THOVEZ, Enrico
– Secondogenito di Cesare, ingegnere idraulico di origine savoiarda, e di Maria Angela Berlinguer, di aristocratica famiglia oriunda spagnola, nacque a Torino il 10 novembre 1869. La coppia, oltre a Enrico, ebbe un altro figlio, Ettore, maggiore di cinque anni del fratello.
Tra il 1881 e il 1886 Tovez si diplomò alle scuole tecniche e si iscrisse alla facoltà di scienze, che abbandonò dopo appena due mesi di frequenza per intraprendere gli studi classici e conseguire la licenza liceale nel 1892. Attorno ai vent’anni soffrì di una malattia nervosa da cui si riprese a seguito di un viaggio a Firenze, fatto in compagnia del fratello. Iscrittosi alla facoltà di lettere nel 1896, si laureò discutendo una tesi di storia dell’arte greca intitolata Il Medioevo dorico e lo stile del Dipylon (Roma 1903).
Nel 1887 compose i suoi primi idilli in endecasillabi sciolti, apparsi nella Gazzetta letteraria tra il 1891 e il 1892, quindi confluiti nella sezione La casa degli avi dell’antologia Poemi d’amore e di morte (Milano 1922). Dal 1887 iniziò a meditare sulle scelte metriche adottate, per esplorare le novità della metrica barbara, ovvero l’esametro dattilico: se in principio le Odi barbare di Giosue Carducci gli apparvero modelli di libertà espressiva, preferì poi rifarsi ai greci.
Agli anni 1892-93 risale il progetto redazionale di Il pastore, il gregge e la zampogna (Napoli 1910), svolto in progressivo affinamento per diciotto anni, che riscosse vasta risonanza.
Si tratta di un libro di critica rabdomantica, concepito a partire dall’aprile del 1895 come premessa al Poema dell’adolescenza (Torino 1901), idealmente strutturata in due parti: una aneddotica, comprensiva di una rilettura negativa di Carducci, l’altra fortemente critica sull’opera di Gabriele D’Annunzio. Persuaso che abbiano contribuito a degradare la ‘poesia di sostanza’ in ‘poesia di forma’ – impoverendo cinque secoli di poesia (quanti ce ne sono tra Dante e Leopardi, campioni prediletti di Thovez) – questi due autori segnerebbero un arresto intollerabile nell’evoluzione dell’esperienza poetica. Particolarmente forte è la critica riservata a D’Annunzio, che avrebbe iniettato nella letteratura italiana l’infezione dell’impostura e dell’istrioneria, la mancanza di dignità e di carattere.
Fu nella Gazzetta letteraria tra il 1895 e il 1896 che Thovez pubblicò alcuni articoli sui «plagi dannunziani», raccolti poi in L’arco d’Ulisse (Napoli 1921) insieme con altri tre saggi del 1912-13 sull’insincerità di un D’Annunzio tacciato di dilettantismo estetico, di idiozia indotta da libidine erotica/eroica e di crudele compiacimento nella formulazione di quadri funesti. Tali polemiche procurarono una discreta fama europea a Thovez appena ventiseienne, ma presto lo resero inviso alla faziosa critica nazionale che gli fu ostile anche per l’intelligenza incauta, onnivora, che dimostrava.
Nel 1896 si dispose a copiare e a raccogliere le sue liriche, con il proposito di pubblicarle: nel maggio del 1897, con un sussulto di entusiasmo, realizzò la stampa del Poema dell’adolescenza per i tipi di Renzo Streglio. Diversamente da quanto sperato, il libro non fu accolto benevolmente dalla critica. Nel definirsi idoneo a incarnare «la potenza lirica del suo tempo», con questi componimenti Thovez voleva distinguersi dalla produzione che considerava non spontanea dei versificatori contemporanei, per farsi invece doppio immateriale della natura, pura, imponente.
Il mito del poeta quale missus dominicus, celeste messaggero, affiorava però in questi versi come un rigurgito tardivo della lirica romantica, e proprio nel loro avere come centro l’adolescenza, stadio imprescindibile dell’avventura poetica quale divinazione dello spirituale nel sensibile. La drammatica contrapposizione tra la poesia della giovinezza e «l’arido vero» dell’età adulta, che ribalta il sogno nel suo contrario, costituisce un’ennesima reminiscenza romantica, di smaccata genitura leopardiana. La donna è l’altro leitmotiv della silloge ed è direttamente implicato con quello della natura.
Cimentatosi nella pratica traduttiva, trascrisse in italiano alcuni epigrammi di Paolo Silenziario e nel 1900, per la Tipografia del Corriere della sera di Milano, tradusse dall’inglese i Racconti americani di Samuel Langhorne Clemens (Mark Twain). Nella primavera di quello stesso anno, insensibile ai dettami dell’impressionismo e del simbolismo, trasfuse nella pittura la materia poetica dei suoi versi ed espose il Ritratto della madre alla Promotrice delle belle arti di Torino, quindi – alla Biennale di Venezia del 1901 – partecipò con un quadro della collina torinese con in primo piano una figura d’uomo per la quale posò il pittore Felice Carena.
Nell’estate del 1901 visitò la Germania. Nel 1902 fu iniziatore e segretario della Prima esposizione internazionale d’arte moderna del capoluogo piemontese, e fondò con Leonardo Bistolfi, Giorgio Ceragioli, Enrico Reycend e Davide Calandra la rivista L’arte decorativa moderna. Sempre nel 1902 collaborò alla redazione del mensile senese Vita d’Arte e tornò alla Biennale veneziana con un dipinto del poeta che, dalle colline, scruta pensoso nella pianura «la città fumante da conquistare».
Dalle lettere firmate Tristano, inviate a Isotta tra il 22 luglio 1899 e il 15 settembre 1901, trapela il legame d’amore di Thovez con la moglie di Ettore Bracco, amico dello scrittore. Risale invece al settembre del 1901 l’incontro a Torino con Maria Savoia, una giovane istitutrice con la quale ebbe la relazione più significativa della sua vita, fino alla morte. Nell’agosto del 1902 soggiornò con lei a Brusson (Val d’Aosta). Nel marzo del 1903 subì la perdita del padre.
Dopo l’esordio giornalistico sulla Gazzetta letteraria, pubblicò articoli di critica letteraria, d’arte e di costume per la Gazzetta piemontese, Il Resto del Carlino, Il Corriere della sera e Il Secolo.
Il 1° maggio 1904 trovò impiego come redattore e inviato speciale presso La Stampa, dove restò fino al 1913, quando, alla scomparsa di Dino Mantovani, venne assunto in qualità di critico letterario del quotidiano di Alfredo Frassati. Firmava i suoi dialoghi con lo pseudonimo Simplicissimus (tratto dall’omonimo settimanale satirico tedesco, stampato a partire dal 1896). Nel 1907, in occasione della visita di Vittorio Emanuele III, venne inviato in Grecia – dove si sentì naturalmente amico delle vestigia classiche, dei fasti antichi e del paesaggio genuino, non turbato dai mali dell’età moderna –, esperienza successivamente ricordata in Il viandante e la sua orma (Napoli 1923).
Se da un lato amò immergersi nelle profondità del passato, dall’altro non mancò di interrogarsi sull’evoluzione della tecnica e sul futuro dell’arte, come nella precoce riflessione sul cinema L’arte di celluloide (1908), poi inclusa nell’Arco d’Ulisse. Successivamente scrisse Augusta Taurinorum, pagine esemplari miste a orgoglio e pessimismo sulla città subalpina e i suoi residenti; introdusse L’opera pittorica di Vittorio Avondo (Torino 1912) e la figura del fisiologo Angelo Mosso con un appunto nel volume Le origini della civiltà mediterranea (Milano 1912).
Divenuto nel 1913 direttore della Galleria civica d’arte moderna di Torino, vi restò in carica fino al 1921.
Anticrociano irriducibile, il 27 dicembre 1914 pubblicò su La Stampa il dialogo Della politica in arte in cui, invocando la necessità di mantenere separato il giudizio estetico da quello politico, ghignava sulla sconvenienza di implicare gli artisti del passato nelle controversie nazionali. Analogamente, nella lettera Estetica di guerra (ibid., 2 aprile 1916), rivolgendosi agli ideatori di una possibile Unione estetica latina, dichiarava che, se la sventura del conflitto mondiale aveva modificato per certi aspetti le sue convinzioni politiche e sociali, quelle estetiche erano rimaste inalterate.
Nel proclamarsi figlio intellettuale della Germania, si collocò nella famiglia umana di Goethe e Wagner, che considerava gli archetipi della modernità. Al centro dell’intero quadro estetico, poneva Friedrich Nietzsche, Heinrich Heine, Arnold Böcklin ed Engelbert Humperdinck, indicato, insieme con Richard Wagner, quale antidoto contro Pietro Mascagni, Giacomo Puccini e il fin troppo sofisticato Claude Debussy. Dei nostri compositori, solo Giovanni Pierluigi da Palestrina destò in lui grande ammirazione. Sedotto dagli arcani del Volksbuch, dalla solitudine abissale di un Faust in salsa nietzschiana su cui pesa il gravame della colpa e la catastrofe della dannazione, manipolò con curiosità sperimentale l’opera di Goethe, cimentandosi nella stesura di un Nuovo Faust, mai terminato e restituito in frammenti negli Scritti inediti (Milano 1938).
Verso la fine del 1916 Thovez abbandonò il quotidiano torinese per passare alla Gazzetta del popolo. Fu l’anno del ritorno alla pittura, con la realizzazione di due ritratti dell’amico Andrea Torasso e di un autoritratto custodito presso la Galleria civica d’arte moderna di Torino.
Si dispose anche a tradurre i Frammenti di lirici greci, musicati per canto e pianoforte (Milano 1918, per la musica di Giacomo Benvenuti) e pubblicò Mimi dei moderni (Napoli 1919), bilancio negativo – nell’ottica del filosofo Aristarco Eunoè/ Thovez – sulla vita prebellica pervasa da fatue ambizioni, cui fece seguito La ruota di Issione (Napoli 1925), una lugubre disamina del grande conflitto e del suo epilogo seguito da uno squallido scadimento morale.
Il dopoguerra si aprì con la morte della madre. Negli anni 1919-20 intese mettere mano a un volume miscellaneo di poemi in prosa, articoli, dialoghi, brani sconosciuti e altri (fra cui quelli usciti nel Secolo del 13 novembre 1923 e del 15 luglio 1924), parzialmente incentrati sull’esperienza del conflitto mondiale e finiti a distanza di tempo negli Scritti inediti.
Intanto venne dato alle stampe Il vangelo della pittura (Torino-Genova 1921), consacrato alle arti figurative. L’anno successivo fu la volta dei Poemi d’amore e di morte (Milano 1922), ideale testamento poetico sigillato dalle Odi del tempo – imperniate ancora sul tema della grande guerra – in latente armonia con il romanticismo naturalistico di Böcklin su cui l’autore aveva già riflettuto in un articolo del 1921, poi confluito nel Filo d’Arianna (Milano 1924). Gli idilli in endecasillabi sciolti (gli ultimi in poliritmo) della raccolta, intitolati La casa degli avi e risalenti al 1887, forniscono un aggancio tra questa e la prima antologia poetica.
Nel maggio del 1924 Thovez soggiornò a Giannutri, quindi ripubblicò il Poema dell’adolescenza non senza prima sottoporlo a un’assennata revisione lessicale.
Affetto da tumore maligno, il 16 febbraio 1925 morì nella villa di famiglia, sui poggi di Moncalieri.
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