RAMPINI, Enrico
RAMPINI, Enrico. – Nacque nel 1390 a Sant’Alosio (Castellania, Alessandria) presso Tortona, secondo dei cinque figli di Francesco, signore di Sant’Alosio.
La famiglia era legata da saldi vincoli ai Visconti; Urbano, primogenito di Francesco, fu commissario visconteo a Savona e nella Riviera di Ponente negli anni Trenta del Quattrocento. Rampini era probabilmente legato da rapporti di parentela con Marziano da Tortona, letterato e miniatore, precettore di Filippo Maria Visconti.
La sua carriera ecclesiastica fu rapida: già nel 1413 ottenne dall’antipapa Giovanni XXIII la nomina a vescovo di Tortona, negli stessi anni nei quali studiava teologia e diritto a Pavia (ove compare come suffraganeo del presule Pietro Grassi nel 1420). Non abbiamo tuttavia notizia del conseguimento del titolo dottorale.
In quegli anni, Rampini era vicino a un gruppo di prelati lombardi attivi nella riforma e nel riordinamento delle diverse diocesi della regione, e presenti ai concili di Costanza e Basilea: oltre a Grassi, il cardinale Branda Castiglioni, Bartolomeo Capra arcivescovo di Milano (e già vescovo di Cremona), Francesco Bossi vescovo di Como (morto a Basilea nel 1434), Gerardo Landriani già vescovo di Tortona e Lodi; e ancora Francesco Della Croce primicerio della cattedrale di Milano, Antonio Bernieri vicario generale di Milano e poi vescovo di Lodi, il chierico tortonese Antonio Pichetti. Con loro Rampini ebbe rapporti frequenti e condivise la volontà di risistemazione delle strutture diocesane, ispirata dal concilio ma anche dall’attività di Martino V ed Eugenio IV.
Rampini non fu a Costanza e Basilea, ma operò perché nella diocesi tortonese ne fossero attuate le deliberazioni. Tra le sue iniziative, vi fu la fondazione (1430) e la dotazione di una scuola di grammatica per l’istruzione dei chierici (ma il progetto fallì e nel 1450 Niccolò V soppresse la scuola); e inoltre la convocazione di un sinodo (nel 1435). Nello stesso anno 1435 fu traslato a Pavia, ove nel corso dello stesso anno, il Concilio di Basilea concesse ai canonici il privilegio di portare le almuzie. Qui ebbe come vicario generale Antonio Pichetti, già collaboratore a Tortona del Landriani.
La sua carriera ebbe una svolta decisiva nel 1442-43: fu infatti nominato nunzio apostolico nel Ducato di Milano (1442) e successivamente – in luogo del Landriani – legato apostolico (1° luglio 1443) nello Stato visconteo «et in nonnullis aliis partibus», nonché collettore apostolico di un sussidio contro gli infedeli. Poche settimane dopo (23 agosto 1443) fu promosso alla sede arcivescovile milanese (vacante da alcuni mesi per la morte del Pizolpasso [cf.]), e prese possesso della sede nel dicembre del 1443, confermando subito come vicario generale Pichetti (già attivo a Milano, tra il 1442 e il 1443, come ‘luogotenente’ di Antonio Zeno, vicario generale del Pizolpasso e vicario capitolare sede vacante). Altri collaboratori li scelse, nello stesso periodo, nel citato gruppo di chierici: il 21 agosto 1444, in vista di un soggiorno di sei mesi a Roma, affiancò Pichetti un secondo vicario generale, l’esperto e più autorevole Francesco Della Croce, a sua volta già vicario del Pizolpasso e capace di mediare tra le istanze del nuovo presule e l’establishment della Chiesa ambrosiana; il 13 gennaio 1444 nominò luogotenente Bernieri, vescovo di Lodi, anch’egli in precedenza attivo a lungo a Milano come vicario di Capra. Negli anni successivi Rampini dovette di nuovo e a lungo (tra l’8 gennaio 1446 e il 14 febbraio 1448) assentarsi per i suoi impegni di legato: sì che l’ordinaria amministrazione della diocesi fu quasi del tutto delegata ai vicari generali (riservandosi però il vescovo la gestione dei beni temporali e la materia beneficiaria). Dopo il secondo rientro in diocesi, tuttavia, Rampini revocò la nomina di Della Croce e mantenne in carica Pichetti, più adatto – per il suo profilo più modesto, nettamente inferiore a quello di Della Croce – a un ruolo di funzionario posto al vertice di un apparato meramente burocratico, visto che ora operava un vescovo pronto ad assumere personalmente il ruolo politico che competeva ai presuli quattrocenteschi.
L’entourage di Rampini (che nel 1444 risulta risiedere a porta Nuova, nella parrocchia di S. Silvestro, ma nel 1445 e 1448 ha casa, luogo per le udienze e cancelleria presso la canonica di S. Stefano in Brolo, ove vive anche Pichetti) è ben ricostruibile. Ne facevano parte anche il notaio Giovanni Battista Daverio (già al servizio del fratello Urbano a Savona dal 1430 al 1433, poi cancelliere di Rampini a Pavia dal 1440 al 1442 e a Milano dal dicembre 1443 al 1450) e Bernardo Del Carretto, abate di S. Quintino di Spigno nella diocesi di Savona (che compare a Milano nel 1448 in concomitanza con il ritorno dell’arcivescovo, con la qualifica di uditore del cardinale con pieni poteri riguardo alle cose della legazione). Conosciamo poi il nome di un chierico dell’arcivescovo, Giovanni Spinola, figlio dello spettabile Galeotto da Tassarolo; e inoltre quattro cittadini pavesi che ricevettero il 14 luglio 1445 una procura generale da Rampini: due ecclesiastici (i canonici di S. Michele di Pavia Gabriele da Oltrona e Giovanni Antonio Zagani) e due laici (i causidici Agostino Baracchi e Antonio Preottoni). Sono inoltre noti coloro che gestirono i temporalia della diocesi milanese in occasione dei soggiorni romani di Rampini: Ludovico Sabini (già maestro delle entrate ducali viscontee) e Marziano Buccarini (preposito di S. Maria de Canalibus e dal 1448 vescovo di Bobbio), nunzi e procuratori in temporalibus rispettivamente dal novembre del 1444 e dall’8 gennaio 1446. Compiti più specifici ebbero, infine, Lorenzo Colombi, canonico di S. Lorenzo di Voghera, incaricato della riscossione dei redditi competenti alla mensa arcivescovile nell’area di Bellano, e Cristoforo Guazzoni, figlio di Michelolo e abitante a Milano, titolare di analoga procura per la zona di Teglio.
Nel governo della diocesi, Rampini dovette occuparsi ripetutamente dei monasteri femminili. Gestì infatti una lunga vertenza relativa alla difficile convivenza, nel monastero femminile di S. Maria di Vedano, tra le umiliate e un gruppo di clarisse, ivi installatosi nel 1428. Eugenio IV aveva inizialmente incaricato (bolla del 15 gennaio 1445) il primicerio e vicario generale Della Croce di restituire alla priora umiliata l’autorità a lei usurpata, e di ordinare alle sorores decise ad adottare la regola di s. Chiara l’abbandono del monastero; ma pochi mesi dopo, forse in seguito a una istanza promossa in Curia dalle clarisse, il pontefice mutò orientamento e ordinò a Rampini di costituire in S. Maria due comunità monastiche indipendenti, l’una a regola agostiniana e l’altra a regola francescana (e soggetta ai francescani osservanti di S. Angelo). Nel 1449 sorse tra le due comunità una nuova vertenza, a riguardo di una donazione di Antonia Visconti vedova del Carmagnola, e nell’occasione Rampini fu accusato da Della Croce di parteggiare per le clarisse. Già nel 1444, inoltre, Rampini aveva manifestato la volontà di riformare la scandalosa condotta delle monache benedettine del monastero Maggiore di Milano (ormai scarse di numero); vi chiamò un certo numero di suore agostiniane dal monastero di Cantalupo, ottenendo infine (nel 1447) l’accettazione della clausura da parte delle monache del monastero Maggiore (rimasto comunque benedettino). Tra i meriti maggiori di Rampini va poi annoverato l’impulso iniziale impresso alla riforma dell’assistenza ospedaliera che culminò nell’istituzione dell’ospedale Maggiore di Milano.
La crisi delle strutture ospedaliere milanesi – segnate da abusi costanti nell’amministrazione dei beni destinati ad usum pauperum e da una complessiva inefficienza – si era fatta particolarmente drammatica nel corso degli anni Quaranta, in seguito alle vicende belliche e al moltiplicarsi della presenza di poveri. Un primo tentativo di soluzione si ebbe nel 1445, probabilmente per iniziativa del duca Filippo Maria, con la nomina d’autorità apostolica di Beltrame Correnti, abate del monastero di S. Celso, a «corrector et reformator omnium et singulorum hospitalium et piorum locorum» nel dominio. Seguì poi nel 1447, in una situazione economicamente e politicamente difficile e sotto la pressione delle masse di profughi in fuga dalle campagne, l’emanazione da parte della neonata Repubblica Ambrosiana di un provvedimento «pro hospitalibus et pauperibus alogiandis» e la creazione di una nuova magistratura, i deputati sopra le provvisioni dei poveri, con l’obiettivo di istituire il controllo dell’autorità civile sull’amministrazione ospedaliera. A tale ingerenza nelle tradizionali prerogative della Chiesa in ambito assistenziale Rampini (da poco rientrato a Milano) reagì con un decreto (del 9 marzo 1448) che recepiva la necessità di una compresenza di elementi laici ed ecclesiastici nella gestione dell’assistenza, cui seguì un nuovo intervento normativo il 27 aprile successivo. La riforma di Rampini stabiliva l’elezione di 24 deputati di nomina arcivescovile – scelti all’interno di una rosa di 48 nomi proposti ogni anno da una commissione presieduta dal vicario arcivescovile e composta da due persone designate dal vicario e dai Dodici di provvisione e due rappresentanti delle Scholae milanesi – con il compito di amministrare direttamente i redditi degli enti ospedalieri (fatta salva una quota destinata al mantenimento dei ministri e dei loro familiares). I deputati iniziarono la propria attività con una prima adunanza il 28 marzo 1448, per riunirsi poi pressoché regolarmente fino al 25 ottobre 1450. Dopo l’ascesa al potere di Francesco Sforza e la morte dell’arcivescovo, le riunioni della «commissione Rampini» si fecero irregolari, fino a essere sospese del tutto nel marzo 1452.
Frattanto il concistoro del 16 dicembre 1446 aveva elevato Rampini alla porpora con il titolo di cardinale presbitero di S. Clemente. In tali vesti egli partecipò nel 1447 al conclave che elesse papa Nicolò V (che gli rinnovò la nomina a legato pontificio nel dominio milanese). Negli anni successivi Rampini alternò soggiorni a Milano e periodi trascorsi in Curia; risulta, per esempio, presente a Roma il 12 febbraio 1448 e il 4 aprile 1449. Il 5 giugno 1448 rinunciò alla commenda del monastero cistercense di S. Maria di Monte Oliveto ad Acquafredda (Lenno, Como); nel 1449 sostenne con i propri beni la cittadinanza milanese colpita da una grave carestia.
Morì a Roma il 4 luglio 1450 e fu sepolto nella basilica di S. Clemente, chiesa di cui era titolare.
La lapide che orna il suo sepolcro ne ricorda l’età, sessant’anni, ne ricostruisce la carriera e ne loda la sapienza, la giustizia, l’onestà e la castità.
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