LOFFREDO, Enrico
Nacque a Napoli nel 1507, da Francesco, presidente del Regio Consiglio, e da Beatrice, appartenente a un ramo non precisato dei Caracciolo.
Lo zio, da identificare con ogni probabilità in Sigismondo Loffredo, fu noto giurista del Regno: dal 1512 presidente della Regia Camera della Sommaria, nel 1517 promosso alla carica di reggente della Cancelleria napoletana. Si ha notizia di due fratelli del L., Pirro e, soprattutto, Ferdinando (Ferrante), governatore di Otranto.
Poco o niente si conosce della sua formazione e della sua prima giovinezza; comunque i legami di parentela e la dimestichezza con il cardinal Cristoforo Madruzzo, vescovo di Trento, gli valsero all'età di soli ventiquattro anni, il 18 dic. 1531, la mitra episcopale della diocesi meridionale di Capaccio, resignatagli dallo zio materno Tommaso Caracciolo. La consacrazione avvenne dietro presentazione regia e con il consenso del papa Clemente VII, il quale, dopo avergli concesso una dispensa sia per l'età sia, a quanto sembra, per una presunta irregolarità dei natali, confermò la designazione il 5 genn. 1532. Dopo circa tredici anni di cura pastorale della Chiesa di Capaccio (verosimilmente per larghi tratti affidata ad Alberico Giaquinto, suo vicario generale), il 20 apr. 1545 il L. fu scelto dal viceré di Napoli come uno dei quattro vescovi di fiducia che avrebbero dovuto tutelare gli interessi del Regno nel concilio da poco convocato a Trento. Egli, insieme con Giovanni Salazar, Giovanni Fonseca e Coriolano Martirano, vescovi rispettivamente di Lanciano, di Castellammare e di S. Marco, avrebbe rappresentato tutto il corpo episcopale meridionale, grazie al meccanismo delle procure.
Il viceré, in realtà, corrispose a una richiesta di sostituzione comunicatagli, il 27 marzo precedente, da Antonio Lunello, arcivescovo di Gaeta, originariamente designato per questo compito. Anche se Roma il 17 aprile aveva sancito l'obbligo della presenza personale dei vescovi e negato valore alle deleghe, numerosi presuli rilasciarono ugualmente una procura, accettata dalla Curia come una semplice giustificazione di assenza fisica.
Quando il L. giunse a Trento il 3 giugno 1545, tra i primi prelati in assoluto, insieme con Salazar e Fonseca, rappresentava quindi anche suo zio Tommaso Caracciolo, Marco Antonio Falconi, Giovan Francesco Mirto e Silverio Petrucci. Durante l'estate e l'autunno successivi, prima che l'assemblea conciliare si inaugurasse, egli partecipò attivamente alle cerimonie liturgiche e alle discussioni tra i padri già convenuti, dimostrando familiarità particolare con Giovanni Tommaso Sanfelice, vescovo di Cava. All'inizio di agosto rifiutò la proposta avanzata da alcuni vescovi di partire da Trento a causa dei ritardi nell'inizio dei lavori, se prima non si fossero interpellati i cardinali legati e l'ambasciatore imperiale. Il 25 novembre partecipò a un incontro tra i legati e alcuni presuli spagnoli e regnicoli, durante il quale perorò la richiesta di impedire la partenza dei due vescovi francesi, che avrebbe ulteriormente procrastinato l'inizio dei lavori, e, soprattutto, avrebbe rischiato di compromettere la pace tra Francesco I e Carlo V.
Fin dal 13 dic. 1545 fu presente alle discussioni assembleari, distinguendosi da subito come uno dei principali esponenti del gruppo imperiale e di opposizione al partito curial-pontificio, sostenendo una riforma radicale della Curia romana.
A partire dal 7 genn. 1546 il L. si schierò su posizioni conciliariste riproponendo di frequente la definizione del concilio come "universalem Ecclesiam repraesentans" direttamente ripresa dai testi di Costanza e di Basilea. Sempre in questa ottica, il 29 gennaio il L. richiese che le lettere da spedire ai principi secolari perché questi aderissero al concilio fossero firmate da tutti i padri tridentini, e non soltanto dai tre legati papali Marcello Cervini, Giovanni Maria Del Monte e Reginald Pole.
Il 18 gennaio il cardinal Madruzzo, dietro richiesta del L., aveva proposto che si rinnovasse l'invito ai protestanti a partecipare al concilio, in modo sia da favorire le istanze imperiali di pacificazione religiosa sia da avvalorare il significato di rappresentanza universale della Chiesa da parte dell'assemblea tridentina. Nello stesso giorno e il 22 gennaio il L. fu al fianco di Madruzzo, vescovo e cardinale ospitante, nella proposta di un programma di lavori nel quale la questione della riforma della Chiesa avrebbe dovuto precedere le discussioni dottrinali, in modo non solo da evitare una contrapposizione con i protestanti, ma anche allo scopo di privare di incisività i loro argomenti polemici. Addirittura, secondo i pareri del legato Cervini e del segretario Angelo Massarelli - che nel suo diario definì il L. "poco affettionato a Sede Apostolica" e "persona vana e superba, di poche lettere e di giuditio irregulato" (Concilii Tridentini actorum pars prima, I, p. 383) -, egli avrebbe direttamente ispirato queste richieste del vescovo di Trento. Il 26 gennaio, giorno in cui i padri conciliari si divisero in tre classi parallele per dibattere i problemi separatamente, il L. fu inserito nel gruppo presieduto dal cardinal legato Pole.
Nelle discussioni relative al canone delle Sacre Scritture e alla tradizione, intervenne in due occasioni, il 15 e il 26 febbraio, avallando la critica di Iacopo Nacchianti all'accettazione dell'elenco ufficiale stabilito dal concilio fiorentino, mentre più tardi, al momento della sessione (8 aprile), accettò senza riserve l'equiparazione tra Scritture e tradizioni orali custodite dalla Chiesa. Era invece più differenziata la sua posizione in relazione a quattro abusi concernenti l'impiego delle Scritture, formulata il 17 marzo. In particolare, il 3 aprile, durante una discussione tra i due cardinali imperiali Madruzzo e Pedro Pacheco in merito alle traduzioni della Bibbia, egli si schierò con il primo, sostenendo che le traduzioni in volgare del testo sacro dovessero essere autorizzate. Nello stesso giorno si espresse perché la censura preventiva delle diverse edizioni dei libri sacri fosse affidata congiuntamente agli ordinari e agli inquisitori delegati dal papa, mentre il 1° aprile aveva asserito che la licenza di stampa dovesse essere rilasciata sia dal pontefice sia dal Collegio cardinalizio. Durante il periodo successivo il L. praticamente evitò di esprimersi sulla questione dogmatica del peccato originale, rimettendosi ai pareri dei teologi e associandosi alle posizioni dei più autorevoli prelati imperiali, in particolare di Pacheco, mentre fu intensa la sua partecipazione ai dibattiti su predicazione e studi biblici, evocati nelle discussioni già a partire dal 5 aprile.
In particolare, in una serie di interventi - svolti il 15 aprile, il 10, 18, 20 e 21 maggio e il 16 giugno - il L. elaborò le sue posizioni specifiche, secondo cui le lezioni di teologia per il clero, incentrate sulle Sacre Scritture, dovevano essere garantite non solo in ogni sede episcopale, ma in ogni città, assicurando ai lettori una prebenda sicura e sufficiente. Sostenne con energia anche il dovere di predicazione dei vescovi, ma soprattutto attaccò i privilegi e le esenzioni dei regolari nei confronti dell'autorità episcopale, sostenendo che la licenza di predicazione, di competenza solo degli ordinari, e non anche dei parroci, dovesse interessare anche le chiese conventuali. Soprattutto, fin da questo periodo (21 maggio), cercò di connettere la questione della predicazione con una discussione più ampia e approfondita sulla residenza episcopale e sugli obblighi di cura pastorale del clero secolare: temi particolarmente aborriti dalla Curia, che, temendo critiche alla prassi del conferimento dei benefici e agli impedimenti causati dal funzionamento dei suoi organismi burocratici e amministrativi, tendeva a considerare il problema solo in rapporto alla disciplina episcopale. Il 9 giugno il L. parlò espressamente di diritto divino alla residenza e della conseguente impossibilità di dispensare su queste materie, e asserì che la pena per i vescovi inadempienti doveva essere emanata dai concili provinciali. Il giorno successivo accettò che ogni decisione in proposito venisse rimandata solo perché non ci sarebbe stato il tempo sufficiente per analizzare a fondo gli impedimenta. Il 10 maggio il L. era intervenuto in un litigio tra Madruzzo e Del Monte, domandando come i padri potessero formulare le loro proposte nell'assemblea e cercando di criticare in questo modo il diritto esclusivo di proposta dei legati.
Il 17 e il 28 luglio il L. intervenne in favore del già ricordato Sanfelice, vescovo di Cava, che era stato scomunicato e imprigionato in seguito a un litigio con il vescovo di Mylopotamos e Cheronissa (diocesi dell'isola di Creta), Dionisio Zannettini (o Zanettini), detto il Grechetto, e convinse quest'ultimo a chiedere clemenza per lui. Nello stesso giorno si espresse contro la traslazione del concilio, mentre il 1° ottobre asserì che un cambiamento di sede sarebbe stato accettabile solo dopo la definizione dei principali decreti in materia disciplinare e dogmatica.
Prese parte attiva alla discussione sul dogma della giustificazione (sedute del 6, 7, 15, 19, 24 e 28 luglio; del 3, 13 e 17 agosto; del 1° e del 6 ottobre; del 10 novembre e infine del 6, 13, 15, e 29 dicembre) sviluppando sempre osservazioni puntuali e promuovendo l'approfondimento di singoli punti al fine di rimandare il più possibile decisioni definitive in materia. Il 6 ottobre dichiarò esplicitamente che la promulgazione del decreto presupponeva la presenza di un maggior numero di vescovi, auspicando l'arrivo dei delegati tedeschi. Le sue asserzioni più rilevanti comunque, analogamente a quelle dei prelati spagnoli, si appuntarono sulla necessità di condannare nella maniera più netta le dottrine maggiormente compromesse con la teologia protestante, specificamente la doppia giustificazione e la certezza dello stato di grazia. Sullo scorcio dell'anno, comunque, in particolare il 10 novembre e il 15 e 29 dicembre, il L. ripropose la priorità delle questioni di riforma disciplinare. Nel corso di questi interventi, come nei dibattiti dell'8, 12 e 13 genn. 1547, pose di nuovo l'accento sull'esigenza di affrontare adeguatamente gli impedimenti alla residenza episcopale derivanti dalla prassi curiale, e soprattutto il cumulo dei benefici e il conferimento di vescovadi ai cardinali. Dichiarò che prima di affrontare la questione delle sanzioni si dovesse proclamare il diritto divino di risiedere, limitando la concessione di dispense papali a poche giuste cause, e favorire l'obbligo della cura d'anime anche per i parroci. Il L. tornò su questi argomenti anche dopo la promulgazione di un primo decreto sulla residenza, le cui votazioni avevano palesato ampi margini di insoddisfazione tra i padri, nei dibattiti del 14 e 19 gennaio e in quelli del 3, 8 e 10 febbraio, in prevalenza dedicati agli abusi dei sacramenti. In particolare, all'inizio di febbraio, prima egli si oppose alle affermazioni di alcuni prelati curiali, che ponevano in dubbio la competenza del concilio sulla riforma delle istituzioni ecclesiastiche, poi dovette scusarsi formalmente di fronte ai legati per avere definito i nuovi canoni sulla residenza "sophisticos", ribadendo comunque che secondo lui risultavano ambigui e poco chiari.
Il 23 febbraio partecipò per l'ultima volta alle attività conciliari, presenziando alla funzione delle ceneri. Subito dopo si ammalò di tifo petecchiale e morì a Trento il 6 marzo 1547; il giorno dopo, compiute le esequie funebri, il suo corpo fu deposto nella chiesa cattedrale.
Nella congregazione generale del 9 marzo e nella sessione celebrata due giorni dopo, la malattia e il decesso del L. costituirono le giustificazioni decisive addotte dal partito curiale per trasferire il concilio a Bologna.
Secondo G.B. Alberti, segretario di Madruzzo, il L. aveva composto un diario in cui rendeva conto della sua esperienza personale e della sua partecipazione al concilio, verosimilmente portato a Napoli dopo la sua morte, e poi smarrito. Un'ipotesi plausibile è che questa relazione sia stata letta e utilizzata dal vallone Laurent Prée, familiare di Madruzzo, che subito dopo il trasferimento del concilio compilò un suo Epilogus (Concilii Tridentini actorum pars altera, V, pp. 365-395). Indizi in questo senso possono scorgersi nel punto di vista imperiale e nella spiccata attenzione alla dimensione politica, contenuti nell'Epilogus, nei continui riferimenti apologetici a Madruzzo, e, infine, nel fatto che questo resoconto si dilunghi su episodi che Prée non visse mai in prima persona.
Fonti e Bibl.: Concilii Tridentini actorum…, a cura della Societas Goerresiana, I, Friburgi Brisgoviae 1901; II, ibid. 1911; V, ibid. 1911; X, ibid. 1915; XI, ibid. 1937, ad indices; F. Ughelli - N. Coleti, Italia sacra…, VII, Venetiis 1721, pp. 474 s.; H. Jedin, Il diario del concilio andato perduto, in Concilio di Trento, II (1943), pp. 147-149; G. Alberigo, Cataloghi dei partecipanti al concilio di Trento editi durante il medesimo, Roma 1956; Id., I vescovi italiani al concilio di Trento(1545-1547), Firenze 1959, ad ind.; H. Jedin, Storia del concilio di Trento, II, Brescia 1974, ad ind.; Hierarchia catholica, III, p. 152.