ROSSO, Enrico.
– Figlio di Rosso, conte di Aidone, e di Oria Alagona (E. Mazzarese Fardella, Tabulario delle pergamene..., 2011, doc. 47), nacque probabilmente a Messina intorno al 1325; lo si deduce dal fatto che molto giovane, nel 1343, ricoprì la carica di maestro razionale (Marrone, 2005, p. 345).
Nel 1345 è domiciliato a Messina e compare come primo contribuente nel ruolo dei feudatari siciliani che ripartisce la tassa (adoa), sostitutiva del servizio militare: 14 cavalli armati, pari a 280 onze di reddito (Sciascia, 1993, p. 196). Sulla base del testamento paterno del 28 luglio 1341, Rosso in quanto primogenito ereditò la contea di Aidone e molti beni feudali (Marrone, 2006, p. 368).
Fatta risalire a Ugone d’Altavilla, detto il Rosso dal colore dei capelli, la famiglia Rosso, di probabili origini amalfitane (Sciascia, 1993, p. 162), fu avversa agli Angiò da quando nel 1282, scoppiato nell’isola il Vespro, il nonno omonimo di Enrico fu catturato dagli Angioini in battaglia (Bartolomeo da Neocastro, Historia Sicula, 1791, cap. 36); rinchiuso a Castel dell’Ovo, tornò libero due anni dopo dietro pagamento di un riscatto. Secondo il racconto di Filadelfo Mugnos, lo stemma dei Rosso, una stella cometa ondeggiante in palo in campo rosso, fu suggerito al nonno omonimo di Enrico da una cometa vista durante un assedio: da qui la suggestiva ipotesi di collocare l’origine dei Rosso di Messina nel 1301, data di un assedio angioino della città e di un passaggio della cometa di Halley (Sciascia, 1993, p. 168).
Educato alla corte di re Pietro II e poi di Giovanni, duca di Sicilia e vicario dal 1342 durante la minorità di Ludovico, Rosso, dal temperamento «irrequieto» (D’Alessandro, 1963, p. 110), oscillò spesso tra parzialità latina e catalana, «ago inquieto e acuminato della bilancia impazzita della politica siciliana della seconda metà del XIV secolo» (Sciascia, 1993, pp. 197 s.).
Nel 1353 sposò Luchina, figlia di Federico Chiaromonte e Costanza Moncada. Nel grande hospicium dei Chiaromonte ad Agrigento, presso la cattedrale, venne imbandito un ricco banchetto nuziale, con cibi e vini ricercati. La festa con balli, suoni e luminarie si protrasse per tre giorni, durante i quali nella piazza antistante il palazzo vennero offerti pane e vino a tutti i cittadini (Michele da Piazza, Cronaca..., a cura di A. Giuffrida, 1980, I, cap. 59). Dal matrimonio nacquero tre figli: Enrico, terzo conte di Aidone, Beatrice e Margherita (Marrone, 2006, p. 369). La strategia matrimoniale dei Chiaromonte ebbe effetto e quel legame produsse un cambiamento in Enrico, esule dalla sua città e desideroso di farvi rientro: da «simpatizzante della fazione catalana» si trasformò, «nella sua maniera ambigua e contorta», in sostenitore dei Chiaromonte (Sciascia, 1993, p. 197). Lontano da Messina, elesse a residenza preferita il casale, poi terra, di Motta Sant’Anastasia e rese il sito – già per sua natura inaccessibile – quasi inespugnabile (F. San Martino de Spucches, La storia dei feudi..., 1927, V, p. 240; Sciascia, 1993, p. 199).
Nel giugno 1353 a Taormina, Rosso rese omaggio a re Ludovico: occasione attesa per entrare nelle grazie del sovrano e fare ritorno a Messina. Ludovico gli ordinò di recarsi nella piana di Milazzo per sedare una rivolta. Giunto con il suo esercito nei pressi di Milazzo, Rosso si unì alle truppe di Corrado Spatafora, giustiziere di Taormina, con il quale marciò su Messina, depredando e distruggendo, e si accampò nella piana di San Sepolcro. La presenza di Rosso sotto le mura di Messina innervosì Matteo Palizzi, l’odiato conte di Noara (Novara di Sicilia), rappresentante della corrente latina del Regno. Per mostrare la sua fedeltà al re, Rosso arretrò di due miglia l’accampamento e agli ambasciatori diede la sua parola di non avere intenzioni ostili, pronto a entrare disarmato a condizione che nessuno portasse armi (Michele da Piazza, Cronaca..., cit., cap. 63). Scoppiata poi in città (luglio 1353) una sommossa, Matteo Palizzi si rifugiò con moglie e figli nel palazzo reale, ove (con i familiari) fu trucidato da Rosso.
L’idillio con la città durò poco; Rosso attirò su di sé sia l’odio della classe dirigente di Messina che quello di tutti i cittadini. Nel dicembre del 1355 fu nominato cancelliere del Regno, con la custodia del sigillo reale atto a validare gli atti ufficiali della Corona. Tra ribellioni e riabilitazioni, avrebbe ricoperto la carica a più riprese sino al 1385. L’influenza di Rosso nel consiglio della Corona e presso la vicaria Eufemia, reggente durante la minorità del fratello Federico IV, spinse il gran giustiziere Artale Alagona a intervenire.
Il 24 marzo 1356 da Catania, dove si era recato al seguito di Alagona, Federico IV scrisse a Rosso di spedirgli sigillo e registri del suo ufficio di cancelliere del Regno, e di inviare una persona fidata per esercitare al suo posto (G. Cosentino, Codice diplomatico..., 1885, doc. CXCIX, p. 173). Secondo alcuni storici (V. La Mantia, Codice diplomatico, 1917, p. 40; G. Travali, I diplomi angioini, 1885-1886, pp. XIV s.), con questa lettera il re avrebbe revocato a Enrico la carica di cancelliere, ipotesi scartata da chi ritiene la lettera originata dalla gelosia di Artale Alagona, che in questo modo avrebbe disposto degli atti ufficiali e del governo del Regno (Russo, 1967, p. 116).
Mentre il conte era nel castello di Motta Sant’Anastasia, la sera di mercoledì 29 giugno 1356 Messina si sollevò al grido di «Viva lu re di Sicilia, e mora la casa Russa» (Michele da Piazza, Cronaca..., cit., incipit), saccheggiando le case dei seguaci del conte. Rosso marciò sulla città, ma i messinesi si opposero all’entrata. Il 27 settembre 1356 il re annunziò a Francesco Ventimiglia il tradimento di Enrico Rosso, alleatosi con i Chiaromonte.
Dopo circa due anni di lotte, il 2 giugno 1357 fu siglata una pace tra gli Alagona e Rosso, che per l’occasione fu riconfermato cancelliere del Regno, carica che ricoprì almeno sino al dicembre 1363. Per ridurre all’obbedienza regia le terre della pianura di Milazzo di fedeltà angioina, egli pose l’assedio al castello di S. Lucia.
Alla strage di messinesi perpetrata in quella circostanza da Rosso scampò soltanto Pino Campolo, uno dei grandi mercanti della città, il quale, in cambio della libertà di rientrare a Messina, promise di organizzare una congiura tra i fautori degli Aragonesi. Rosso accettò e scrisse lettere per i suoi seguaci, perché preparassero il suo ingresso in città. Invece di incontrarsi con i cospiratori, Pino Campolo portò le lettere allo stratigoto Manfredi Chiaromonte. Messo al corrente della congiura e dei nomi dei seguaci di Rosso, Chiaromonte li fece arrestare «e li trattò come carne da macello» (ibid., II, cap. 59); ne morirono circa trecento, altri furono imprigionati, alcuni deportati. Messina fu ripopolata con gente del Regno di Napoli e con calabresi.
Contrario alla tregua con gli Angioini firmata da Federico IV il 28 marzo 1363, Rosso fu messo da parte a favore di Manfredi Chiaromonte, nominato grande ammiraglio del Regno al suo posto. Quando poi il sovrano nominò governatore Chiaromonte per aver sbaragliato la guarnigione angioina che assediava la città, per Rosso fu ancora una volta una sconfitta: dichiarato ribelle, fu rimosso da ogni carica, compresa quella di cancelliere del Regno. La pace del 1372 tra Federico IV e Giovanna I di Napoli che concluse la novantennale guerra del Vespro, accontentò molti baroni ma «dispiacque ad altri» (Russo, 1967, p. 190), tra cui lo stesso Rosso.
Contratto dopo il 1372 un secondo matrimonio con Elisabetta Ventimiglia, figlia di Francesco (Cancila, 2016, p. 60), Rosso – intenzionato alla creazione di una zona di influenza con base a Messina e comprendente il distretto – nel dicembre 1374 occupò la città dello stretto, riuscendo a mantenerne il controllo per quasi due anni. Arrivò a impedire l’ingresso in città a Federico IV e alla moglie Antonia del Balzo, costretti a spostarsi a Reggio Calabria. Rosso li raggiunse con tre galee armate: la notte del 19 gennaio 1375, nel corso di una dura battaglia, la regina Antonia tentò di salvarsi buttandosi in mare. Ripescata dai marinai, fu colta da febbre violenta, forse pestilenziale, e morì; Federico IV in un’accorata lettera informò dell’accaduto la suocera Margherita, del ramo degli Angiò di Taranto (G.L. Barberi, I Capibrevi, a cura di G. Silvestri, 1985, pp. 270 s.; Anonimo, Historia Sicula, 1792, cap. 49). Il progetto del conte di Aidone fallì: privo del consenso dei ceti dirigenti e del popolo, Rosso fu condannato per tradimento e spogliato di tutti i beni, tra cui il castello di Castiglione con i ricchi oggetti ivi contenuti (Lanza di Scalea, 1890, pp. 59 s. e doc. 1, pp. 153-156; Sciascia,1993, pp. 200-203). Riuscì a ogni modo a ricomporre il suo rapporto con il sovrano e nel gennaio 1377 ricoprì nuovamente la carica di cancelliere (Marrone, 2005, p. 315).
Scomparso Federico IV nel maggio del 1377, nel primo periodo di regno dell’erede Maria, Rosso fu cancelliere del Regno ma inviso al gran giustiziere Artale Alagona cui il defunto re aveva affidato la tutela della figlia. Quando Alagona convocò a Caltanissetta un convegno che sancì il vicariato baronale, con cui quattro baroni si spartirono il governo dell’isola, gli esclusi reagirono. Il conte di Aidone si recò in Catalogna per convincere Pietro IV che la soluzione matrimoniale tra Maria e l’infante Martino, nipote del sovrano aragonese, era l’unica per prendere possesso del Regno di Sicilia (Russo, 1967, pp. 207 s.; Lo Forte Scirpo, 2005, p. 18). Accolto alla corte aragonese, fu colmato di onori in cambio di sostegno in Sicilia; nel giugno 1380 l’infante Martino gli donò i castelli e le terre di Barbagal, Pertusa, Bolea e Biel, che l’intraprendente conte tre anni dopo pensò di vendere; Martino si oppose e cercò di rientrare in possesso delle località comprese nella dote assegnata alla moglie Maria de Luna: risultato che ottenne solo dopo aver pagato a Rosso 16.800 fiorini d’oro (M.R. Lo Forte Scirpo, Documenti..., 2006, docc. 11, 94, 102, 129, 131). Trascorsi cinque anni in Catalogna, Rosso ritornò in Sicilia; dal 27 aprile 1385 risulta cancelliere del Regno, con l’opposizione di Giacomo Alagona che dovette cedere la carica (Marrone, 2005, p. 316).
Nel 1386, Enrico morì (Sciascia, 1993, p. 203; Sardina, 1984-1985, p. 296). Le vicende successive delle quali talvolta si considera protagonista il conte di Aidone riguardano il figlio omonimo Enrico.
Spirito «insofferente» e «incostante» (La Lumia, 1969, p. 125), oscillante tra i ‘partiti’ latino e catalano che si contesero il dominio sull’isola, e da essi talora utilizzato (è il caso dei Chiaromonte) in una cangiante trama di alleanze, Enrico pare sgusciare fuori da logiche di inquadramento politico definito: «cupido di personale possanza, ma più di novità e d’avventure» (p. 132), fu interessato piuttosto a giocare, nel vivace Trecento siciliano, un’ambiziosa e appariscente partita personale.
Fonti e Bibl.: Bartolomeo da Neocastro, Historia Sicula, in R. Gregorio, Bibliotheca scriptorum qui res in Sicilia gestas sub Aragonum Imperio retulere, I, Palermo 1791, p. 53; Anonimo, Historia Sicula, ibid., II, Palermo 1792, pp. 298 s.; G. Cosentino, Codice diplomatico di Federico III di Aragona re di Sicilia (1355-1377), I, Palermo 1885, passim; G. Travali, I diplomi angioini nell’Archivio di Stato di Palermo, Palermo 1885-1886, pp. XIV s.; A. Mango, Relazioni tra Federico III di Sicilia e Giovanna I di Napoli, Palermo 1915, doc. LXXIII, pp. 175-196; V. La Mantia, Codice diplomatico dei re aragonesi in Sicilia, I, Palermo 1917, p. 40; F. San Martino de Spucches, La storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia, V, Palermo 1927, p. 240; C. Giardina, Capitoli e privilegi di Messina, Palermo 1937, doc. XLIII, pp. 126-129; J. Zurita, Anales de la Corona de Aragón, IV, Zaragoza 1978, p. 647; Michele da Piazza, Cronaca (1336-1361), a cura di A. Giuffrida, Palermo 1980, ad ind.; G.L. Barberi, I Capibrevi, a cura di G. Silvestri, I, I feudi del Val di Noto, Palermo 1985, pp. 270 s.; M.R. Lo Forte Scirpo, Documenti sulle relazioni tra la Sicilia e l’Aragona (1379-1392), Palermo 2006, ad ind.; E. Mazzarese Fardella, Tabulario delle pergamene della Casa dei principi Moncada di Paternò, I (1194-1342), Palermo 2011, ad ind.; A. Marrone, Repertorio degli atti della Cancelleria del Regno di Sicilia (1282-1390), Palermo 2012, pp. 199, 204, 207, 212 s., 215 s., 223-225, 228 s., 233, 235 s., 242, 246, 251, 253-255, 272, 275 s., 287, 479, 488, 530, 558, 753, 762, 770, 772, 776, 803, 833.
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