlo indennizzare, della contea di Lecce e del principato di Taranto, E. VI prese a pretesto un complotto in realtà inesistente per deportare in Germania la famiglia reale e i suoi più stretti consiglieri. Nello stesso tempo il meraviglioso tesoro reale fu confiscato e portato anch'esso in Germania. Forse nello stesso periodo fu imposto il divieto di appellarsi alla Curia romana. Inoltre E. VI fece controllare i registri delle tasse, benché si fosse subito manifestata per i Tedeschi l'impossibilità di amministrare le finanze senza l'aiuto degli esperti siciliani. Cosi Eugenio, che più tardi divenne sotto Costanza gran camerario della Terra di Lavoro e di Puglia, fu presto richiamato in Sicilia dalla prigionia tedesca, per assistere i funzionari imperiali, in particolare il vescovo Corrado di Hildesheim.
La Dieta convocata a Bari nella Pasqua del 1195 prese decisioni importanti per il futuro del paese. Anche Costanza si trovò al fianco del suo sposo, dopo che probabilmente per ordine dell'imperatore aveva dovuto affidare il figlio alla moglie del duca tedesco di Spoleto, Corrado di Urslingen, presso la quale Federico avrebbe dovuto passare i suoi primi tre anni di vita. A Bari si svolse anche con tutta probabilità l'incoronazione di Costanza a regina di Sicilia; essa fu incaricata poi del governo del Regno durante le assenze di Enrico VI. Costanza cominciò a contare i suoi anni di regno da una data non meglio determinabile del mese di maggio (Pentecoste?), che probabilmente coincise con il suo arrivo nella capitale Palermo. Il suo comportamento orgoglioso nei confronti del marito appare anche nella sua lettera a Celestino III (Constantiae … diplomata, pp. 10-14, n. 3). Secondo lei non esisteva l'"antiquum ius imperii", sottolineato da E. VI, sul Regno. Essa si richiamava piuttosto ai diritti di successione che le spettavano dopo la morte del padre ("paterna successio"), il cui diritto di sovranità ("paterni iuris plenitudo") essa reclamava totalmente per sé. La "imperialis adquisitio potentiae" secondo lei rappresentava solo uno strumento per ottenere i diritti dei quali era stata privata per opera del papa e di Tancredi. Anche dopo la morte di E. VI essa governò da vera e propria sovrana, non in qualità di reggente per il figlio, che dopo l'incoronazione (17 maggio 1198) fu semplicemente associato al trono. Già dal principio della unio regni ad imperium si mostravano quindi le profonde differenze di opinione dei coniugi riguardo ai titoli di ciascuno di loro. Tuttavia Costanza fu costretta a piegarsi ai reali rapporti di forza.
L'"autogoverno nazionale" cui si era dato vita a Bari sotto la guida di Costanza era stato senza dubbio pensato come soluzione temporanea e in ogni modo come compromesso. Esso almeno offriva una possibilità che il dominio straniero degli Svevi sarebbe potuto apparire in qualche modo sopportabile. Una sosta più lunga dell'imperatore nel Regno era fuori questione a causa dell'instabile situazione tedesca; per una forte presenza militare mancavano i mezzi. Cosi E. VI si accontentò di collocare uomini di fiducia in posizioni chiave, innanzitutto nei castelli sul confine settentrionale, importanti strategicamente, in quanto garantivano il collegamento con l'Italia imperiale (Rocca d'Arce, Sorella ecc.). Il condottiere dell'armata imperiale, Marquardo di Annweiler, ottenne la Marca di Ancona, il ducato di Romagna e - dopo la morte di Corrado di Lützelhardt (1197) - la contea di Molise, mentre il fratello di E. VI, Filippo, ebbe la Toscana e l'amministrazione dei feudi di Matilde. Cancelliere dell'Impero era allora Gualtieri di Pagliara, vescovo di Troia, il quale aveva passato molti anni in esilio in Germania. Corrado di Urslingen di Spoleto, sotto la cui custodia si trovava il successore al trono, fu nominato Regni Siciliae vicarius. In entrambi i casi nessuna testimonianza documenta che essi esercitassero effettivamente queste cariche. Un fatto molto strano è che il cancelliere, contrariamente alla tradizione normanna, non compare mai nel ruolo di sua competenza nei documenti emanati da Costanza. Questa addirittura lo fece incarcerare alla morte dell'imperatore, per liberarlo solo dopo l'intervento del papa. Per il resto il personale della Cancelleria mostrava un alto grado di continuità con il passato, poiché Costanza si valeva dell'esperienza di numerosi notai di Tancredi.
Ulterori disposizioni di E. VI finora si possono individuare solo a grandi linee. La carica di ammiraglio fu occupata dal genovese Guglielmo Crasso, ricordato per la prima volta solo nel 1197; ma già dall'anno seguente fu indicato da Costanza come inimicus noster (Constantiae … diplomata, n. 66, p. 239). L'amministrazione finanziaria, a quanto pare, venne decentrata; nel 1197 il tedesco Federico di Hohenstadt ricopri nelle Puglie la carica di magister camerarius. Il vescovo Corrado di Hildesheim, totius Italiae et Regni Siciliae legatus, per il quale fu anche riorganizzata la struttura amministrativa delle Puglie, si occupò dei preparativi per la crociata (ibid., n. 9, p. 261). E fu lo stesso vescovo che ordinò e sorvegliò lo smantellamento delle mura di Napoli.
Inoltre non è chiaro se l'imperatore cambiò la composizione del tribunale della Magna Curia. Guglielmo di Malconvenant, qualificato già al principio della reggenza di Costanza Come magne imperialis curie magister iusticiarius, che compare ancora nel 1198 (Constantiae … diplomata, n. 73 pp. 263 s., 279), aveva tenuto questa carica già nel 1183 sotto Guglielmo II. Anche riguardo alla composizione del Collegio dei familiari le notizie risalgono solo al 1198 (ibid., nn. 11 e 25, pp. 331 s.); allora ne facevano parte il cancelliere Gualtieri di Pagliara e gli arcivescovi di Capua, Monreale e Reggio Calabria. Matteo di Capua viene indicato come familiare di E. VI, Bartolomeo di Palermo era stato già familiare di re Guglielmo III. Dal 1196 compare al posto del vescovo Enrico di Worms l'arcivescovo Angelo di Taranto come vicario della corte imperiale (vicarius imperialiscurie), il quale dopo la morte dell'imperatore divenne nonostante tutto uomo di fiducia del papa nello episcopato di Puglia.
Eccettuate forse le Puglie, sembra che la sostituzione del personale si fosse limitata ai posti direttivi e di importanza militare, mentre l'amministrazione delle province rimaneva sostanzialmente invariata. Nel 1195-96 il tedesco Eberhart di Lautern, un ministeriale dell'Impero, fu nominato magister castellanus et magister iusticiarius Siciliae e nel contempo stratigotus di Messina. Nel 1195 il ministeriale Dipoldo di Schweinspeunt, signore del castello di Rocca d'Arce che nel 1197 ottenne addirittura il titolo di conte d'Acerra, ricopri la carica di giustiziere della Terra di Lavoro. L'abbazia di Montecassino, fedele all'Impero, ottenne già nel dicembre del 1194 il giustizierato sui beni monastici, un privilegio eccezionale. L'imperatore di solito non interferi nella nomina dei vescovi, e solo in pochi casi è riconoscibile una sua influenza diretta, benché il concordato di Benevento (1156) gli offrisse in quanto re di Sicilia solidi appigli: la richiesta dell'assensus reale era infatti indispensabile per l'eletto. Chiaramente l'imperatore, in quanto straniero, voleva evitare ulteriori contrasti, tanto più che i vescovati, di solito meno importanti di quelli tedeschi, erano spesso controllati dalla nobiltà locale. Persone sgradite vennero naturalmente eliminate: è il caso del vescovo Urso di Agrigento che alcune voci del XIII secolo indicano come figlio di Tancredi. Per aver partecipato al complotto del 1197 fu imprigionato Ruggero Orbo, vescovo di Catania, che era stato elevato come candidato dell'imperatore. In compenso non era considerato un fattore discriminante l'essere stato seguace di Tancredi; Samaro di Trani e Caro di Morireale restarono indisturbati, come altri ancora, e ottennero addirittura dei privilegi.
La promessa di intraprendere la crociata non agevolò certamente la situazione dell'imperatore. Immediatamente prima della Dieta di Bari egli aveva preso segretamente la croce nel giorno di venerdi santo e la domenica di Pasqua fece predicare pubblicamente la croce. Non si capisce il motivo per cui egli si sarebbe imposto anche questo onere.
Gli studiosi fino ad oggi non sono concordi sul giudizio degli ultimi due anni del governo di Enrico VI. Ci sono alcune nuove concessioni che per la morte precoce non poterono essere sviluppate. L'argomento degli obiettivi ultimi della politica imperiale lascia spazio solo ad ipotesi. Non è tuttavia corretto separare le singole attività di E. VI in azioni prive di rapporto le une con le altre: il progetto della crociata, la preoccupazione di assicurare la successione di Federico (progetto per la creazione di un Impero ereditario) e le contrattazioni con il papa possiedono senza dubbio legami di causalità, in cui alla nascita dell'erede spetta il ruolo più importante, dando finalmente un senso e uno scopo alla politica dinastica di Enrico VI. D'altra parte non bisogna giudicare le mosse di E. VI soltanto in base a considerazioni di politica reale. Gli Hohenstaufen, che nello spazio di poche generazioni erano usciti dall'angustia provinciale della Svevia, si sentivano gli ultimi rappresentanti dell'unica dinastia esistente da tempi immemorabili, che si vedeva chiamata a regnare sul mondo intero.
La nuova situazione del 1194 offriva possibilità ricche di prospettive per la realizzazione dei sogni di dominio degli Svevi. A E. VI è stato attribuito il progetto di estendere la sua signoria su tutta la terra, ma questa asserzione fu poi ridimensionata dall'ipotesi secondo cui l'imperatore avrebbe coerentemente sfruttato solo le possibilità che gli si offrivano (Kirfel), cioè l'imposizione della signoria feudale sull'Inghilterra e poi su Cipro e sull'Armenia, il pagamento dei tributi del califfato almohadico dell'Africa del Nord, il ricatto nei confronti di Bisanzio (rinnovamento delle pretese territoriali normanne, la richiesta di aiuto militare per la crociata, le "tasse alemanne", il matrimonio del 1197 di Filippo di Svevia con la nuora bizantina di Tancredi, rimasta vedova, e nello stesso tempo la conquista del diritto di successione svevo), che in alcuni casi coincise con l'aggressiva politica normanna contro l'Impero bizantino. Sotto questo aspetto la crociata avrebbe rappresentato soltanto un mezzo per rimettere in moto le trattative tra papa ed imperatore. Se si ammette però che la politica di E. VI era decisamente indirizzata verso Oriente, questa crociata avrebbe potuto effettivamente documentare la pretesa di dominio degli Svevi sull'intera Cristianità nella tradizione di Federico I, e realizzare nello stesso tempo la profezia, largamente diffusa, secondo la quale l'ultimo imperatore sarebbe entrato a Gerusalemme. Nella persona di E. VI convivevano quindi il politico che agiva con durezza e senza scrupoli e il visionario che cercava di condurre l'Impero svevo ad altezze mai prima raggiunte.
Tornato in Germania, E. VI, mentre faceva predicare la crociata, cercava di convincere i principi ad eleggere re Federico, ma non riusci ad imporre la sua volontà. Per la prima volta - Per quanto ne sappiamo - i principi si rifiutarono dinnanzi ad una tale richiesta del sovrano regnante. Indubbiamente anch'essi di fronte alla imminente crociata si preoccuparono di sistemare i propri affari. E. VI sfruttò questa opportunità e all'inizio del 1196 si presentò con un piano ancora più ambizioso: d'ora in avanti la successione imperiale sarebbe avvenuta in base al diritto ereditario, prevaricando i diritti elettorali dei principi, che Ottone di Frisinga aveva elogiato come eccezionale prerogativa dell'Impero romano. In compenso l'imperatore voleva riconoscere ai principi temporali Pereditarietà dei loro feudi in linea maschile, femminile e addirittura collaterale. A beneficio dei principi ecclesiastici E. VI era invece disposto a rinunciare al cosiddetto diritto di spoliazione del braccio secolare (la confisca dell'eredità mobile di un chierico, in particolare di un vescovo, da parte dell'imperatore). Questo progetto di stabilire una dinastia ereditaria era in effetti "un fatto nuovo e inaudito", come osservava un contemporaneo (Ann. Marbacenses, p. 68), e avrebbe posto su basi assolutamente nuove la costituzione dell'Impero. Tuttavia ci fu un numero per il momento considerevole di principi che firmarono il documento relativo (Würzburg, marzo-aprile 1196), anche se probabilmente controvoglia sotto le pressioni dell'imperatore. Nel corso dell'estate si formò invece l'opposizione che in autunno condusse al definitivo rifiuto degli accordi precedentemente conclusi.
E. VI, che dall'estate si trovava nuovamente in Italia, per convincere anche il papa ad assecondare il suo piano, battezzando ed incoronando Federico II, sciolse i principi dai loro vincoli e in compenso ottenne almeno l'elezione del figlio a re (fine del 1196). Non è stato stabilito chi in Germania fosse a capo dell'opposizione e se questa intrattenesse relazioni con il papa. E. VI aveva cercato di allettare il papa con un'offerta, "la più alta", probabilmente nella forma di una rendita duratura in favore del papa e dei cardinali (Giraldus Cambrensis, Speculum ecclesiae, IV, 19), ma sicuramente non con quella di rendere l'imperatore vassallo del papa (Haller). Anche il papa però rifiutò le proposte di E. VI, tanto più che quest'ultimo da parte sua "per preservare la dignità dell'Impero" non aveva accettato né prima né dopo di ricevere il Regno in feudo dal papa, come prima di lui avevano fatto tutti i re di Sicilia. Le opposte posizioni non erano conciliabili; le relazioni di E. VI con il Papato restarono per tutta la vita tese e irrisolte.
Mentre fervevano i preparativi per la crociata, l'imperatore si recò in Sicilia; con il suo arrivo liberò dagli incarichi Costanza che tornò in secondo piano. E. VI, nello stile di Ruggero II, promulgò un editto di revoca dei privilegi che sottometteva alla sua grazia tutti i privilegiati del Regno. A dire il vero, l'effetto venne a mancare, poiché mentre l'imperatore alla fine di aprile si recava nella sua tenuta di caccia presso Patti, scoppiò una rivolta, dalla quale egli si salvò a stento, ripiegando su Messina. I ribelli furono sconfitti a Paternò da un'armata radunata in breve tempo da Enrico di Kalden e Marquardo di Annweiler, i superstiti furono circondati e assediati a Castrogiovanni (Enna): verso la fine di maggio la sollevazione contro la signoria straniera era stata repressa. La vendetta di E. VI fu spietata: persino i prigionieri che erano stati trasferiti in Germania furono puniti. Nella cerchia imperiale si mormorava di una partecipazione dell'imperatrice e del papa al complotto; entrambe le voci non sono dimostrabili, anche se appare difficile che Costanza non conoscesse l'umore dei suoi sudditi. Seppure E. VI ebbe dei sospetti nei confronti della moglie, non manifestò alcuna reazione, visto che ricompensò insieme con lei i cittadini di Caltagirone per la loro fedeltà durante la recente agitazione. Ma all'imperatore restavano ormai pochi mesi di vita. Tornato nella tenuta di caccia a Patti, al principio di agosto cominciò ad avere problemi di salute, il che impose un suo trasferimento a Messina da dove era appena partita la flotta per la crociata. Vi furono degli accenni di ripresa, ma solo temporanei. E. VI mori a Messina il 28 settembre 1197, probabilmente di malaria e dissenteria, in presenza della moglie.
Poco prima di morire E. VI aveva stipulato il suo "testamento politico" e lo aveva affidato alla tutela di Marquardo di Annweiler: esso nel 1200 fu ritrovato nel bagaglio di quest'ultimo sul campo di battaglia di Monreale.
L'autenticità del documento, che è stato trasmesso solo frammentariamente dalle Gesta Innocentii III papae (Patr. lat. 214, col. LII), è contestata. Possono sorgere dei dubbi ad esempio riguardo alle concessioni territoriali fatte al papa, ma sostanzialmente il "testamento" dovrebbe essere autentico: E. VI cercò di assicurare al figlio la successione nel Regno e nell'Impero e consigliò, quindi il riconoscimento dei vecchi diritti papali sul Regno, gli stessi che egli in vita non aveva mai voluto riconoscere. Inoltre, per avere la garanzia della successione all'Impero, il papa avrebbe ottenuto la quasi totalità dei beni matildici cosi come altri possedimenti controversi. Infine anche Marquardo di Annweiler avrebbe dovuto ricevere in feudo dal papa il ducato di Ravenna e la marca di Ancona.
La morte di E. VI è stata considerata da alcuni osservatori posteriori come la più terribile catastrofe della storia del Medioevo tedesco (Hampe, p. 233), ma anche i contemporanei percepirono la profonda cesura, e previdero disgrazie. "Se egli fosse vissuto più a lungo, l'Impero sarebbe rifiorito nel suo antico splendore", si lamentava Ottone di St. Blasien (p. 71). Qui si rispecchiano forse meglio di altrove le aspettative, che avevano accompagnato la politica di E. VI, ormai staccate dalla situazione reale. Indubbiamente la realtà dimostrò di colpo quanto fragili fossero le basi su cui poggiavano i sogni di dominio degli Svevi: la signoria di E. VI sull'Italia meridionale crollò immediatamente, benché il suo seguito avesse cercato di conciliare le parti in conflitto o almeno di riunire le proprie forze, e Costanza, che per sé non accampava alcun diritto di signoria sull'Impero, avesse tentato di conservare al figlio la successione al Regno e all'Impero per mezzo di ostinate trattative con il papa. Sotto l'egida del Papato il Regno e l'Impero furono divisi e nel 1198 si constatava come la unio regni ad imperium fosse stata un semplice episodio.
La salma di E. fu provvisoriamente sepolta a Messina. Poco prima dell'incoronazione del figlio a re di Sicilia (17 maggio 1198) fu traslata nel duomo di Palermo e posta in un sarcofago di porfido, commissionato da Costanza sul modello dei due voluti da Ruggero II nel duomo di Cefalù.
Secondo J. Deér la salma di E. VI fu spostata nuovamente, quando Federico II nel 1215 fece trasportare entrambi i sarcofagi da Cefalù a Palermo. E. VI riposa oggi dunque in uno dei due sareofagi donati da Ruggero II, mentre Costanza giace nel sarcofago di porfido originariamente destinato al marito.
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