Enrico Finzi
Civilista raffinato e rigoroso, Enrico Finzi è stato un interprete originale delle esigenze di rinnovamento dogmatico emerse anche in Italia nel primo cinquantennio del Novecento. Il suo itinerario scientifico si snoda intorno a pochi, densissimi, contributi che, pur essendo dedicati ad argomenti diversi, esprimono un'identica predilezione per gli osservatori irrituali, quelli, cioè, il più delle volte negletti o rifiutati dalla giuristica coeva ma attraverso i quali, secondo Finzi, diventava possibile sia interrogarsi sulle effettive attitudini regolative dell’ordinamento esistente, sia restituire al fenomeno giuridico la sua identità autentica di «formazione storica» (Il possesso dei diritti, 1915, rist. 1968, p. 351), necessariamente sensibile, in quanto tale, al mutare dei tempi.
Nato a Mantova l'8 novembre 1884, Finzi nel 1907 si laureò in giurisprudenza nell’ateneo bolognese, dove incontrò Giacomo Venezian che, pur non essendo stato suo relatore di tesi, ne segnò a fondo la personalità scientifica. A catturare l’interesse di Finzi furono specialmente gli studi veneziani in tema di apparenza giuridica, studi che non segnalavano tanto l’esigenza di abbattere l’intero ideario corrente, quanto di arricchirne i contorni ancorando la perdurante centralità di alcune nozioni – come quella di certezza del diritto – a valori ulteriori (l’affidamento, la sicurezza nella circolazione ecc.) rispetto a quelli strettamente formali (Il possesso, cit., p. 169; cfr. Grossi 2008, p. 19, testo dal quale sono tratte molte delle notizie qui riportate).
Ma non meno rilevanti furono, per la formazione di Finzi, altri incontri culturali sui quali, ugualmente, ha più volte richiamato l’attenzione Paolo Grossi. Fu infatti Firenze la città nella quale Finzi visse ininterrottamente dagli anni Dieci del Novecento fino alla morte, avvenuta nel gennaio1973, e nella quale si svolse la sua attività di avvocato e la sua intera carriera accademica, fatta eccezione per la libera docenza in diritto civile, conseguita a Bologna nel 1915.
E la Firenze primonovecentesca, fu, come noto, un'importante fucina per quei movimenti – dal futurismo al nazionalismo – che espressero, con toni provocatori e spesso iconoclasti, un'imponente esigenza di rinnovamento della cultura e, più in generale, della vita e della mentalità italiane. All’origine di solide amicizie – come quella con Enrico Corradini –, la frequentazione dei nuovi e irriverenti cenacoli culturali non impedì a Finzi di stringere sodalizi personali e professionali anche con diverse sensibilità intellettuali. Anzitutto il legame con Piero Calamandrei, che ebbe collega dapprima nello studio legale Lessona e poi nella facoltà di Giurisprudenza, ma con il quale condivise, insieme a Gaetano Salvemini, Ludovico Limentani, Giorgio Pasquali e Arrigo Serpieri, anche la giovanile esperienza di un circolo di studi, quello che, come scriverà in seguito lo steso Finzi (Piero Calamandrei avvocato, «Rivista del diritto commerciale», 1957, p. 306), «diede vita al Non mollare», uno dei primi fogli clandestini dell’antifascismo italiano, e all’interno del quale fu discusso coralmente il volume Università di domani, poi «elaborato genialmente e dottamente da Pasquali e da Calamandrei» (p. 306) e dato alle stampe nel 1923.
Sempre a Firenze, Finzi ebbe poi occasione di entrare in contatto con l’impianto metodologico di Giovanni Vailati e Mario Calderoni: frequentemente da lui citati nei lavori giovanili – a Calderoni dedicò anche la prima monografia, Il possesso –, questi due intellettuali, esponenti della «coiné pragmatista», influenzarono profondamente Finzi con il loro tentativo di
instaurare un sapere positivo mediante l’analisi tecnica ed antiretorica del pensiero e soprattutto del linguaggio […] chiarificando al massimo i termini impiegati nella ricerca (Grossi 2008, p. 22).
Proprio la centralità riconosciuta alla questione del linguaggio costituirà una parte importante della riflessione finziana, perché a essere posta, attraverso la asserita necessità di un uso più rigoroso e consapevole del linguaggio giuridico, non fu una mera questione di stile, ma una decisiva questione di metodo. E se ancora nel 1928 troviamo un Finzi intento a «spigola[re]» le disposizioni preliminari del progetto di codice di commercio e a saggiare «la rispondenza tra la formula impiegata e l’intento dei compilatori» (Le disposizioni preliminari del codice di commercio nel progetto della commissione reale, «Rivista del diritto commerciale», 1928, p. 3 dell'estratto), non deve stupire che i riferimenti al linguaggio siano particolarmente insistiti nelle sue opere giovanili: da Le teorie degli istituti giuridici («Rivista critica di scienze sociali», 1914), il suo primo articolo interamente dedicato a distinguere fenomeni diversi, pur se chiamati con lo stesso nome – gli istituti giuridici risultanti dall’«insieme delle disposizioni [legislative] che trattano una stessa materia» e le teorie degli istituti giuridici viceversa costruite dalla scientia iuris (p. 4 dell'estratto) –, fino ad arrivare alle sue due monografie, Il possesso e Studi sulle nullità del negozio giuridico (1920), nelle quali fu ugualmente centrale l’esigenza di rivedere il significato comunemente attribuito ad alcuni termini giuridici.
Anche quello del linguaggio costituiva infatti un osservatorio irrituale, che permetteva a Finzi di coniugare la denuncia delle imperfezioni terminologiche, e quindi concettuali, riscontrabili nel tessuto legislativo come nel discorso scientifico, con la contemporanea prefigurazione delle condizioni che avrebbero potuto rendere proficuo il dialogo tra legge e scienza. E si trattava di un dialogo che, per potersi realizzare, non richiedeva l’abbattimento dell’intero patrimonio ermeneutico e normativo accumulato, ma semmai un'attenta verifica dei risultati raggiunti che permettesse di rilevare, accanto ai rami secchi, anche i «germi», consapevoli o inconsapevoli, degli sviluppi futuri (Il possesso, cit., p. 50).
Non fu, questa, una cautela dettata da semplici ragioni di opportunità o da una personale avversione ai toni eccessivi; non mancano infatti negli scritti di Finzi ferme parole di condanna per un certo modo, «pecorile» (p. 410) di fare scienza o per un altrettanto censurabile modo di fare le leggi, spesso troppo docili nel raccogliere, senza adeguati filtri, la voce estemporanea della politica (p. 41; Le moderne trasformazioni del diritto di proprietà, «Archivio giuridico», 1923, p. 63 dell'estratto).
Dietro l'insofferenza finziana per le scorciatoie liquidatorie che sembravano sedurre parte dei giuristi a lui contemporanei, stava piuttosto l’idea che il diritto riuscisse a progredire solo se capace di custodire un’altra tensione salutare, quella tra passato, presente e futuro, perché era all’interno di essa che diventava possibile immaginare le condizioni del rapporto tra diritto positivo e scienza e che diventava possibile, soprattutto, ripensare il ruolo della scienza giuridica. In questo senso va spiegata la stessa imponente ricognizione effettuata da Finzi dei risultati raggiunti dalla riflessione giuridica italiana e straniera sui temi oggetto delle sue monografie.
Non si trattava soltanto, come pure sembrò a qualcuno (così la recensione di Mario Ghiron a Il possesso, su cui cfr. Grossi 2008, p. 32), di dimostrare una conoscenza approfondita della letteratura in materia, quanto di dar corpo alla convinzione che passato, presente e futuro fossero le dimensioni parimenti necessarie a formare l’abito mentale del giurista: sospesa tra «osservazione» e costruzione, tra la sua «innata miopia» e un indispensabile «intuito dell’avvenire» (Verso un nuovo diritto del commercio, «Archivio di studi corporativi», 1933, pp. 206, 204), la scienza giuridica, una scienza consapevole del proprio ruolo e della propria funzione, appare a Finzi, dagli scritti giovanili a quelli della maturità, una voce decisiva per promuovere la centralità dello strumento giuridico, della sua inabdicabile funzione di giustizia e per promuoverla anche dinanzi ad alcune autorevoli posizioni – come testimoniava l’espresso richiamo a Benedetto Croce – orientate a misconoscere la peculiarità, e la peculiare utilità, delle regole giuridiche (Il possesso, cit., p. 49).
Furono essenzialmente due – lo si diceva all’inizio – i fronti che per Finzi avrebbero dovuto impegnare il pensiero giuridico, un pensiero che doveva, in primo luogo, frugare tra le pieghe dell’ordinamento giuridico positivo alla ricerca di indici capaci di incrementarne la capienza regolativa senza subire, in questa ricerca, il peso di «schemi» soverchiamente «astratti» (Studi sulle nullità, cit., p. 2), più intenti a celebrare l’autoreferenzialità della logica giuridica che a valorizzare il ruolo ordinante del diritto. Ed è proprio in questo solco concettuale che nascono le citate monografie finziane; l’esigenza, espressa in Il possesso, di formulare una «teoria generale […] idonea a raccogliere ogni specie di possesso sotto un concetto diverso dal tradizionale» (p. 52), portava infatti Finzi in contatto con «quella gran massa di rapporti» caratterizzati «dall’analogia, dalla corrispondenza con un dato rapporto giuridico» «perfett[o]» (p. 204), sebbene privi dei requisiti di forma – i «possessi legalmente di fatto» (p. 273) – o di sostanza – i «possessi formali di diritti» (p. 266) – richiesti dal diritto oggettivo. Possesso dunque non come relazione tra il soggetto e la cosa, ma come osservatorio capace di portare allo scoperto quella zona, estesissima, di ordinamento abitata da rapporti, già fino in fondo giuridici, ma ancora non adeguatamente colti e inquadrati in questa loro essenziale veste generale.
Né molto diversa fu l’impostazione con la quale Finzi affrontò qualche anno dopo gli Studi sulle nullità. Al centro della sua attenzione, in questo caso, una disposizione apparentemente marginale, quella dell’art. 1311 del codice civile, che sanciva l’impossibilità per gli eredi o aventi causa del donante o del testatore di far valere, «dopo la morte di lui», il difetto di forma di una donazione o disposizione testamentaria cui avessero dato volontaria esecuzione. Dinanzi a una norma correntemente tacciata di contraddittorietà, intenta, com'era, a salvare gli effetti di atti che, in quanto privi della forma richiesta ad substantiam, si sarebbero dovuti considerare, a dire di molti giuristi, inesistenti, Finzi invitava i giuristi stessi a chiedersi se non fosse la categoria dell'inefficacia quella più appropriata per comprendere la fattispecie in questione, in modo da vedere in essa il regolamento giuridico relativo a una manifestazione di volontà, appunto inefficace per difetto di forma, ma suscettibile di conquistare i suoi effetti attraverso canali diversi e ulteriori – nel caso specifico: la ratifica o l’esecuzione volontaria – rispetto a quelli strettamente formali.
Il richiamo alle teorie della nullità e alla dimensione possessoria dei diritti diventava dunque il varco a partire dal quale rilevare uno «sdopppiamento» del diritto oggettivo che portava a scorgere
accanto e sotto ad un ordinamento giuridico perfetto, formalistico, solenne, saldo e certo […] un diverso ordinamento giuridico improntato all’equità, alla materialità, all’empirismo: snello, flessibile, mutevole. I rapporti che il primo rifiuta, rientrano nel secondo, e restano perciò sempre nel campo della legge, sotto il controllo e la guida dello Stato (Il possesso, cit., p. 27).
Quella dell’efficacia diventava così, nel pensiero di Finzi, una categoria concettuale strettamente legata al problema dell'efficienza del diritto, della capacità che il diritto doveva saper dimostrare nell’accogliere all’interno del proprio spettro regolativo quanti più rapporti possibili. Spettava soprattutto alla scienza di cogliere questi nessi e queste implicazioni attraverso un lavoro non alternativo a quello del legislatore, ma di certo non ancillare. Il diritto oggettivo restava sì, secondo Finzi, un'indispensabile cornice di riferimento per il pensiero giuridico. Tuttavia, a risultare dalle sue pagine non fu l’impossibile tentativo di coniugare un rinnovato e auspicato protagonismo del pensiero giuridico con «forme [ancora] troppo legali», per riprendere il rilievo fatto nel 1968 da Salvatore Romano nell'introduzione alla ristampa de Il possesso (p. VI). A risultare dalla penna di Finzi fu piuttosto l’esigenza di mettere in (salutare) tensione aspetti ritenuti ugualmente essenziali a un ordinato sviluppo della dinamica giuridica.
Che il diritto si nutrisse di leggi, secondo Finzi, era inevitabile, com'era inevitabile che il diritto positivo desse spazio alle forme; più che inevitabile: era utile. Il formalismo – dice Finzi – non era altro che «l’espressione tipica della tecnicità del diritto» (ll possesso, cit., p. 351), e le forme svolgevano anch’esse un'irrinunciabile funzione di giustizia, garantendo ai rapporti giuridici certezza e «rapida attuazione». L’importante era che la «legalità offr[isse] alla giustizia il mezzo per reagire ai suoi eccessi, il temperamento alle sue crudezze» (p. 350); l’importante, insomma, era non dimenticare che il diritto «anche e sopra tutto ha uno scopo sostanziale», rispetto al quale la forma doveva presentarsi, come semplice «mezzo e strumento» (p. 351).
Strumento del diritto, le forme, e strumentale lo stesso ruolo del pensiero giuridico, chiamato non solo a guardare in controluce il diritto oggettivo, ma anche – ecco il secondo fronte cui si accennava in apertura – a offrire adeguata traduzione dogmatica ai cambiamenti imposti dall'evoluzione storica. Senza che questo, ancora una volta, postulasse l’integrale abbattimento del passato. Perché infatti il passato, figlio esso stesso del proprio tempo, mostrava di aver elaborato soluzioni dettate dalle urgenze del proprio presente, ma anche, e contemporaneamente, di aver consegnato all’oggi alcune irrevocabili conquiste di civiltà.
Fu soprattutto quello della proprietà il tema incaricato di restituire questa tensione, necessaria e vitale, tra passato e futuro: se infatti a essere emerso, a partire dalla Prima guerra mondiale, era il volto di uno Stato interessato a «controllare l’impiego che della cosa» produttiva faceva il privato (Le moderne trasformazioni, cit., p. 59), si doveva riuscire a non disperdere quel legame tra proprietà e libertà che costituiva un’acquisizione importante della modernità, senza tuttavia continuare a celebrare, al modo di tanta giuristica coeva, i vantaggi di quell’«individualismo assoluto», potestativo, che viceversa appariva a Finzi come l’eredità più caduca del passato ottocentesco (p. 55). Compito non facile, sostiene negli anni Venti il Finzi di Le moderne trasformazioni, lucidissimo nel leggere il mutamento in corso; compito possibile, sostiene Finzi un decennio più tardi in Verso un nuovo diritto e in Diritto di proprietà e disciplina della produzione (1936).
È la cosa, in questo caso, l’osservatorio irrituale che permette a Finzi di coniugare posizioni apparentemente inconciliabili: vedere nella cosa una realtà economicamente rilevante gli consentiva infatti di porre al centro della sua concezione del dominio il nuovo e rilevante interesse della produzione e di vedere in esso un indispensabile momento di mediazione tra vincoli pubblicistici e iniziativa individuale.
Certo, la proprietà guardata a partire dalle cose era una proprietà tenuta a scendere dall’antico piedistallo, era una proprietà scandalosamente avvicinata alle molte e «varie forme concrete di godimento effettivo» dei beni (Diritto di proprietà, cit., p. 166) nel segno di un rinnovato primato dell’«appartenenza economica» (p. 177); non solo: era una proprietà innervata di doveri (produttivi), stabilmente legata alla nuova realtà dell’impresa e perciò espressione di uno spazio privato che non appariva più garantito nella propria intangibilità ma che, al contrario, riusciva a essere difeso solo attraverso un facere, attraverso un'attività sensibile alla rilevanza produttiva dei beni.
A risultare, tuttavia, non era l’immagine di un soggetto in balia del dispotismo statuale, se era vero che l’interesse della produzione, per potersi realizzare, rifuggiva dalla prospettiva di una «disciplina amministrativa dei beni» (p. 161), visto che una pubblicizzazione a tappeto della dinamica giuridica avrebbe finito per spegnere le iniziative individuali che rimanevano, anche nel mutato contesto storico, il più efficace motore dell’intera realtà economica.
Sostenere che la proprietà si trasformava in «potere […] discrezionale» (p. 176) fu il modo che consentiva a Finzi di sottolineare la necessaria coesistenza tra vincolo – nella determinazione dei fini della attività individuale – e libertà – nella scelta dei mezzi ritenuti più idonei a conseguire il risultato produttivo. A essere immaginato da Finzi fu dunque un «concorso attivo» (p. 163) tra privato e pubblico, concorso che, ai suoi occhi, doveva costituire il tratto tipico di quell’ordinamento corporativo che il fascismo ambiva a disegnare e al quale Finzi guardò con fiducia.
Non c’era peraltro contraddizione tra il Finzi che il 20 gennaio 1945 chiese l’abrogazione dei codici fascisti, scorgendo anche nei riferimenti al corporativismo i segni nefasti del passato regime (Il problema dei codici fascisti, «La nazione del popolo», poi in Cappellini 1999, pp. 283-85), e il Finzi che nel 1950 sostenne come le disposizioni in tema di rapporti economici e di funzione sociale della proprietà contenute nella nuova Costituzione democratica non fossero poi troppo diverse dalle concezioni corporative circolanti negli anni precedenti (Riflessi privatistici della Costituzione, in Commentario sistematico alla Costituzione italiana, a cura di P. Calamandrei, A. Levi, 1° vol., p. 38).
E non c’era contraddizione proprio perché Finzi, con la richiesta di abrogazione dei codici, perorava l’immagine di un diritto che, per essere avvertito come patrimonio condiviso di civiltà, doveva allontanare da sé il velo di un'origine autoritaria (Cappellini 1999, pp. 276-78); mentre l'asserita vicinanza tra alcune interpretazioni del corporativismo e le disposizioni della Costituzione repubblicana confermavano, dal suo punto di vista, l’ineluttabilità del ciclo storico che si era aperto all’indomani della guerra, ineluttabilità che gli permetteva, da un lato, di rivendicare la perdurante attualità delle posizioni da lui espresse nel 1922, e, dall’altro, di sostenere in Riflessi privatistici – di nuovo voce isolata tra i giuristi – la capacità delle nuove norme costituzionali di incidere sulla dimensione privata del diritto anche a prescindere dall'emanazione di un'apposita legislazione attuativa.
Le teorie degli istituti giuridici, «Rivista critica di scienze sociali», 1914; estratto, Firenze 1914.
Il possesso dei diritti, Firenze 1915; rist., con introduz. di S. Romano, Milano 1968.
Studi sulle nullità del negozio giuridico. 1: l’art. 1311 del codice civile, Bologna 1920.
Le moderne trasformazioni del diritto di proprietà, «Archivio giuridico», 1923, pp. 71 e segg.; estratto, Firenze 1923.
Verso un nuovo diritto del commercio, «Archivio di studi corporativi», 1933, pp. 204 e segg.
Diritto di proprietà e disciplina della produzione, in Atti del primo congresso nazionale di diritto agrario, 21-23 ottobre 1935, Firenze 1936, pp. 159 e segg.
Riflessi privatistici della Costituzione, in Commentario sistematico alla Costituzione italiana, a cura di P. Calamandrei, A. Levi, Firenze, 1950, 1° vol., pp. 33 e segg.
P. Grossi, Stile fiorentino. Gli studi giuridici nella Firenze italiana 1859-1950, Milano 1986, in partic. pp. 168 e segg.
P. Cappellini, Il fascismo invisibile. Un’ipotesi di esperimento storiografico sui rapporti tra codificazione civile e regime, «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 1999, pp. 175-291, in partic. pp. 237-83.
P. Grossi, La cultura del civilista italiano. Un profilo storico, Milano 2002, in partic. pp. 61 e segg.
I. Stolzi, L’ordine corporativo. Poteri organizzati e organizzazione del potere nella riflessione giuridica dell’Italia fascista, Milano 2007, in partic. pp. 392 e segg.
P. Grossi, Un giurista solitario: Enrico Finzi, in Id., Nobiltà del diritto. Profili di giuristi, Milano 2008, pp. 19 e segg.